L’Addio a Fabrizio

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Ciao. Volevo essere la prima a salutarti stamattina. Per l’ultima volta. E così sono arrivata in anticipo, il cancello era chiuso. Non ti avremo salutato mai abbastanza. Ma non ero sola, ben presto si è formata una piccola fila di gente. I cancelli, ancora chiusi, ci impedivano di raggiungere la vista del tuo corpo, ma ti sentivamo nell’aria, in quel venticello caldo ed impalpabile. Respiravamo la tua stessa aria. Aria di Morte, ma di una morte luminosa, così come solo la tua poteva essere. Poi i cancelli si sono aperti e ti abbiamo raggiunto, così, in fila. Non ci conoscevamo, ma è bastato uno sguardo tra di noi per riconoscerci: ci accomunava lo stesso dolore: la perdita non di un uomo qualunque, ma di un Uomo. E’ stato doloroso vederti così, in quella bara, neppure un mese fa ti avevo visto al tuo posto, nell’Aula B, la toga, il tuo “State comodi”, il tuo intelligente sorriso. Ecco, ero certa che lo avrei ritrovato anche oggi ed è stato così, come ero certa che ti avrei ritrovato nella stessa stanza dove era mamma. Ad anni di distanza, il dolore si rinnova sempre. Anzi, rimane sempre uguale, cristallizzato all’ultimo momento, all’ultimo bacio, all’ultima stretta di mano. Come qualcuno ha scritto “Il ricordo della felicità non è più felicità, il ricordo del dolore è sempre dolore”. E così, come il rosario che sfilava mia nonna, mi sono comparsi davanti agli occhi tanti momenti. Attimi in cui hai sempre rispettato il lavoro altrui dicendo:”Venga dottoressa, la libero subito”. Ecco, era un incoraggiamento, per me che ogni volta che varcavo la porta del Tribunale, mi sentivo quasi “imputata”. E ogni volta che dicevo a mio marito:”Vado in Tribunale”, lui mi chiedeva:”Cosa hai fatto'”. Mi avevi visto ancora poche volte, eppure ti ricordavi: quando arrivavamo in contemporanea in Tribunale, tu non mi facevi perquisire, dicendo:”Lei è una mia consulente”. Ed era bello questo senso di appartenenza. La mia attività di consulente è iniziata praticamente con te, e ora dovrà continuare senza di te? Ricordo la prima volta, quasi non sapevo dove sedermi e tu con il tuo sorriso:”Dottoressa, venga, si accomodi!”, indicando il mio posto. E ogni volta che mi trovavo lì, a confrontarmi con la tua intelligenza, dovevo superare la mia sensazione di inadeguatezza. Ma il tuo sguardo interessato a ciò che dicevo, mi incoraggiava. Ogni incontro con te non era, banalmente, l’esposizione di un lavoro, ma un cercare insieme i motivi. Quando, poi, una volta, mi parlasti, così, nei corridoi, della tua malattia, come se fossi stata una tua amica, ne parlasti semplicemente, come un banale disturbo passeggero. Sei stato capace di farci credere che ce l’avresti fatta. Perchè volevi farcela. Ecco perchè la notizia della tua morte ci ha lasciato attoniti. Era come se, all’improvviso, fossero crollate tutte le nostre certezze, ma forse, ancora una volta, non le tue. E’ per questo che ti scrivo qui, tu che non amavi i social, nella speranza che da qualche parte, dispersa nell’aria che respiriamo tutti, la tua intelligenza legga. Siamo tutti soli di fronte alla morte, ma ci consola che, forse, in compagnia dell’amore di tutti quelli che ti hanno conosciuto ed apprezzato, tu lo sia stato meno di altri. Mi viene spontaneo considerare che la vita sia stata, però, particolarmente ingiusta con te che, prima ancora di essere uomo di Giustizia, eri un Uomo Giusto. Ed ecco che mi sembra di riudire la tua voce, quando al tecnico del suono chiedevi: “E’ spento il microfono?”. Ora lo sappiamo tutti, senza che tu l’abbia chiesto: il tuo microfono è spento per sempre.

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