La documentazione più antica sulle malattie mentali nel post-partum risale ad Ippocrate nel 400 a.C. e a Tortula nel primo secolo dell’Era Cristiana.
Nella metà del diciannovesimo secolo iniziò il dibattito sulle caratteristiche cliniche e sull’etiologia delle malattie mentali.
Le prime descrizioni della “follia puerperale” risalgono al secolo scorso quando Esquirol nel 1838 ne illustrò quattro diverse forme: demenza, mania, melanconia, monomania.
Nel 1845 egli descrisse una serie di sindromi dell’umore post-natali e ne contestò l’associazione con l’allattamento.
Marcè nel “Traitè de la folie puerperale, des nouvelles accouchées ed des nourrices” del 1858 dedicò oltre cento pagine alle psicosi puerperali descrivendo una forma maniacale, una malinconica, una di follia parziale ed una di deterioramento intellettivo.
In queste prime descrizioni si indicava nel collegamento temporale con il parto la specificità di queste forme che clinicamente erano invece considerate indistinguibili dalle altre, individuandosi nello stato confusionale un attributo specifico.
Marcè, in questo studio, suggeriva che le malattie mentali del post-partum potessero essere classificate in due gruppi: quelle ad esordio precoce, caratterizzate soprattutto da sintomi cognitivi quali confusione mentale o delirio, e quelle ad esordio tardivo, caratterizzate prevalentemente da sintomi fisici.
Seguendo questa tendenza per circa un secolo ci si è limitati ad illustrare i sintomi psichici collegati al parto ed al puerperio, collocandoli nelle categorie maggiormente utilizzate della psicosi affettiva, della schizofrenia e della psicosi tossinfettiva.
Lo stato del trattamento della psicosi nel post-partum dopo il 1860 illustra quale fosse allora il potere dei criteri diagnostici nell’influenzare le attitudini ed il focus della ricerca: erano in uso i criteri kraepeliniani, che non includevano una categoria per la depressione nel post-partum.
Le donne colpite dal disturbo erano definite “maniaco-depresse” o affette da “demenza precoce”, da “confusione tossica” o da “stati neurotici”. Di conseguenza, molti psichiatri sostenevano che la “psicosi nel post-partum” non esistesse come sindrome separata.
Nel 1940 Jacobs stabiliva che “ nel puerperium si poteva manifestare ogni tipo di reazione” per cui la “Psicosi puerperale come entità clinica non esisteva”.
Secondo Founder et al. (1957) “la definizione di malattia del post-partum come malattia distinta non è giustificata, sarebbe come se quei giovani che non reagiscono bene alla vita del college dovessero essere definiti come affetti da una psicosi da college “.
La difformità diagnostica, la scarsa frequenza ed il rilievo di un’analoga proporzione di casi fra pazienti con malattie psichiche puerperali e gruppi di controllo, hanno portato ad eliminare la patologia puerperale dalle classificazioni ufficiali.
L’American Psychiatric Association (APA) nel 1952 rimosse il termine post-partum dalla I edizione del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM) e costruì uno schema diagnostico fondato esclusivamente sui sintomi della malattia. Le malattie mentali del post-partum furono da allora in poi denominate disturbo schizofrenico, affettivo o tossico. Il DSM-II (1968) descriveva come entità separata la depressione nel post-partum, “249.4 Psicosi ad esordio col parto”, ma il DSM-III (1980) eliminava questa categoria e sosteneva:”non vi è prova sicura che la psicosi nel post-partum sia una entità distinta” (APA 1968, 1980).
Né il DSM-III-R (1987) né la nona revisione dell’ICD (1992) fanno riferimento a questa patologia.
Solo la psichiatria francese tende a conferire dignità nosografica autonoma alle forme psicotiche della gravidanza, del puerperio e dell’aborto, indicandole sotto la denominazione complessiva di “psicosi puerperali” (Ey et a., 1970) e studiandone gli aspetti psicodinamici ed i collegamenti con la psicologia normale (Racamier et al., 1961).
