Ti ho mancato o ti sono mancato: come un ausiliare può cambiare il senso della vita.

“Il mancarsi è già un appartenersi”
Lailly Daolio

Riflettevo sulla bellezza della lingua italiana, sulle sue sfumature che molte altre non hanno, a volte così stringate e lapidarie. L’italiano è così ricco di particolarità semantiche, eppure così comprensibilmente chiaro quando si sa cosa si vuole dire. Non è una lingua che possa dare adito a confusioni, a meno che non si voglia essere ( volutamente, appunto) confusivi.
Il sentimento della mancanza è uno di quelli che più spesso e perdutamente proviamo nella nostra vita.
Ma nella forma attiva retta dall’ausiliare avere ha un significante molto diverso da quella passiva con l’essere.
“Ho mancato” è nel senso di fallire: mancare un colpo, il bersaglio ( ad esempio, mancare la palla, non prenderla, non riuscire a colpirla, oppure perdere: mancare un’occasione, ti ho mancato per un pelo, avrei potuto vederti ma per un soffio non ci siamo incontrati). Nell’ “attività” dell’azione vi sarebbe una sorta di “distanza emotiva”, quella dettata dalla sensazione che si sarebbe potuto fare una certa cosa, ma non la si è fatta, per fatalità o per errore. E’ come dire: “Pazienza, è andata così”
Ma mi sembra ( e mi è sempre sembrato nella mia esperienza) di cogliere nella coniugazione passiva, una sorta di resa nelle mani e al pensiero dell’altro, la necessità di una rassicurazione.
La mancanza, in questo senso, indica un desiderio che deve essere in alcuni casi procrastinato, forse per un tempo non noto. Ci dà, a volte, come la sensazione di una dilatazione spazio-temporale: il genitore, il figlio, l’amato/a, l’amico/a sembrano irrimediabilmente lontani nel tempo e nello spazio. Mancanza è assenza dell’oggetto amato, ma anche sensazione di appartenenza: io sono tuo, sono qui, tu mi manchi. Mi sento perso senza di te. “Mi manchi” è più che “Ti amo”, avevo letto una volta, condividendo: Ti amo è una frase che non implica e non necessariamente comprende una reciprocità di sentimenti. Io te lo dico, ma tu potresti anche non ricambiare. Mi manchi è una specie, appunto, di resa: senza te sono privo di qualcosa, ho bisogno di te per tornare ad essere un intero. Senza di te è come mi mancasse una parte di me. E’ una mutilazione. Temporanea, ma pur sempre una mutilazione.
La sensazione di vuoto generata dalla mancanza ci fa comprendere il valore che una persona ha nella nostra vita. O il valore che ha avuto se ha deciso volontariamente di andare via da noi. O se il destino ha voluto portarcela via tragicamente. Questa è una mancanza fine a se stessa, non sanabile. L’avvicinamento è impossibile.
Altrettanto importante ed intensa può essere la mancanza di luoghi, dove abbiamo vissuto o dove siamo nati, di situazioni che si vorrebbe ricreare.
Ma non solo la mancanza dell’amato, anche la mancanza dell’amore come sentimento e la sofferenza che si prova nel non averlo.
L’amore corrisposto è quello che travolge e che fa emozionare inaspettatamente. Quello che ti fa alzare al mattino pensando alla persona che ami e sapendo che lei sta pensando a te. La mancanza in questo caso è struggente presenza. Ma presenza. Se questo non c’è, se il sentimento non è corrisposto, se non vi sono affinità elettive, ma tormenti, o continue delusioni, lasciamolo andare. Non era la strada per noi.
“Ti sono mancato?” è come cercare una traccia della propria presenza nella conferma del senso dell’assenza nella vita nell’altro.

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