Terrorismo e Criminologia

Nel 1974 durante il suo discorso alle Nazioni Unite, Arafat, cercando di difendere le azioni del suo popolo dall’opinione pubblica mondiale, sostenne che la differenza tra un rivoluzionario ed un terrorista sarebbe ipotizzabile nelle ragioni per cui si combatte, affermando che nessuno può definirsi terrorista se lotta per una giusta causa. La legittimità dell’atto terroristico dipenderebbe dalla legittimità della sua causa? Ma una lotta che comporta l’uso della violenza, può mai definirsi “giusta”? Sono passati anni da allora e dall’ 11 Settembre 2001, ed è passato molto meno tempo dai più recenti accadimenti, ma non è stata ancora coniata una definizione universalmente accettata del termine “terrorismo”. Attualmente, il fenomeno è inteso come una qualsiasi forma di violenza o minaccia attuata allo scopo di creare paura, di terrorizzare ed allarmare la collettività col fine di procurare cambiamenti nell’assetto sociale o politico di una nazione. Allora, l’atto terroristico, a prescindere da quali siano le sue cause o le sue finalità, poichè implica l’uso di violenza e l’utilizzo di armi, non può mai definirsi “giusto”, in quanto necessita del compimento di atti contrari alla legge. Il terrorista, sia che si muova perché spinto da ideali politici o religiosi, è prima di tutto un criminale le cui azioni destabilizzano l’intera collettività. Chi è terrorista si scrolla da dosso le proprie responsabilità in nome di un ideale più alto, definendosi un soldato, un combattente per la libertà.  I terroristi prendono ostaggi, compiono violenze ed uccisioni nei confronti dei prigionieri, atrocità di portata tale da produrre effetti psicologici devastanti, le cui conseguenze vanno ben oltre i danni fisici evidenti.

Il terrorista è, dunque, a tutti gli effetti, un criminale, ma a differenza del criminale comune che agisce per proprio interesse, mira a disseminare il panico, ad attirare l’attenzione della stampa internazionale attraverso la spettacolarità e la teatralità delle sue azioni. Gli attentati di Parigi hanno diffuso in Europa la paura e la consapevolezza che il nemico è più vicino di quanto non lo sia mai stato prima: ecco perché se si vuole fermare il terrorismo, è fondamentale conoscere e comprendere chi sono i terroristi.

Il terrorismo non è certo un fenomeno nuovo. La tecnologia e le scoperte scientifiche contribuiscono a modificare il suo “modus operandi”, ma ciò che appare profondamente cambiato rispetto agli attentati del secolo scorso, è il loro impatto sulla società. E’ per questo che la pericolosità del terrorismo, a differenza di qualsiasi altra azione criminale, non è data dal numero di vittime effettive o potenziali, ma dagli effetti psicologici che produce sulle vittime. Lo scopo di qualunque atto del genere è terrorizzare, allarmare, inibire e controllare lo stile di vita della collettività, ovviamente con risultati differenti a seconda di dove sia compiuto: più la minaccia è vicina a “casa nostra”, più forti ed esasperate saranno le reazioni. E di quell’attentato si dovrà parlare per giorni, settimane, addirittura mesi altrimenti, oltre al numero di vittime, agli occhi di chi l’ha progettato, resterebbe privo di senso.

Il terrorista prima ancora che criminale dunque, potrebbe essere definito, anche se sembra un paradosso, un essere “sociale” che vuole comunicare, rivolgersi ad una massa indefinita di individui per dimostrare, attraverso l’utilizzo di foto e video, quello che è capace di fare.

Lungi da me riuscire a fare una descrizione esaustiva dell’argomento, perchè non ne sarei assolutamente in grado, e perchè sono consapevole di avventurarmi in un terreno irto di difficoltà, ma credo che sia proprio il potere mediatico quello che contribuisca ad esaltare il fenomeno. I terroristi islamici possono considerarsi a tutti gli effetti “figli del nostro tempo”. Conoscono le leggi occidentali e sanno, forse anche meglio di noi europei, come eluderle ed addirittura aggirarle. Conoscono l’effetto ipnotico e spesso destabilizzante che può avere una notizia se ripetuta, con maggiore drammaticità, ogni giorno dalla stampa internazionale. Il controllo sociale da loro effettuato si basa sulla diffusione del terrore, da cui scaturirà necessariamente una “reazione” delle masse, le quali saranno costrette ad accettare l’emanazione di leggi e misure speciali che inevitabilmente limiteranno la libertà personale, che è alla base di ogni sistema democratico e che loro hanno intenzione di demolire. Assistere alla violenza genera paura, destabilizza, provoca uno stato di angoscia che può immobilizzare, oppure generare nuova violenza.

