Empatizziamo?

Il termine ” empatia” è qualcosa che comunemente tutti utilizziamo, nel suo significato dello “stare nei panni dell’altro”. Si può dire che sia diventato un ” contenitore” di tutto ciò che ha a che fare con l’affiliazione umana, ma anche un “contenuto”, che viene utilizzato quasi in ogni contesto, sminuendo, a volte, ad un atteggiamento “semplicemente” partecipe, il suo più complesso intreccio di significati. In effetti questa è proprio la definizione basilare di empatia, quella che rappresenta il termine in senso letterale. Ma “empatia” è anche “concetto”. dunque, non solo ciò che definiamo “mettersi nei panni altrui”, ma rappresentazione concreta dell’esperienza dell’umano incontrarsi, dell’umano comprendersi, dell’ “umana” capacità di condividere. Esperienza densa di significati, azioni, linguaggi da poter essere difficilmente definita. Proprio qui risiede la superficialità con cui questo termine è utilizzato e la sua velocità di diffusione in tutti i campi. E la percezione che l’ espressione non definisca, ma “quotidianizzi” uno dei sentimenti più nobili dell’animo umano. Sì, empatia come sentimento, come umano sentire, avvicinarsi all’altro ma non solo con la simpatia di un amico che consiglia, bensì con la compartecipazione neutrale dell’esperienza altrui. A cosa sarebbe riconducibile questo sentimento? Ai neuroni a specchio, che ci permetterebbero di rifletterci nel “patire” altrui, restituendo un’immagine unitaria di noi. Alla creazione di uno spazio intersoggettivo utile ad avvicinarci all’altro pur non invadendo il suo spazio “soggettivo”. Ciò che spesso sbrigativamente chiamiamo empatia comprende fenomeni molto diversi tra di loro: una madre che guarda negli occhi il suo bambino, capisce immediatamente di che cosa il bambino ha bisogno, l’innamorato intuisce i desideri dell’innamorata e questo permette di anticiparne con sorprendente naturalezza le intenzioni, desideri, comportamenti e riconoscerne le emozioni. L’empatia, in chiave evolutiva, può essere pensata proprio come quella bussola che ci permette di esplorare il mondo, per capire se ci troviamo di fronte ad un oggetto inanimato od ad un oggetto animato, o ad un nostro simile. Se l’empatia è parte fondante di ogni relazione umana, all’interno del setting psicoanalitico l’empatia è stata pensata come strumento di esplorazione, di conoscenza e soprattutto di cura della mente umana in condizioni di sofferenza mentale.
Da un punto di vista più strettamente psicopatologico, le implicazioni dell’empatia o meglio, di forme alterate o diverse dell’esperienza empatica, possono riguardare gli stati psicotici o la personalità schizoide e quella schizotipica. Cosa succede infatti se la qualità di mettersi in relazione e di poter fare “esperienza dell’altro”, che appartiene all’essere umano, risulta compromessa? Stern ha dimostrato già dalla nascita un’umana competenza alla sintonizzazione e desintonizzazione, o, come dire, una dialettica tra auto e etero regolazione nelle relazioni. Essendo impossibile mantenere sempre ed in ogni situazione uno stato di regolazione ottimale, inevitabilmente si andrà incontro ad una serie di “rotture”, in grado di essere riparate sia dalle competenze delle madre ( o di chi la vicaria), sia dalle abilità del bambino stesso. Nella psicosi, invece, interverrebbe una incapacità di sintonizzazione emotiva o una ipersintonizzazione, che si porrebbe alla base del disturbo dei propri confini o del poter vivere e sentire il mondo. Ma lo psicotico tenderebbe comunque di entrare in relazione col mondo e con l’altro, possibilità che appartiene all’uomo così profondamente, che parrebbe continuare ad esserci nonostante la destrutturazione psicotica. Ciò avverrebbe con sofferenza, i confini tra il Sè e l’altro non sono più percepibili ed allora c’è una continua confusione di limiti: il tuo dolore è il mio dolore, io soffro “come se” fossimo una cosa sola. Oppure, peggio, forse, in questo grande spazio intersoggettivo inesistente, si instaura l’indifferenza assoluta rispetto all’altro. Allora, questa sarebbe una delle più grosse patologie dell’ipseità, che difficilmente, anche allorquando gli altri sintomi sfumino, può portare allo stabilire una giusta distanza tra il sentire altrui ed il proprio.

Daniel Stern, (2000) Il mondo interpersonale del bambino, Bollati Boringhieri, Torino

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