Oggi, come si vede anche dalle ultime edizioni del DSM, la maggior parte dei ricercatori riconosce il continuum di gravità del disturbo dell’umore nel post-partum, come maternity blues, depressione post-partum e psicosi puerperale.
Il puerperio è, di per sé, un periodo molto delicato per la donna, caratterizzato da un lato da una perdita, quella della gravidanza appena conclusasi, e dall’altro da un’acquisizione, quella del bambino appena nato. In questa fase è necessario che la neomamma operi una distinzione tra fantasie, fantasmi inconsci e realtà, relativamente al parto, al neonato e alle reazioni dell’ambiente che la circondano. Per effettuare tali distinzioni è necessario un lento e graduale processo elaborativo, nel quale si alternano vissuti depressivi, causati da fantasmi di perdita e dalla delusione per fantasie non realizzate, vissuti persecutori, alimentati dalle difficoltà reali, e vissuti maniacali o di negazione. Inoltre, ai fini dell’allevamento e della comprensione dei bisogni del bambino, la madre si vede forzata internamente ad un processo regressivo che la riporta al proprio allattamento, il cui scopo è di porla al servizio del neonato (Soifer, 1971).
Com’è facile intuire, questo lento e graduale processo elaborativo richiede molti mesi per giungere a compimento ed in realtà non termina mai, andando a costituire il famoso “cordone ombelicale” psichico tra madre e figlio (Deutsch, 1945), che pur lentamente assottigliandosi non è mai tagliato del tutto.
Di conseguenza, i primi sei mesi dopo il parto definiscono in larga misura la futura situazione psicologica della donna ed incidono notevolmente sui suoi rapporti con il bambino, la famiglia e la collettività (Soifer, 1971).
Pazzagli e collaboratori (1981) hanno individuato tre momenti che caratterizzano il percorso che conduce la donna dall’aspettare un bambino per nove mesi all’essere madre e li hanno così indicati:
· il parto come perdita, per cui la donna vive il parto sia come perdita di una parte del suo corpo con cui si era totalmente identificata sia come una brusca intrusione del reale all’interno dell’unità biologica creatasi nel corso dei nove mesi di attesa;
· la disillusione, derivante dalla percezione di uno scarto inevitabile tra il bambino immaginato ed il neonato reale;
· la regressione in simbiosi, che consiste nel lasciarsi avvolgere dal neonato all’interno di un sistema simbiotico in cui sia possibile stabilire una fusione grazie anche ad una regressione della madre pilotata dal neonato.
L’integrazione e l’elaborazione di questi tre momenti permettono di superare positivamente la crisi d’identità connessa alla maternità (Pazzagli et al., 1981).
Dal punto di vista psicodinamico, per la donna, la gravidanza è un periodo in cui si riattivano i conflitti e i vissuti dell’infanzia, e, dunque, secondo il modo in cui sono state vissute ed elaborate la nascita, le esperienze pre-edipiche di simbiosi con la madre e la successiva esperienza edipica, la donna plasmerà il suo vissuto di gestante.
Per molto tempo, sulla scia di Freud, si è ritenuto che la donna fosse incapace di uccidere. Il corpo femminile, predisposto per accogliere e dare la vita, non poteva essere in grado di toglierla.
L’infanticidio, in particolare, era ritenuto impossibile: le donne che lo commettevano dovevano essere certamente folli, malate di mente, non-donne. Come se soltanto la perdita della femminilità e dell’istinto materno potesse giustificare un delitto del genere.
Chi sono, dunque, le madri che uccidono i propri figli? Spesso sono donne apparentemente “normali”, dall’esistenza tranquilla che solo per una drammatica disattenzione procurano la morte dei piccoli. E’ il caso di donne che mentre allattano fanno cadere accidentalmente i bambini per terra, o quelle che stendendo i panni sul terrazzo, vedono precipitare dai piani più alti dei palazzi i piccoli, o ancora madri che mentre preparano la colazione lasciano i figli sul letto in cui essi troveranno la morte soffocati tra il materasso e la spalliera.