La paura, come ogni sentimento umano, ha una componente razionale ed una irrazionale destinata a generare angoscia (dal verbo latino “angere”,  “stringere”). La paura del crimine è diventata una vera e propria fobìa in grado di determinare distorsioni cognitive: si assiste sempre più alla“vittimizzazione vicaria”, in cui venire a conoscenza di reati, di stragi ed attentati terroristici anche dall’altra parte del mondo, è in grado di incidere ed aumentare la nostra sensazione di paura,  in misura addirittura maggiore rispetto alla paura che conseguirebbe dall’essere stati vittime dirette degli stessi attentati[4]. In questo l’imprevedibilità circa il luogo e le modalità di un futuro attentato giocano un ruolo fondamentale.

Secondo la terza legge della psicodinamica, le idee e le immagini tendono a suscitare emozioni e sentimenti  e, se il terrorismo degli anni ’70 si muoveva sulla scia di ideologie prettamente politiche con il fine di intimidire lo Stato ed i suoi rappresentanti, il terrorismo moderno di stampo internazionale di politico e di religioso ha molto poco: l’Islam diventa un pretesto, una giustificazione per le loro azioni.

Molti studi hanno cercato di analizzare la struttura di personalità del terrorista per cercare di capire se le atrocità e le barbarie poste in atto in nome di un credo religioso, potessero riconoscersi od essere attribuibili ad una qualche forma di psicopatologia.

E’ ipotizzabile una deriva sociale? Nel 2006, la Leiden University olandese ha riscontrato che un’alta percentuale degli jihadisti identificati in territorio europeo, non provenivano da contesti disagiati o da famiglie indigenti. Al contrario, i soggetti identificati dall’ “intelligence” godevano di un buon livello di istruzione e molti erano laureati.

Si è soliti ritenere che un attentato terroristico, di qualsiasi tipo sia ed in qualsiasi modo avvenga, sia posto in essere da soggetti non sani di mente, da folli, da fanatici che agirebbero in preda a deliri o a gravi psicopatologie. In questo modo troveremmo una certa rassicurazione che dietro simili atrocità non potrebbe esserci un cittadino normale, ma si tratterebbe di un individuo con cui non ci si può identificare perché malato.

Eppure, da più parti è stato dimostrato che non esiste nessun nesso obbligato tra l’agire violento e l’esistenza di una patologia mentale. Anzi, il più delle volte, in questi soggetti, un disturbo psichico non è affatto presente.

Il terrorista sarebbe, allora, una persona normale, scarsamente empatica, certo, anzi potremmo dire con un grado di empatia “zero negativo”, ma che non presenta, nella maggior parte dei casi, alcuna patologia mentale grave. Recenti lavori scientifici hanno dimostrato la totale assenza di qualsiasi forma psichica grave, che sarebbe da ostacolo anche ai fini del loro reclutamento. Questo tipo di individui deve dimostrare, infatti, una buona resistenza allo stress, resilienza, tollerabilità in ambienti clandestini e detentivi, ed un’ottima capacità di organizzare il proprio lavoro in gruppo per portare a termine le attività imposte dalla propaganda in nome di Allah. Dunque, una selezione a livello psicologico prima che fisico. Alle donne, poi, è affidata l’attività di propaganda, attraverso la diffusione della parola di Allah sulle piattaforme online più cliccate. Quelle stesse donne che, per scrollarsi di dosso lo stereotipo della casalinga oppressa, dimostrano di sapere ricercare, selezionare,  imbracciare il fucile, e farsi esplodere, se necessario. La minaccia di una punizione imminente semina  panico, ed è l’unico modo per imporre psicologicamente la propria supremazia sul nemico miscredente.

Olson, circa trent’anni fa, espose la sua teoria sulla logica dell’azione collettiva tentando per primo di spiegare per quale motivo, e soprattutto in che modo, un gruppo di individui con interessi ed obiettivi comuni agisca per il raggiungimento di questi scopi. La violenza subìta o soltanto minacciata è fuori discussione che generi, a sua volta, nuova violenza, ma quando gli interessi in gioco sono di natura prettamente economica, ciò che attrae ed incentiva i singoli individui ad entrare a far parte di un gruppo, non è tanto il senso di appartenenza, ma quello della “psicosociologia della frustrazione sociale”, ossia il raggiungimento di un beneficio, di una ricompensa grazie a tale appartenenza e che trova terreno fertile soprattutto in un contesto sociale disorganizzato.

Una teoria come quella di Olson appena esposta, si basa sulla allo scopo di motivare e calcolare quanto i comportamenti collettivi siano la conseguenza delle frustrazioni e delle aspirazioni sociali.

