Perchè non parlarne? Perchè far finta che non esista? Perchè cercare di nasconderlo o dissimularlo ed annegarlo in false vittorie? Il fallimento esiste e fa parte della nostra vita. Anzi, molte volte ne costituisce gran parte. Ma noi, abituati come siamo a pensare che sia la vittoria a dare lustro, cerchiamo di mettere sempre quella in risalto. Misuriamo noi stessi col metro del “valore” e non del “disonore”, con il metro della “riuscita” e non certo della “perdita”, con la classica domanda che rivolgiamo a noi stessi “Perchè no?”, invece che imparare a fermarci consapevoli dei nostri limiti. Come se il limite fosse insensato. Ecco perché, allorquando non siamo noi capaci di darcene, è la vita che ci mette alla prova e ci insegna, è la vita che sembra dirci:” Hai fallito, dunque sei…”. Ma come può esservi funzione educativa nel legame familiare, sostiene Massimo Recalcati, se per primi i genitori non vogliono essere consapevoli dei limiti dei loro figli e continuano a crescerli come se a tutti i costi dovessero essere vincitori, non insegnando, invece, loro a perdere? Eppure la vittoria in sé non insegna nulla, è la perdita che insegna ad essere al mondo e ad essere nel mondo. E’ la perdita che ci mette “vis a vis” con la nostra imperfezione, con la nostra pochezza, con il senso del limite. Limite che ci ricorda che, se proviamo ad oltrepassarlo, lì ci sarà la perdita, di parte di noi o della nostra stessa vita. E’ questo il senso di disperazione che accompagna la vita del depresso, da sempre perdente, che oltrepassa il limite della vita, andando incontro alla morte, non più temuta, ma bypassata ed, in quanto tale, centrata alla perfezione, come se non potesse esserci un confine tra un prima ed un dopo, un dentro ed un fuori. Come è possibile per i genitori introdurre la funzione virtuosa del limite, sostiene Recalcati, funzione che assegna un senso possibile alla rinuncia e che rende possibile l’unione di norme e desiderio – se tutto tende a sospingere verso l’appagamento iperedonistico, senza differimenti? Come sostenere la funzione educativa della rinuncia e del limite, quando la rinuncia al godimento pulsionale immediato è vista come sempre più insensata?
Esisterebbe nel discorso educativo una duplice difficoltà, rappresentata, da un lato dalla
assenza di conflittualità come fattore imprescindibile della formazione, che è diventato uno sintomi maggiori del legame familiare e del legame sociale ipermoderno. Un genitore che sa dire dei “No” è un genitore che si pone in conflitto, conflitto che non è più come voleva l’ Edipo, la tragedia dell’usurpazione. Il disagio della giovinezza è un disagio legato a un effetto di intasamento generato dall’eccesso di godimento, al quale si è abituati. Non è più ammessa la rinuncia, la castrazione, la perdita. Non si tratta più di un conflitto generazionale tra le ragioni dei figli e quelle dei padri, ma di come accedere all’esperienza del desiderio. Desiderio non più “desiderato”, perché già ottenuto prima ancora di essere espresso. Senza limite, rinuncia, perdita.
Questa assenza delle figure genitoriali come capaci di dare un limite comporterà un’assenza di formazione all’essere “giovani-adulti”, con mancata acquisizione delle responsabilità che essa comporta.
La seconda difficoltà, ma non seconda per ordine di importanza, è la frustrazione che avvertirebbero i genitori stessi nell’ammettere i limiti nei loro figli, che riprodurrebbe in modo speculare, ma forse meno tollerabile, il loro stesso limite.
Un buon genitore adulto è quello in grado di fornire una testimonianza su come si possa esistere, pur realizzando ed accettando la perdita, senza per questo desiderare il suicidio e, comunque, sulla base di questa perdita ricostruire la propria vita.
Sarebbe compito della funzione paterna sostenere un “No!” che sia davvero un “No!”, senza che questo vanifichi un altro desiderio vitale e capace di realizzazione. Perché questo compito è oggi così difficile da sostenere?
La prima angoscia provata dai genitori è relativa all’esigenza di sentirsi amati dai loro figli e alla paura che un “No!” possa vanificare questo amore.
Per risultare amabili è necessario dire sempre «Sì!», eliminare il conflitto, delegare le proprie responsabilità educative non si sa a chi e generare una collusività patogena tra un “Sì!” perpetuo ed un “Perché no?” perverso.
Tutta la clinica psicoanalitica mostra che senza l’esperienza del limite, l’esperienza stessa del desiderio viene fatalmente attratta verso il desiderio della morte. La funzione dell’analista non è quella di creare una corazza narcisistica, ma di scardinarla. L’analisi non elogia la prestazione, ma è l’elogio della mancanza, del fallimento. Il fallimento, per Lacan, è proprio del funzionamento dell’inconscio. La sua definizione di “atto mancato” è quella di solo atto riuscito possibile, perché è un atto mancato per l’io, ma è riuscito per il soggetto dell’inconscio. Lo stesso dicasi dei lapsus. In questo senso, la giovinezza è il tempo del fallimento o, meglio, è il tempo dove il fallimento dovrebbe essere consentito. È quel tempo del dubbio, dell’indecisione, delle decisioni sbagliate, degli entusiasmi che si dissolvono e si convertono in delusioni.
E’ indispensabile che qualcuno, e non necessariamente il genitore, come sosteneva Lacan, ma “qualunque cosa” possa esercitare la funzione paterna, si assuma la responsabilità di introdurre la castrazione simbolica, una perdita che ha però in sé in nuce l’esperienza della donazione. Non si tratta, infatti, di una pura negazione repressiva, ma di una negazione che sa rendere possibile il desiderio: una generazione deve saper donare all’altra, insieme al senso del limite, la possibilità dell’ “av-venire”.
Le attese narcisistiche dei genitori rifiutano di misurarsi con questo limite attribuendo ai figli progetti di realizzazione obbligatoria, in cui si è falliti noi stessi. Ma, come scrive Sartre, se i genitori hanno dei progetti per i loro figli, i figli avranno dei destini… e quasi mai felici. Avere un figlio senza difetti, capace di qualsiasi prestazione, riflette l’ angoscia dei genitori. Il fallimento o meglio, anche ammettere soltanto la possibilità del fallimento del figlio è una coazione a ripetere di quello che in sé è stato vissuto come fallimento.
Una ripetizione dello stesso destino. Meglio, invece, cercare di occultare ogni imperfezione. Non è un “Diventa come me!” dei padri di qualche generazione fa, ma un’esigenza superegoica di efficienza, un “Diventa meglio di me!”. I nostri giovani non sopportano più lo scacco perché a non sopportarlo sono innanzitutto i loro genitori, come se immancabilmente il successo si accompagnasse alla soddisfazione. E come se l’insuccesso fosse la nostra fragilità allo specchio Ecco perché invece di mettere al mondo dei figli capaci di diventare un giorno giovani-adulti, mettiamo al mondo dei figli che rimarranno eternamente bambini. Ma perdere il bambino che alberga dentro di noi è necessario per cercare di trovare l’adulto con il quale proseguire il cammino.