La psichiatria oggi però ci viene in aiuto e ci insegna che questi drammi, “puramente casuali”, orrendi nella loro semplicità, altro non sono che strategie inconsce elaborate dalle donne. Ma la casistica è veramente ampia, sono i motivi più diversi quelli che portano al delitto: ci sono donne passive e negligenti nel ruolo materno; donne che uccidono per vendicarsi del proprio compagno (e ultimamente fatti di cronaca riportano di padri che uccidono figli per vendicarsi delle loro ex-mogli o ex-conviventi); madri che uccidono i figli perché li ritengono colpevoli di tutte le loro frustrazioni, non ultimo il cambiamento nell’aspetto esteriore; donne che riflettono sui figli le violenze che esse stesse hanno subito da bambine; madri che uccidono figli non desiderati; madri che negano la gravidanza; madri che spostano il desiderio di uccidere la loro madre cattiva ed uccidono il figlio cattivo; madri che desiderano uccidersi e uccidono il figlio; madri che uccidono il figlio perché pensano di salvarlo o per non farlo soffrire; madri che prodigano cura affettuose al figlio ma in realtà lo stanno subdolamente uccidendo ( la Sindrome di Munchhausen per procura).
Molti studi sottolineano che la gravidanza costituisce un periodo relativamente silente da un punto di vista psichiatrico in quanto la patologia psicotica preesistente tende ad attenuarsi e le ricadute o la comparsa di nuovi episodi psicotici sono rari durante questo periodo. La patologia psichica che si può evidenziare nel corso della gravidanza riguarda prevalentemente i disturbi di livello nevrotico, cioè disturbi d’ansia e nevrosi depressiva, mentre è noto che il rischio che si manifesti un primo episodio depressivo maggiore o un episodio maniacale o una sintomatologia schizofrenica è minore rispetto ad altri periodi della vita della donna e al periodo puerperale.
Tuttavia studi epidemiologici hanno messo in evidenza che la comparsa di una sintomatologia depressivo-ansiosa nel terzo trimestre della gravidanza costituirebbe un fattore di rischio per lo sviluppo di un quadro depressivo e della psicosi nel post-partum. La gravidanza infatti rappresenta un fattore di stress a causa delle trasformazioni biologiche, psicologiche e ambientali che comporta per la donna, per la coppia e per la famiglia nel suo complesso. Dopo il parto le angosce depressive, confusionali e persecutorie che si attivano in rapporto alle modificazioni dell’identità personale ed alla presenza del bambino, possono assumere un’intensità particolare in soggetti nei quali sono presenti elementi che aumentano il rischio della comparsa di disturbi psichici.
Le madri potrebbero arrivare ad uccidere un figlio in base a sei tipi di quadri psicopatologici:
1. La Schizofrenia Paranoidea, una patologia psichiatrica che si manifesta nelle donne in un’età compresa tra i 25 e i 35 anni, che si manifesta con delirio, allucinazioni e disturbi del comportamento (facile aggressività e violenza),
2. la Depressione post-partum, un quadro depressivo che si manifesta nel 10-15% delle puerpere, nelle prime quattro settimane dopo il parto, con i sintomi tipici della grave depressione maggiore ma anche con deliri e allucinazioni dai contenuti aggressivi ed accusatori contro di sé e contro il bambino,
3. i Disturbi Dissociativi, fra cui rientrano ad esempio l’amnesia dissociativa, per cui le mamme si ritrovano ad effettuare sul bambino atti violenti che esse hanno subito ma che non ricordano; oppure si tratta di uno stato di profonda dissociazione dell’identità, quella che nelle classificazioni passate si definiva “personalità multipla”,
4. la Sindrome di Munchausen per procura, che viene considerata un disturbo “fittizio” i cui sintomi sono creati dalla mente della persona per ottenere dagli altri attenzione e considerazione; la forma “per procura” riguarda il commettere, di nascosto, atti lesivi sul figlio per poterlo poi accudire e curare, acquisendo il ruolo prestigioso della salvatrice del bambino (molte malattie inspiegabili di bambini sono state comprese in ospedale ponendo delle telecamere nascoste, puntate sul letto del bambino, che hanno mostrato madri che avvelenavano, ferivano e maltrattavano i figli),
5. l’Omicidio Compassionevole. Viene generalmente effettuato nei confronti di figli gravemente e cronicamente ammalati e di cui non si accetta né si sopporta la malattia; l’omicidio ha lo scopo di porre fine alla propria sofferenza ed a quella del figlio e spesso si accompagna al suicidio o alla immediata confessione del delitto,
6. il Raptus Omicida. Avviene in genere per sfogo di rabbia, dopo accumulo cronico di frustrazione con liberazione improvvisa ed inaspettata di marcata aggressività; in questo caso si ha una perdita completa del controllo razionale sulle incontenibili ed esplosive pulsioni aggressive.
