La felicità è conoscere e meravigliarsi
Jacques Cousteau
Con queste righe non voglio suscitare stupore, né destare l’altrui curiosità.
Queste riflessioni sono piuttosto rivolte a me stessa ed alla complessità sempre più dilagante oggi nel provare questo sentimento.
Abbiamo fatto l’abitudine a tutto, nulla più ci fa rimanere a bocca aperta e con gli occhi sbarrati di stupore. Ogni cosa è scontata, data per certa. Può suscitare meraviglia ciò che non ancora è nostro, ci stupiamo sempre meno di fronte ad uno spettacolo della natura, e sempre più in termini oggettuali e di possesso. Ma, anche in quel caso, lo stupore passa presto: se riusciamo ad ottenere, narcisisticamente, ciò che desideriamo, nel momento in cui diventa nostro, spesso non suscita in noi più alcun sentimento e passiamo oltre. Allorquando, invece, ci accorgiamo che non sarà mai nostro, allora la ferita narcisistica sarebbe troppo grande da tollerare e rivolgiamo subito l’attenzione altrove, verso un altro oggetto, un’altra preda. E così via…all’ affannosa ricerca di qualcosa che possa riempire il vuoto che abbiamo dentro. Abbiamo perso, e dovremmo cercare di recuperare, la capacità che hanno i bambini di lasciarsi sorprendere da tutto quello che non conoscono e che vedono per la prima volta. Nulla è più bello che rimanere con gli occhi spalancati dinnanzi ad un tramonto, ad una cascata, ad un paesaggio della natura, perdersi nell’ immensità che appartiene a chiunque e che non sarà mai solo nostra, perché non potremo mai possederla come un oggetto. Non c’è un prezzo da pagare, non è un’asta al rialzo, non è in vendita, eppure ognuno di noi la sente un po’ anche sua.
E’ un’emozione che gli anglosassoni chiamano “awe”, e che in italiano non ha un termine esattamente corrispondente, è lo sbigottimento che lascia senza parole, va oltre la soglia della meraviglia, è uno stato d’animo sospeso fra il timore reverenziale e l’estasi.
Si vive in una dimensione atemporale, ci si sente immersi in uno spazio infinito, in cui i confini tra il sé e l’altro diventano labili ed indistinguibili. Questo accade allorquando ci si sente minuscoli di fronte alla vastità del mondo, una piccola parte dell’universo, o grandiosamente impotenti di fronte alla vita.
Per Aristotele la meraviglia è la causa del filosofare, stupirsi, lasciarsi sorprendere dalle cose, rimanere in ascolto, tacendo, come sintomo del pensiero speculativo tipico della grecità, che rende la riflessione greca diversa dalla sapienza delle altre culture.
La psicologia ha iniziato solo di recente ad occuparsi di questo fenomeno, forse perché, appunto, sono sempre meno le cose che ci meravigliano: quando nasce un figlio e ci si accorge del vero prodigio del mistero della vita, quando chi amiamo ci stupisce con una sorpresa inaspettata, quando ci fermiamo ad assistere al miracolo del cielo stellato.
Melanie Rudd, Kathleen Vohs e Jennifer Aaker hanno provato a riprodurre in laboratorio queste sensazioni, per studiarle con i metodi della psicologia e per condurre la loro ricerca, che è stata pubblicata recentemente su “Psychological Science”, hanno mostrato ai soggetti immagini allegre oppure molto maestose, osservando che chi viene sottoposto a queste ultime, nei tests si dimostra meno impaziente, e più collaborativo. La meraviglia, dunque, attenua l’ansia che si prova per tutti i nostri problemi, compreso lo scorrere inesorabile del tempo.
E così molto probabilmente fu uno stato di “awe” quello che provò san Paolo, folgorato sulla via di Damasco, al cospetto di una luce accecante, i sensi portati allo spasimo e sperimentando quasi una trasformazione del sé.
Nel testo hindu Mahabharata, Krishna porge ad Arjuna un occhio cosmico, che porta alla luce divinità, stelle, spazio e tempo senza limiti.
Noi siamo soliti esclamare “wow”, ma awe è “oddio”, o piuttosto, è silenzio.
Paul Pearsall in Awe: The Delights and Dangers of Our Eleventh Emotion (HCI Books), scrive che le emozioni sono undici, ma mentre le altre fonti di stupore meno intense ci predispongono all’azione, lo stupore ci immobilizza, come se l’ammirazione racchiudesse in sé la paura al cospetto dell’infinito, ma, assieme, l’impossibilità di fuggire, come capiterebbe nelle situazioni di pericolo.
L’emozione più bella che possiamo sperimentare, secondo Einstein, è il “mistero”, così come per molti di noi rimane un mistero che in una formula si possa racchiudere il funzionamento di tutto l’universo.
Così come l’Amore: non lo si possiede, lo si può solo contemplare nella sua più intima essenza, eppure se lo si conosce, se lo si sperimenta su di sé ed in sé, è un sentimento così intenso che può anche superare l’ atavica paura della morte che spesso ci attanaglia e paralizza in senso negativo e non contemplativo. Dopo aver conosciuto l’amore, si può anche morire, non c’è meraviglia più grande.
Non ci resta, allora, che reimparare a godere delle piccole, ma immense cose che ci circondano o che ci capitano nella vita. Il cielo stellato e le persone che amiamo sono vicini a noi: non dimentichiamoci di fermarci a guardarle.