La storia delle Madri Omicide

“Essere madre” comporta sempre un forte investimento affettivo, come sostiene lo psichiatra-criminologo Marco Cannavicci, non paragonabile a nessun altro coinvolgimento d’amore, ed è talmente grande a condurre la madre ad un trasporto così immenso che può arrivare persino al sacrificio di sé.
Come può, allora, questa stessa condizione generare un grande e violentissimo “odio”, per cui una madre può arrivare perfino ad uccidere il proprio figlio?
Psicologicamente il legame materno è un legame ambivalente molto forte nelle due polarità opposte: una madre può amare e prendersi cura del bambino (come una fatina buona) oppure può odiarlo fino ad ucciderlo (come una strega cattiva).
Su questa ambivalenza sono state costruite quasi tutte le fiabe dell’infanzia, in cui ad una persona malvagia si contrappone sempre una persona buona, rassicurante e protettiva.
Ma “Essere madre”, come è confermato da numerose statistiche pubblicate negli Stati Uniti (FBI) ed in Inghilterra, non esclude che la donna possa far male al proprio bambino: non la protegge dall’acutissimo dolore interiore che è comunque alla base di un gesto così impensabile ed efferato, per cui chi deve solitamente accudire, coccolare, proteggere, amare colui che ha concepito, ne diventa il carnefice.
Il bambino, a sua volta, fiducioso nelle cure della madre, in attesa di immensi gesti d’amore, si trova in balia di un possibile violentissimo ed incontrollabile odio.
Da molto tempo negli Stati Uniti ( e non solo), il fenomeno delle madri che uccidono occupa le pagine di cronaca e gli studi effettuati dagli esperti dell’FBI sono arrivati alla conclusione che le madri che uccidono i propri figli sono state a loro volta “violate nel corpo e nell’anima” e questo potrebbe essere avvenuto sia nell’età infantile che in quella adolescenziale o, ancora, in entrambe.
In realtà, la donna solitamente ha “rimosso” (Rimozione è in Psicoanalisi il meccanismo mentale con cui il soggetto cerca di respingere o di mantenere nell’inconscio rappresentazioni legate ad una pulsione, con l’esigenza di allontanare la fonte di pericolo rappresentata dalla pulsione stessa) dalla memoria i tragici eventi che ha subito e chi li ha compiuti, e, nonostante questo, può arrivare, inconsapevolmente, a ripetere lo stesso gesto o a compierne uno simile.
Altri studi hanno poi messo in evidenza che alcune madri vivono come intollerabile il pianto dei figli perché a loro volta, da piccole, piangevano ma nessuno le ascoltava e si prendeva cura di loro ( il grido non ascoltato nella notte di cui parla lo psicoanalista Massimo Recalcati). A chi ha subito questo trauma, può essere sufficiente un minimo evento per scatenare un’antica e profonda angoscia mai superata.
L’uccisione e l’abbandono dei neonati, in realtà, non sono tipici della nostra civiltà, anzi nel passato sono stati praticati pressocchè ovunque.
Nei resti dell’antica città di Gerico sono state rinvenute testimonianze archeologiche di sacrifici umani, e tra essi i resti di neonati, che sono stati fatti risalire a circa 7000 anni prima della nascita di Cristo.
Le prime notizie sull’uccisione e l’abbandono degli infanti risalgono alla Civiltà Assira (III millennio a.C.): sembra che il Re Sarago I fosse figlio di una sacerdotessa che, non potendo tenerlo con sé, a causa della religione, lo abbandonò presso un ruscello.
La storia, inoltre, tramanda che in Egitto i neonati troppo deboli o affetti da malformazioni, venivano soppressi, cosa che notoriamente avveniva anche a Sparta.
Varie popolazioni antiche, come quella dei Vichinghi, dei Celti, dei Galli e dei Fenici, usavano esporre gli infanti agli agenti atmosferici allo scopo di allontanare gli spiriti maligni o di attirare su di sé la grazia degli dei.
In India e in Cina l’infanticidio era praticato sin dai tempi più antichi ed in particolare era perpetrato nei confronti delle neonate.
Nell’antica Roma era il “pater familias” ad esercitare lo “ius vitae ac necis” su tutti i nati: l’ostetrica che aveva fatto nascere il bambino dopo averlo lavato, lo poneva a terra, ai piedi del padre, che se decideva di tenerlo e si trattava di un maschio, lo sollevava in alto tra le sue braccia, se femmina lo consegnava tra le braccia della madre.
Se, invece, decideva di non tenerlo, perché deforme o perché di sesso femminile ( nella famiglia romana, infatti, non veniva quasi mai allevata più di una figlia femmina), lo consegnava all’ostetrica ordinando di ucciderlo.
I figli spesso venivano gettati dalla Rupe Tarpea, oppure venivano messi davanti alla porta di casa, o, ancora, venivano portati al mercato, laddove esisteva la colonna “lattaria”, sotto la quale erano “esposti” i neonati rifiutati. Essi erano, in tal modo, condannati a morte certa se non c’era nessuno disposto a prenderli e portarli nella propria casa.
L’esposizione e l’uccisione dei neonati indesiderati o deformi è presente nella cultura greca prima ancora che in quella romana.
Nell’antica Grecia, infatti, il neonato veniva esposto nel mercato, dentro una pentola contenente anche un oggetto appartenente alla famiglia di origine, che serviva per distinguerlo dagli altri, se il padre non lo riconosceva come legittimo o se la famiglia non aveva i mezzi per mantenerlo.