Dietro la gran parte di queste situazioni si trova spesso un conflitto lacerante tra il dentro ed il fuori della personalità della madre; una esteriorità perfetta, come immagine pubblica, ed una interiorità “malata”, nel proprio privato domestico ed affettivo.
Secondo un’indagine ISTAT relativa a tutti gli omicidi volontari compiuti in Italia nel 1998, su un totale di 670 omicidi, 128 erano stati effettuati all’interno della famiglia e, di questi, 22 erano casi di figlicidio.
Da un’analisi dei dati emerge che il sesso dei figli uccisi è equamente distribuito, in genere l’età è inferiore ai 25 anni e negli altri casi essi risultano affetti da handicap. L’analisi del livello sociale mostra, che gli omicidi in famiglia prevalgono nei livelli sociali bassi, nella maggior parte dei casi si tratta di donne non coniugate aventi un’età compresa tra i 21 e i 28 anni. La stessa indagine, ripetuta nel 2000, ha evidenziato che i dati non si discostano significativamente da quelli precedenti e si possono considerare per difetto, perché molti casi sfuggono alle statistiche.
Nel considerare questi dati, infatti, bisogna tener conto di tutti quei decessi di bambini che sono catalogati come “disgrazie” e che in realtà potrebbero nascondere omicidi compiuti per omissione con gravi e volontarie carenze di cure e di attenzioni da parte delle madri (Nivoli, 2002).
Il dott. Strano, criminologo, riassume che usualmente gli omicidi dei figli da parte della madre avvengono nelle seguenti circostanze:
nelle prime settimane di vita del bambino (solitamente entro 7-10 giorni) quando la donna non si è ancora affezionata alla sua prole (infanticidio). In questi casi alla stretta relazione madre-figlio (simbiosi primaria) nei primissimi anni di vita, si contrappone, in ambivalenza, un potenziale aggressivo altrettanto intenso. Secondo Carloni e Nobili il più tipico figlicidio materno si compie per un disperato tentativo di negazione della perdita della fusionalità simbiotica (separazione) e il rifiuto della progressiva autonomia del bambino,
quando la madre vive un’esistenza disagiata (tossicodipendenza, alcoolismo, scarsezza di mezzi di sostentamento, generale degrado),
quando la madre è molto giovane di età (15-18 anni),
quando il partner maschile è estremamente violento (magari pedofilo).
In tali casi l’omicidio viene definito “complesso di Medea” ed è finalizzato a “togliere” il bambino da un’esistenza sicuramente drammatica,
quando la madre è affetta da un quadro psicopatologico grave (solitamente di natura psicotica) in grado di alterare completamente la sua coscienza in certi momenti. Alcuni studi descrivono la personalità della donna infanticida come caratterizzata da depressione, distacco affettivo, tendenza all’acting-out, alterazione della realtà, ecc.
In realtà solo un terzo delle madri che uccidono i propri figli presentano una grave malattia mentale, che concerne soprattutto patologie di tipo depressivo (la madre che uccide il proprio bambino in una fase di depressione con un progetto di suicidio allargato) e paranoideo (la madre che uccide il proprio bambino per salvarlo da forze persecutorie e maligne); i restanti due terzi presentano, al massimo, disturbi di personalità (borderline, antisociale, dipendente) che non permettono loro di gestire situazioni di vita difficili (per esempio nel caso di gravi perdite), di scompensi psichici (per esempio nel caso della depressione post-partum), di alterazioni comportamentali legate ad abuso di sostanze (per esempio stati di irritabilità o eccitazione a seguito dell’assunzione o della carenza di sostanze stupefacenti).