I comportamenti collettivi non sono però sempre la risposta ad un disagio; è necessario che questo sia avvalorato da determinate ragioni, in modo da trovare una legittimazione a qualsiasi rivendicazione posta in atto.

 

Ma se affermare che i moderni terroristi pongono in essere le loro azioni perché affetti da patologie psichiatriche risulta al giorno d’oggi completamente errato, quali possono essere le motivazioni che spingono questi soggetti all’azione, molto spesso sacrificando anche la propria vita?

Un approccio psicologico al fenomeno, non può non tener conto del singolo individuo, anche se è fuori dubbio che il concetto di gruppo, di aggregazione, di coesione attraverso cui manifestare la propria identità, gioca un ruolo fondamentale. Laddove sia alto il livello di frustrazioni pregresse, una risposta aggressiva è quasi sempre l’unica conseguenza. Le notizie diffuse dai media, dimostrano che sia errato ritenere che tali soggetti provengano esclusivamente da famiglie disfunzionali, da zone del mondo disagiate con un conseguente basso livello di istruzione.

I nuovi miliziani dello Stato Islamico sono spesso nativi europei, figli di seconda o terza generazione di immigrati, non clandestini, sono cittadini integrati, molto spesso laureati, con un elevato quoziente intellettivo ed, in alcuni casi, addirittura privi di qualsiasi precedente penale.

Quale Dio, allora, può inneggiare alla morte del prossimo soltanto perché professa un credo differente?

E’ cosi che il peso di quella religione che Freud aveva definito una vera e propria illusione, viene messo fortemente in discussione. Ma, se da un lato la religione contribuisce alla crescita spirituale dell’individuo, dall’altro l’indottrinamento delle masse manipola e depersonalizza la mente dei suoi proseliti.

 

Nemmeno le teorie psico-criminologiche che hanno cercato di motivare un comportamento violento, sono risultate idonee a spiegare perché un soggetto seppur propenso alla violenza, decida di entrare a far parte di una organizzazione terroristica. Il grande limite di una teoria psicologica sul terrorismo è, forse, proprio questo: se con gli altri criminali è stato più agevole poter ricavare notizie inerenti alla loro storia di vita personale e familiare, nel caso dei terroristi tutto si complica perché anche laddove vengano tempestivamente arrestati, sono enormemente restii a collaborare in una siffatta ricerca.

La tendenza a commettere atti violenti si può ipotizzare essere tipica di quei soggetti che, avendo a loro volta subito violenze, non possono far altro che sentirsi attratti da essa, perpetrandola nuovamente fino ad identificarsi con il loro aggressore.

E’ innegabile comunque che, pur non presente un quadro psicopatologico conclamato, un comportamento del genere può essere ascrivibile ad una struttura di personalità “anomala”, tale per cui è palese la presenza di un Io danneggiato, in cui non c’è stato un corretto meccanismo di integrazione tra la parte buona e quella cattiva del proprio Sé.

Una personalità definibile come “personalità del terrorista”, che adotta il meccanismo dello splitting, ovvero la scissione della propria parte negativa la quale viene inconsciamente proiettata sulla vittima ed a cui il soggetto infliggerà dolore e morte potendo così soddisfare il proprio senso di realizzazione. Una personalità caratterizzata da bassa autostima, in cui la ferita narcisistica subita ed ancora urente,  verrebbe in parte placata con la esternalizzazione, meccanismo in base al quale si cerca di attribuire ad un qualcosa di esterno al proprio Io, la causa delle proprie debolezze ed inadeguatezze. Ma la sconfitta del proprio narcisismo innescherebbe una reazione di rabbia difficilmente controllabile, con l’inevitabile desiderio di punire chi costituisce la causa del proprio fallimento.

Non dimentichiamo, poi, che John Horgan, uno dei massimi esperti della psicologia del terrorismo, sostiene che non esiste alcuna patologia a cui ricondurre ogni atto terroristico ed i relativi autori, in quanto a fare la differenza sono, comunque, sempre, le scelte personali.

 

Riferimenti bibliografici

Bushman B. et al, When God sanctions killing effect of scriptural violence on aggression, in Psychological Science, march 2007 vol. 18 no. 3 204-207.

Festinger L., Theory of cognitive dissonance, 1957.

Horgan J., The psychology of terrorism, 2014.

Jenkins B.M., in Trattato di criminologia, medicina criminologica e psichiatria forense a cura di F. Ferracuti, 1988.

Said al-Ashmawi M., L’Islam politico,1990.

Silke A., Holy Warriors Exploring the Psychological Processes of Jihadi Radicalization, European Journal of Criminology January 2008 vol. 5 no. 1.

 

 

 

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