La figura greca di Medea, inedita e significativa, viene posta da Euripide nell’interno delle rappresentazioni tragiche: l’azione tragica coincide con la sua stessa rovina poiché, spinta non da un impulso sentimentale ma da un desiderio di giustizia, mentre punisce il padre dei suoi figli, uccidendoli, colpisce con uguale violenza se stessa.
A Sparta la legge obbligava i genitori dei bambini gracili o deformi ad abbandonarli sul monte Taigreto, da cui si deduce che l’esposizione e l’infanticidio non solo erano praticati impunemente, ma addirittura erano autorizzati dalla legge.
Solo nel 318 d.C. l’imperatore Costantino, convertitosi al Cristianesimo, promulgò delle leggi destinate a ridurre gli abbandoni e gli infanticidi, creò un fondo dal tesoro imperiale, destinato alle famiglie con molti figli e concesse tutti i diritti di proprietà sui neonati esposti a coloro che li avessero salvati ed allevati.
Più tardi Valentiniano I, Valente e Graziano, tramite vari editti, trasformarono l’infanticidio in un delitto punibile con la morte.
Nell’alto Medioevo i neonati erano esposti ed uccisi per vari motivi che andavano da presagi infausti ad adulteri, incesti, gelosie e rivalità ed erano abbandonati un po’ ovunque, nei boschi, lungo le strade, davanti alle chiese.
L’infanticidio, soprattutto femminile, dovuto a ragioni economiche, era comune in molte culture.
Nei secoli compresi tra il VII e il XIII, invece, si assistette ad un sensibile aumento del tasso demografico, grazie ad un assetto sociale più equilibrato e al miglioramento generale delle condizioni economiche e quindi, evidentemente, ad una diminuzione dell’infanticidio e dell’abbandono dei piccoli.
Alla fine del XIII secolo, però, il fenomeno subì una nuova crescita grazie alla povertà e all’instabilità sociale determinata dalle pestilenze e dalle guerre.
Boccaccio in una sua novella descrive il futuro dei neonati abbandonati del tempo:” Quanti parti, mal loro guardo venuti a bene, nelle braccia della fortuna si gittano! Quanti ancora, prima che essi il latte materno abbino gustato, se n’uccidono. Quanti ai boschi, quanti alle fiere se ne concedono e agli uccelli!”.
Come si legge nel “Trattato Italiano di Psichiatria” di Cassano, prima del ‘700 i bambini raramente erano considerati individui con propri diritti e forse è per questo che negli scritti dell’antichità non si nota molta attenzione ai bambini, i quali vengono considerati quasi alla stregua di “animali selvaggi” da educare o “addomesticare” con rigidi strumenti educativi e che raramente venivano capiti o osservati in quanto tali, venendo piuttosto inglobati nella logica degli adulti.
È in questo contesto storico che, nel tentativo di arginare il fenomeno ed offrire accoglienza ai neonati abbandonati, cominciarono a sorgere in tutta l’Europa specifiche strutture atte ad accoglierli, come, ad esempio, la Confraternita della Misericordia di Firenze istituita alla fine del 1300.
Nascono gli “spedali” come quello degli Innocenti, a Firenze nel 1484, e più tardi quello di Milano nel 1787 e, a Londra, nel 1741, l’ospedale dei trovatelli, reso celebre dai romanzi di Dickens.
Inoltre in molte chiese ed ospedali è istituita la cosiddetta “ruota degli esposti”, aperta in Italia fino al 1923, grazie alla quale i genitori che volevano abbandonare i neonati lo potevano fare nel più completo anonimato.
Nel resto dell’Europa l’infanticidio è stato un crimine molto diffuso; da un esame degli archivi della corte e della prigione di Norimberga, risulta che nel periodo compreso tra il 1513 e il 1777, ottantasette erano state le condanne a morte per infanticidio.
In realtà il fenomeno era probabilmente di portata maggiore se si pensa che molti neonati morivano per soffocamento, schiacciati dal corpo dei genitori, ma non era possibile dimostrare la volontarietà e, a posteriori, la premeditazione del gesto.
Al giorno d’oggi presso alcune popolazioni l’infanticidio è ancora praticato: per i boscimani, gli aborigeni australiani o ancora i gruppi artici, l’infanticidio diventa un mezzo per il controllo demografico: le donne infatti non possono farsi carico di altri figli prima che quelli che già hanno non siano stati svezzati.
Gli Yanomani dell’Amazzonia sopprimono il neonato se questo è deforme perché sarebbe un peso troppo esoso per la madre e la comunità o, in caso di parto gemellare, il bambino più debole viene sacrificato perché la madre non può allattarli entrambi.
Presso alcune comunità dell’India e dell’Africa, come riporta Levi-Brull in “Anima Primitiva”, la soppressione dei neonati non è omicidio perché il bambino appena nato non è considerato un “essere umano completo”, ma lo diventerà solo a seguito di riti di passaggio e di “iniziazione”. Tutto questo a testimonianza del fatto che l’infanticidio in alcune popolazioni sia una pratica diffusa che trova la sua spiegazione e il suo significato nelle questioni riguardanti il gruppo culturale e la sua sopravvivenza.
In Cina la “Legge eugenetica e protezione della salute” del 1979 imponeva alle famiglie di non avere più di un figlio e di sesso maschile. Questo giustifica che molte bimbe non siano mai venute alla luce, non siano state registrate all’anagrafe, molte siano state abbandonate e di gran parte di loro sia persa ogni traccia.
Fino ai giorni nostri…..

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