Questa preponderanza di madri figlicide con disturbi di personalità e non con alterazioni mentali gravi, ha una importante implicazione dal punto di vista giuridico, ossia, la maggior parte delle madri figlicide vengono considerate capaci di intendere e di volere.
Tra le varie motivazioni che possono spingere una madre ad uccidere il proprio figlio, Nivoli (2002) osserva le seguenti:
L’atto impulsivo delle madri che sono solite maltrattare i figli:
all’interno di questo gruppo rientrano quelle madri che sono solite usare la violenza fisica nei confronti dei propri figli (bottering mothers). Queste madri, di fronte ad uno stimolo anche banale, ad esempio quando il proprio bambino urla o piange in modo prolungato, possono reagire in maniera impulsiva e fortemente aggressiva arrivando a percuotere il figlio con un oggetto contundente, soffocarlo, accoltellarlo, defenestrarlo, ecc. pur non premeditando l’omicidio del figlio.
Spesso queste madri presentano disturbi di personalità, scarsa intelligenza, aspetti depressivi, facilità ad agire impulsivamente, irritabilità di base. Inoltre vivono in situazione familiari problematiche (condizioni economiche indigenti, elevata numerosità della prole, difficoltà legate al lavoro e alla condizione abitativa, situazioni di separazione dal proprio compagno) e, a loro volta, spesso provengono da famiglie multiproblematiche dove sono state vittime loro stesse di maltrattamenti.
L’agire omissivo delle madri passive e negligenti nel loro ruolo:
la morte del figlio può essere dovuta ad atti omissivi relativi al suo accudimento, per esempio, la madre non è in grado o non vuole vestirlo in modo adeguato alla temperatura, provvedere a nutrirlo in modo efficace e continuo. Si tratta di madri che, per vari motivi (ignoranza, incapacità personale, insicurezza, scelta deliberata), non sono in grado di affrontare la loro funzione materna nel provvedere alle necessità vitali e fondamentali del proprio bambino, al contrario, vivono le sue esigenze come qualcosa di estraneo e di minacciante per la propria vita. Alcune di queste madri possono essere affette anche da problemi di natura psicotica, con paure di fusione e angosce di annientamento che le rendono del tutto inadatte al loro ruolo. In questi casi, la morte del bambino avviene spesso in modo passivo, per: alimentazione insufficiente, malattie trascurate, incidenti mortali apparentemente dovuti a fatalità.
La vendetta della madre nei confronti del compagno:
in questi casi, la madre può uccidere il figlio per vendicarsi dei torti reali, o presunti, subiti dal marito, cercando così di arrecare un dispiacere al proprio compagno. Il proprio figlio viene visto come un oggetto inanimato, che può essere dunque utilizzato come un’arma vendicativa.
Per descrivere questo tipo di figlicidio si parla di sindrome di Medea. Medea uccide i figli avuti da Giasone fuori dal matrimonio quando lui sta per sposare Glauce e vuole sottrarglieli.
Il giudice Creonte le concede di vederli per l’ultima volta e lei li uccide.
Le madri che uccidono i figli non desiderati:
a questo gruppo appartengono quelle madri che uccidono in piena lucidità mentale il loro figlio perché non desiderato. Sono donne che non hanno desiderato la gravidanza e che collegano la nascita del figlio a qualche evento per loro traumatico come: l’abbandono da parte del partner, violenza sessuale subita, gravi problemi economici e simili. Non è infrequente riscontrare in loro dei tratti di personalità antisociale e comportamenti impulsivi, con una storia personale di devianza e di abuso di sostanze.
Le madri che uccidono i figli trasformati in capri espiatori di tutte le loro frustrazioni:
queste donne percepiscono il proprio figlio come la causa unica e drammatica della rovina della loro esistenza. Il bambino può essere visto come causa di frustrazione in vari modi: per avere deformato il loro corpo attraverso la gravidanza, perchè le obbliga a vivere in un ambiente che loro non sopportano, perché le costringe a stare con un uomo che non amano, perché devono passare tutta la loro giornata a badare alle sue esigenze e ai suoi capricci.
