Il suicidio come scelta o alternativa?

“Quando l’uomo libero pensa alla morte, la sua è una meditazione sulla vita”.
Spinoza

Gli eventi drammatici degli ultimi giorni di cui mi è giunta notizia, oltre, inevitabilmente, al mio lavoro di psichiatra, mi porta a riflettere su un evento spesso, purtroppo, del tutto imprevedibile, si vede, soprattutto, nei nostri giovani. Come si possa decidere di togliersi la vita a venti, a trent’anni, per noi più, spesso rimane un mistero. Anche, purtroppo, agli “addetti ai lavori”. Facciamo ipotesi, postuliamo teorie, ci arrampichiamo sugli specchi della psicopatologia, ma scivoliamo miseramente ad ogni nuova, tragica notizia. Perchè un ragazzo od una ragazza che avrebbero una vita davanti a sé, ad un certo punto, scelgono, quasi inspiegabilmente, il suicidio? Oggi non sembra valere neppure più quello che ci hanno insegnato all’università: che percentualmente sono le donne a mettere in opera tentati suicidi, ma sono gli uomini che ci riescono più facilmente, perchè apparentemente più determinati. No, oggi le ragazze pianificano con altrettanto fredda determinazione ed arrivano a quello che per loro è un “successo”: riuscire a togliersi la vita. Sento dire da più parti che i giovani oggi hanno tutto e non sanno più cosa provare: la pratica di sports estremi sarebbe una prova di voler sperimentare emozioni sempre nuove e scuotenti. La vita come sfida, insomma. In parte è così, forse, ma credo che il malessere sia molto più profondo e alberghi in tutti noi che formiamo la società. I giovani, è vero, hanno la possibilità oggi di vivere in modo più agiato e libero ( alcuni), ma di questo sanno perfettamente di non avere loro il merito: sono i genitori a foraggiarli ed a viziarli. Certo, apparentemente, ne approfittano, a volte in modo cinico, ma cosa sarà del loro futuro? Incerto, molto più sicuramente di quello dei giovani di qualche decennio fa. A scuola si insegna sempre più tecnologia e sempre meno come siamo fatti “dentro”, i nostri sentimenti, che, certo, non possono essere materia d’insegnamento, ma verso cui i nostri giovani dovrebbero essere educati alla scoperta. L’animo umano non è un hardware e non può essere trattato come se lo fosse: se si rompe, non ce n’è un altro che lo sostituisce. Ecco, è un pò come se la morte potesse essere considerata un evento provvisorio, e la vita quasi sostituibile…Oppure la vita e la morte come scelta, come una opzione? Rispettabile, certo, ma non la morte scelta a vent’anni, quando si avrebbe ancora tutt’altro da scegliere.
Ne “Le riflessioni sul suicidio” di James Hillman, leggiamo che l’atto suicidario, da sempre condannato dalla civiltà occidentale, al contrario di quella orientale (il “seppuku” nella cultura giapponese), il rinnegamento della vita con un atto volontario, continua a essere considerato un tabù da circoscrivere e da stigmatizzare quale atto deviante, provocato fondamentalmente da un’instabilità psichica. Perfino la psicoanalisi ha affrontato raramente quest’argomento, come se ci fosse una sorta di timore reverenziale a parlarne. Lo stesso timore che ci porta a parlarne poco con i nostri pazienti e soprattutto, a non essere noi a portarli sull’argomento, come se potesse essere “banalmente” un suggerimento, come se potessimo noi sentircene responsabili. James Hillman è autore anche di un breve ma intenso saggio, dal titolo “Il suicidio e l’anima”, pubblicato nel 1964 e più recentemente riproposto.
L’analista e filosofo junghiano giunge direttamente al punto della questione, affrontato, bilateralmente, dall’ottica di chi lo vuole usare per giungere al termine della sua esistenza e da quella di chi, invece, lo affronta dal di fuori, oggettivamente, ossia il terapeuta.
L’assunto dal quale parte Hillman è che se esiste l’idea della morte, quale elemento irrinunciabile nella vita di ogni uomo, allo stesso tempo non si capisce perché con l’idea della morte non possa essere presa in considerazione anche quella del suicidio, che considera la veicolazione della morte attraverso progettualità e decisioni che prevedono il ruolo di protagonista in chi lo vuole compiere.
Un punto di vista riconducibile all’enunciazione con la quale Albert Camus inizia il suo “Mito di Sisifo”: «Vi è solamente un problema filosofico veramente serio, quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia. Il resto – se il mondo abbia tre dimensioni o se lo spirito abbia nove o dodici categorie – viene dopo. Questi sono giochi: prima bisogna rispondere». Già, rispondere…
Accettare l’idea della morte, quindi, significa accettare anche l’ipotesi del suicidio, come afferma Hillman alla fine della prima parte del suo libro: «L’esperienza della morte è necessaria, vie di uscita non ce ne sono, né mediche né simboliche… Come la religione, come l’amore, come la sessualità, la fame, l’istinto di autoconservazione, e come la paura stessa, la tensione verso la morte è tensione verso la verità fondamentale della vita. Se alcuni chiamano Dio questa verità, allora la tensione verso la morte è anche tensione verso l’incontro con Dio, che per taluni teologi è reso possibile soltanto dalla morte. Il suicidio, tabù per la teologia, chiede con forza che Dio si riveli».
Hillman lascia intendere che cercare di accettare l’idea del suicidio in fondo sia un altro modo per arrivare fino all’ anima, svincolata, da ogni “interferenza” di ambito teologico, religioso e spirituale. Conoscere ciò che noi intendiamo quale anima, i suoi meccanismi, i suoi processi, diventa indispensabile per andare incontro a chi vuole concedersi al suicidio. Ma il problema rimane insoluto ed il dibattito aperto:” Quanto conoscono i giovani della loro anima?”

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