Parliamo sempre più spesso di comunicazione, dei più attuali modi cibernetici di comunicare, di scambi, di interattività, ma anche di solitudine e di isolamento.
L’uomo più è in compagnia e più sembra separato dagli altri e solo. Solo per separazioni, allontanamenti, trasferimenti. Solo per una solitudine cercata o subita. A volte entrambe, in successione.
Cerchiamo sempre più spesso l’indipendenza, ma questa ha, a volte, come rovescio della medaglia la solitudine. Allora cerchiamo di mascherarla con unioni di vario genere, associazioni, in cui si cerca di stare insieme, senza che, però, la comunanza crei un rapporto che vada molto al di là di un breve contatto ed implichi poco impegno e coinvolgimento.
Vi è poi una solitudine che potremmo definire per emulazione, quella della società, in cui i mezzi di comunicazione accentuano l’individualismo, gli slogan pubblicitari invitano ad isolarsi, a distinguersi, a mettere in mostra il proprio individualismo. Spesso si sceglie di vivere in una grande città per poter avere maggiori contatti sociali, ma in realtà accade più spesso il contrario: tra tanta gente ci si può sentire ancora più soli, mentre ormai con i cellulari perennemente accesi possiamo essere “raggiunti” ovunque. Ma raggiunti da cosa? Sempre meno da un contatto personalizzato, sempre più da impersonali sms con emoticons o messaggi preconfezionati. E questo deriva dalla nostra difficoltà ad aprirci, ad instaurare un’intimità con l’altro, perché l’altro, molte volte, ci fa paura.abbiamo paura. Temiamo che i nostri spazi vengano invasi, temiamo che il nostro essere venga messo a nudo con domande, curiosità, richieste, che altro non sarebbero se non un normale approccio per dare inizio ad una conoscenza più approfondita. Potremmo dire di essere affetti dalla “sindrome da ascensore”, cioè ci troviamo ogni giorno a stretto contatto con persone che conosciamo da anni ma, il più delle volte, solo di vista, e così il sentimento che prevale è l’indifferenza o l’imbarazzo. Ogni conoscenza più approfondita porterebbe via del tempo porta via del tempo. A cosa? Alla nostra frenetica quotidianità, alla quale si devono dedicare tutte le nostre energie possibili. Ed allora, sentendoci “soli” e non avendo tempo per conoscere nei modi tradizionali, cerchiamo di bypassare i parametri spazio temporali che ci separano dagli altri, conoscendoli “in rete”. La rete sembra essere diventata il modo più pratico e veloce, ma anche più illusorio, per fare conoscenza. Si crede, in questo modo, tramite un monitor, di conoscere qualcuno, ma le volte che dalla conoscenza virtuale si passa a quella reale, si rimane disillusi. Ognuno di noi può dare in quel modo un’immagine ideale di sé, che è poi un falso Sé.
Uno dei periodi della vita più a rischio di solitudine è l’adolescenza, un periodo intriso di cambiamenti, a livello fisico ma anche psichico, una fase di passaggio dal mondo dei giochi, ad un mondo caratterizzato da responsabilità e delusioni. Una fase in cui ci si dovrebbe creare un’identità sicura, ma oggi, il più delle volte, questo non avviene: il modello di famiglia è sempre più fragile, la società ed il futuro sempre più incerti. La solitudine dell ’adolescente può cercare rifugio in varie forme di dipendenza: farmaci, fumo, droga, cibo, alcool, televisione, internet. A rischio di solitudine sono anche la vecchiaia e la malattia
Ma “essere soli” non comporta solo deficit psicologici, può modificare le funzioni cardiache, i ritmi del sonno, aumentare la pressione sanguigna, intensificare gli squilibri ormonali e diminuire le difese immunitarie.
E d’altro canto, la stessa condizione di malato può generare solitudine.
Gli anziani con i loro bisogni impegnano risorse, costituiscono un onere economico, sociale e sanitario di difficile gestione. Ai tempi delle famiglie numerose gli anziani più che un peso costituivano una risorsa e, comunque, potevano essere gestiti da più familiari. Oggi le famiglie sono sempre più scarne ed allora l’anziano diventa un peso e finisce i proprio giorni il più delle volte in una casa di riposo od in un ospedale.
Fra i due estremi, l’adolescenza e la vecchiaia, ci sono tante altre solitudini, quella della famiglia in crisi, in cui le unioni appaiono sempre più precarie e dove gli spazi per il dialogo e la comunicazione sono sempre più ristretti. La mancanza di tempo, le preoccupazioni, tolgono spesso quelle energie che potrebbero essere destinate a rafforzare il nucleo familiare. Mentre, sempre più spesso, ci si ritrova estranei e soli.
La solitudine non ha età e non ha condizione sociale; a prescindere dalla nostra personalità si può insinuare in ognuno di noi, arricchendolo o al contrario tormentandolo. Ma la solitudine assume anche una valenza positiva, quando la cerchiamo per riflettere, lontani dalla folla, per confrontarci con noi stessi, per ricercare la nostra più intima essenza. Per comunicare con noi stessi. Per dare a questo stato il valore che deve essergli riconosciuto, allorquando non la utilizziamo come strumento per allontanare gli altri, ma impariamo ad apprezzarla sapendo di “stare” bene anche con gli altri.
Allora, “La capacità di essere soli è la capacità di amare. Potrà sembrarti paradossale, ma non lo è. È una verità esistenziale, solo le persone in grado di essere sole sono capaci di amare, di condividere, di immergersi nell’essenza più intima dell’altra persona, senza possederla, senza diventare dipendente dall’altro, senza ridurlo a un oggetto, e senza esserne assuefatto. Permettono all’altro una libertà assoluta, perché sanno che, se l’altro se ne va, saranno altrettanto felici, quanto lo sono adesso. La loro felicità non può essere portata via dall’altro, perché non è stata data da lui. Ma allora perché vogliono stare insieme a qualcuno? Non è più un bisogno, è un lusso: godono nel condividere, hanno così tanta gioia che vogliono riversarla in qualcuno…”Osho
BIBLIOGRAFIA
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