Può trattarsi di madri insicure, con tratti borderline di personalità, ovvero madri conflittuali che presentano anche tratti impulsivi e aggressivi. Alcune di queste madri possono soffrire di malattie mentali con elementi persecutori, deliranti, paranoidei, per cui percepiscono il loro bambino come un vero e proprio persecutore.
Può trattarsi di forme deliranti che sono presenti in madri con diagnosi di schizofrenia e di depressione maggiore.
Le madri che negano la gravidanza e fecalizzano il neonato:
si tratta di madri, per lo più molto giovani e abbandonate dal padre del bambino, che uccidono o lasciano morire il neonato nell’immediatezza del parto. Queste madri hanno spesso una forte dipendenza dai legami familiari e presentano tratti regressivi, infantili e narcisistici. Spesso negano, in modo isterico, la propria gravidanza, comportandosi come se non fossero incinte. Dopo aver partorito da sole in condizioni clandestine, spesso gettano il neonato nei luoghi ove è raccolta la spazzatura, come se si trattasse di un prodotto fecale; altre invece lo abbandonano in luoghi pubblici con la speranza che venga notato da qualcuno.
Le madri che ripetono sul loro figlio le violenze che avevano subito dalla propria madre:
le madri che uccidono il proprio figlio hanno spesso avuto una madre che le minacciava di abbandono, non rispettava la loro individualità, le utilizzava come oggetti, le ha rese vittime di abusi psicologici, violenza, promiscuità sessuale e trascuratezza.
Il fatto di avere avuto una “madre cattiva” non consente a queste donne di avere una buona identità materna e pur desiderando, a livello conscio, di essere delle buone madri ripeteranno gli stessi errori che ha compiuto, in passato, la loro madre.
In questi casi il meccanismo psicodinamico sotteso è quello dell’identificazione con l’aggressore, che le porterà quindi a ripetere sui propri figli gli stessi errori delle loro madri, fino alle estreme conseguenze dell’omicidio.
Le madri che spostano il desiderio di uccidere la loro “madre cattiva” sul proprio figlio: a differenza del precedente gruppo, i sentimenti di odio che la madre figlicida prova nei confronti della propria “madre cattiva” possono essere introiettati, per cui la madre figlicida può diventare depressa, manifestare tendenze autodistruttive ed inglobare in questo desiderio di morte il figlio divenuto a sua volta cattivo. Il figlio non viene più quindi percepito nella sua realtà, ma solo in funzione dei meccanismi psicologici di difesa che la madre mette in atto per gestire la propria angoscia.
Le madri che desiderano uccidersi e uccidono il figlio:
a questo gruppo appartengono madri che vivono in una situazione depressiva grave, senza speranza, senza possibilità di ricevere aiuto, e si convincono che l’unica salvezza per il loro bambino e per loro sia la morte. Si tratta di madri che si muovono in un progetto di “suicidio allargato” nell’ambito spesso di patologie di tipo depressivo e paranoideo.
Le madri che uccidono il figlio perché pensano di salvarlo:
in questo caso ci si trova davanti ad un contesto mentale di tipo paranoideo persecutorio, per cui le madri ritengono che l’unico modo per sfuggire a un mondo crudele che le perseguita, sia la propria morte e quella del proprio figlio. Queste madri possono essere anche convinte di sentire voci (allucinazioni di tipo uditivo), che in realtà non esistono, che chiedono in modo minaccioso la morte del figlio come unica possibilità di salvezza. Può trattarsi in questi casi di un figlicidio di tipo altruistico, in cui la morte viene vista come l’unico modo per salvare il proprio figlio da un mondo minaccioso e senza scrupoli.
