Mente e corpo non sono due entità separate, ma viaggiano in contemporanea, se tutto va bene, ossia se siamo nel cosiddetto processo di “integrazione psicosomatica”. Se c’è qualcosa che non va, il viaggio sincrono si ferma. La “dissociazione psicosomatica”, ad esempio, possiamo vederla come il nucleo dei disturbi del comportamento alimentare: l’effetto è la separazione della mente dal corpo, con la egemonia assoluta della mente e la negazione ed abbandono del corpo, vissuto in modo claustrofobico, nella anoressia, e la lotta continua ed il loro ciclico prevalere nella bulimia. Negli attacchi di panico si realizza in modo fulmineo la reversibilità di questo processo che costituisce l’attività mentale per cui viene a mancare la funzione di contenimento e regolazione della mente ed il soggetto si trova esposto alla invasione “marasmatica” del “fisico” con la sensazione di “star per perdere la testa ed il corpo”( Ciocca e Procaccio,1994).
Questa ipotesi è stata sostenuta da molti. Qui mi soffermerei, tra gli altri, agli studi psicoanalitici di Armando Ferrari, che ne “L’eclissi del corpo. Una ipotesi psicoanalitica” del 1992, sostiene che la posizione dualistica di mente e corpo può essere superata attraverso il concetto di Oggetto Originario Concreto (OOC), in cui funzioni organiche (somatiche, metaboliche, ecc.) si articolano con funzioni mentali.
Ferrari propone l’ipotesi che il livello simbolico e il livello neurofisiologico della mente possano essere messi in correlazione per spiegare i processi della coscienza.
Fin dalla nascita la mente deve fare i conti con quello che vuole il corpo, il processo che relaziona la mente al corpo del bambino è chiamato “Uno”; da cui nascerà un altro processo che porterà alle rappresentazioni e alla simbolizzazione, il “Bino”. In questo passaggio dall’ “Uno” al “Bino”, cioè dal corpo alla simbolizzazione, inizia l’eclissi dell’Oggetto, che non scompare completamente ma rimane come vita mentale dell’adulto. Ruolo centrale in questo processo è svolto dalla “reverie” materna, che funge da “catalizzatore”, in quanto nella relazione primaria si stabilisce così un doppio rapporto: “verticale” della mente con il proprio oggetto (dominato da sensazioni fisiche) e un rapporto “orizzontale” del bambino con la madre. Il mondo può essere, quindi, conosciuto dal bambino attraverso il rapporto verticale con il proprio corpo, al contrario della Klein, secondo la quale il mondo interno del bambino si struttura attraverso il rapporto orizzontale con la madre (The Development of a Child, 1923)
In ambito clinico questo modello cioè permette di guardare ai disturbi psicosomatici da un nuovo vertice e di collegarli ad una serie di eventi primari che hanno avuto per protagonista il rapporto della mente con il corpo e la relazione con la madre. È chiaro che un disturbo di questi eventi favorirà “il passaggio verso la fisicità di tutti quegli aspetti che la mente trova difficoltà a rendere pensabili”. Anche eventi patologici collegati al corpo (come la caduta dei fattori immunitari) possono essere il risultato di un particolare stato in cui la mente è incapace di trasformare le angosce per renderle pensabili.
Da tempo la ricerca ha documentato che se si soffre di depressione, aumenta il rischio di ammalarsi di diabete. E’ più recente, invece, la prova della relazione nella direzione inversa. Uno studio pubblicato su Archives of Internal Medicine (22 Novembre 2010), dimostra che chi è ammalato di diabete è maggiormente esposto a soffrire di depressione. Lo studio fa parte di una grande ricerca americana, il Nurses’ Health Study, che ha coinvolto oltre 65 mila infermiere seguite per 10 anni. La correlazione bidirezionale tra depressione e diabete è stata accertata ed è risultata statisticamente significativa. Dunque, le malattie che affliggono il corpo possono avere una ricaduta negativa anche sulla mente, sull’umore, ad esempio, ed alla base ci sarebbe un processo infiammatorio. E’ emerso un movimento bidirezionale: in corso di depressione si produce infiammazione, ma anche un’infiammazione può causare depressione.
Riguardo all’infiammazione prodotta dalla depressione, studi iniziati negli anni Novanta da Michael Maes hanno evidenziato una produzione in eccesso di sostanze (citochine) infiammatorie in corso di depressione. Uno studio realizzato in Finlandia su oltre seimila persone ha documentato una relazione diretta tra depressione e proteina C reattiva (PCR), marker dell’infiammazione: più importanti e di recente insorgenza erano i sintomi depressivi, maggiore era il livello di Pcr e quindi di infiammazione. Un’altra prova della correlazione tra depressione e infiammazione è venuta da uno studio dell’Università di Londra, che documenta elevati livelli infiammatori in adulti depressi con, in anamnesi, abusi fisici e/o sessuali nell’infanzia.
Invece, riguardo alla depressione prodotta dall’infiammazione, sull’animale da esperimento si ha la prova che un tumore o un’altra condizione infiammatoria, mettono in circolo citochine e altre sostanze infiammatorie che ritroviamo poi nei circuiti cerebrali che governano l’umore. Recentemente, con l’ausilio della risonanza magnetica funzionale, questa dimostrazione è stata data anche sul cervello di esseri umani: le citochine infiammatorie, quando dal corpo vanno al cervello, sembrano preferire quelle aree da cui dipende il nostro “buon” umore.
In realtà sarebbero stati chiamati in causa anche fattori emozionali, che potrebbero determinare, attraverso uno stato di stress cronico, l’insorgenza di stati depressivi.
In questo senso un lavoro terapeutico di tipo analitico si propone l’ obiettivo che si riferisce alle emozioni e alle possibilità di consapevolezza: aiutare il paziente in ogni suo vissuto a dar posto alle emozioni, sopportandole e facendone esperienza e fargli vedere l’uso che fa della sua mente che, spesso, sembra più indirizzato a mantenere le difese contro le emozioni che ad essere presente nelle situazioni del momento.
Uno studio europeo, inoltre, ha stabilito una relazione diretta tra numero di eventi negativi subìti negli ultimi cinque anni e prevalenza della depressione in un campione di oltre 20 mila persone. Aver subito quattro eventi negativi, come la morte di una persona cara, triplica il rischio di depressione rispetto a chi ne ha subito solo uno. Chi ha perso un figlio sotto i 18 anni, in particolare le madri, ha presentato un aumento del 67 per cento del rischio di ricovero ospedaliero per disturbi mentali, soprattutto di tipo depressivo. Ma tra le perdite importanti e significative c’è anche quella dell’attività lavorativa, in quanto il lavoro è uno dei determinanti fondamentali dell’identità personale e sociale di ognuno di noi. Il benessere psichico di ciascuno è stabilito dal suo stato sociale: se la stima sociale è scarsa, lo sarà anche l’autostima e l’equilibrio mentale sarà a rischio.
Riferimenti bibliografici
Ciocca A, Procaccio W,1994, Le crisi di panico, Psicoterapia ed Istituzioni, 2: 79-90.
Ferrari A, 1992, L’eclissi del corpo. Una ipotesi psicoanalitica, Borla, Roma