Le madri che uccidono il figlio per non farlo soffrire:
le madri appartenenti a questo gruppo uccidono il proprio figlio per non farlo più soffrire a causa di malattie reali, come nel caso di una grave malattia organica a decorso ingravescente caratterizzata da forti dolori e da una gravissima riduzione della qualità della vita. E’ necessario distinguere questi omicidi compassionevoli, in cui viene privilegiato esclusivamente l’interesse del figlio malato, da quelli pseudocompassionevoli, in cui la madre uccide il proprio figlio malato per liberarsi da questo “pesante fardello”. Altri esempi di omicidi psudocompassionevoli sono quelli in cui le madri sono convinte che il proprio bambino soffra di malformazioni o malattie, in realtà inesistenti, e che arrivano ad ucciderlo nella convinzione di salvarlo da sofferenze future. Anche dietro a questi gesti, possono celarsi altre motivazioni.
Le madri che apparentemente si prendono cura del proprio bambino ma in realtà lo stanno subdolamente uccidendo:
la “Sindrome di Munchhausen per procura” indica quella condizione per cui la madre provoca nel figlio delle lesioni che simulano delle malattie al fine di ottenere, in modo particolare, l’attenzione del medico.
La sindrome prende il nome dal barone di Munchausen, un personaggio letterario spaccone che intratteneva i suoi ospiti raccontando avventure impossibili, e focalizza l’attenzione sulla caratteristica comportamentale principale mostrata da chi soffre di questo disturbo: dire bugie ripetute.
Il primo studioso a usare l’espressione “Sindrome di Munchausen” fu il dottor Asher nel 1951, che descrisse le persone che si rivolgono insistentemente e inutilmente a medici e strutture sanitarie, lamentando di soffrire di disturbi che, in realtà, non esistono. La finzione è portata talmente avanti che i soggetti affetti dal disturbo si sottopongono a ripetuti accertamenti medici e addirittura a interventi chirurgici che possono provocare conseguenze dannose, e questa volta reali, alla salute.
Nel 1977, il pediatra inglese Roy Meadow adopera per la prima volta il termine Sindrome di Munchhausen per procura (SMP), descrivendo la situazione in cui uno o entrambi i genitori inventano sintomi e segni fittizi nei propri figli o addirittura loro stessi provocano sintomi e disturbi( ad esempio, con la somministrazione di sostanze venefiche) e poi li sottopongono a una serie di esami e interventi che raggiungono il risultato di farli diventare molto ammalati o addirittura ucciderli.
Nel 1982, Meadow descrive diciannove casi “per procura”, fornendo informazioni molto interessanti sulle famiglie coinvolte, constatando che la maggior parte dei bambini erano stati esaminati da diversi dottori e in varie strutture ospedaliere senza che nessuno dei medici avesse capito di cosa si trattava. In tutti i casi, erano sempre state le madri a provocare i sintomi e una buona parte di esse possedeva delle capacità infermieristiche di vario livello. Inoltre, gran parte delle madri aveva in precedenza sofferto della stessa sindrome della quale venivano riprodotti i sintomi sui bambini. Durante le malattie dei figli, la madre cercava sempre di fare tutto il possibile per vivere negli ospedali in cui essi erano ricoverati e, quando le madri erano presenti, solitamente le condizioni di salute dei bambini peggioravano.
In tutti i casi studiati, Meadow si accorse che il padre era l’elemento passivo della coppia e, spesso, era presente un certo grado di discrepanza fra i coniugi, a livello intellettuale e sociale, con la donna in una posizione di superiorità.
Lo studio della SMP si sta diffondendo nella comunità medica e la sua comprensione sta progressivamente migliorando, anche se, purtroppo, ci sono ancora troppi casi in cui non viene riconosciuta e quindi non s’interviene in tempo a fermare una madre che mette in atto delle azioni lesive nei confronti dei propri figli. Le Caratteristiche sono:
1. Il segno distintivo della smp è la contraffazione di una patologia medica con frequenza.
Un qualche tipo di patologia medica viene contraffatto ripetutamente per un periodo temporale che può essere breve (giorni o settimane) o lungo (mesi o anni).
2. La malattia creata può essere simulata e prodotta, o entrambe.
Alcune madri simulano soltanto una patologia nel figlio, ma non gli fanno realmente niente di dannoso. Altre madri producono la patologia nel figlio (e sono i casi più pericolosi in cui troviamo le madri-assassine seriali), danneggiandolo seriamente: ad esempio, una madre può soffocare ripetutamente il figlio e affermare che soffre di episodi di apnea.
3. Gli autori della smp non rientrano necessariamente in una tipologia.
Se, fino a un certo punto, una madre ha soltanto simulato una patologia, che non è detto che, in un secondo momento, possa anche produrla. Anche la donna che si limita a simulare presenta gravi tratti caratteriali psicopatologici che sono simili a quelli delle donne che agiscono attivamente a danno del figlio.
4. La varietà dei mezzi con cui le madri possono simulare o produrre la patologia è veramente incredibile.
La smp può manifestarsi con problemi patologici indotti nel bambino a carico di qualsiasi apparato e la lista dei sintomi è praticamente inesauribile. Questi problemi si presentano in qualsiasi momento dell’infanzia, ma le madri assassine scelgono preferibilmente come bersaglio neonati o comunque bambini piccoli in età prescolare).
5. La smp può comprendere la deliberata omissione di medicine o cure per un bambino che è veramente malato.
Questa eventualità accade soprattutto se c’è un bambino che soffre di una malattia cronica (ad esempio, asma o allergie). La madre omette il trattamento medico allo scopo di peggiorare le condizioni del figlio. Si parla di smp quando si accerta la premeditazione nell’omissione della cura. Mentre una dimenticanza singola può essere il risultato della stanchezza e/o della disperazione della madre, la cronicità della contraffazione è una delle prove più evidenti di smp.
6. La smp e una malattia reale possono avvenire insieme.
Il bambino può soffrire veramente di una patologia clinica acuta aggravata costantemente dal comportamento doloso della madre. In alcuni bambini si viene a creare uno stato di salute indebolito a causa delle malattie croniche indotte artificialmente dalla madre.
7. La smp può manifestarsi attraverso anormalità comportamentali, di sviluppo o psichiatriche.
Come specificato nel punto 4, la lista dei sintomi possibili è infinita e la madre può produrre nel figlio sintomi psichiatrici somministrandogli delle droghe oppure, tramite la suggestione, può convincerlo di essere realmente malato.
8. La smp può presentarsi come falsa denuncia di abuso.
La smp si può presentare sotto forma di false denunce di violenza sessuale o fisica, in cui magari la madre, per vendicarsi del marito, lo denuncia come responsabile di maltrattamento verso il figlio. Può anche esserci un problema di psicosi nella madre che “immagina” delle violenze sul figlio.
9. I bambini che concordano di avere tutti i sintomi denunciati falsamente dalle madri, siano essi fisici o psicologici, non devono essere considerati dei bugiardi.
Il bambino può autoconvincersi, ad opera della madre, di essere veramente malato e di avere tutti quei sintomi che lei gli ripete di continuo.
10. La smp deve essere distinta da altri disturbi che rivelano l’ansia del genitore.
La madre può continuare a essere eccessivamente preoccupata per un figlio che, in passato, è stato molto malato (sindrome da bambino vulnerabile): in questo caso, non c’è contraffazione, ma cattiva percezione e, quindi, non c’è smp.
La madre può accentuare la gravità di alcuni sintomi, manifestando un atteggiamento iperprotettivo (Doctor Shopping): anche in questo caso, non c’è contraffazione, ma cattiva percezione, quindi non c’è smp.
11. Le caratteristiche visibili di chi perpetra questo abuso coprono una vasta gamma.
La madre che soffre di questa sindrome può appartenere a qualsiasi strato sociale e non esiste un profilo psicologico specifico. L’unico elemento comune a tutte è l’impiego di un’energia smisurata nel creare una carriera per se stessa attraverso le false o costruite patologie del figlio: tutta l’esistenza di queste donne ruota attorno a un’unica attività.
12. Madri che perpetrano la smp possono trarne profitto.
Si sono verificati casi in cui madri che hanno ferito o ucciso il proprio figlio, poi hanno denunciato l’ospedale o il medico curante per negligenza. Quando non possono continuare a fabbricare malattie, queste donne possono rivolgere la loro attenzione patologica a screditare il medico e cercare di ottenere dei soldi.
La gravità della sindrome si misura con la gravità dei danni provocati al figlio (o a più figli), ma va sottolineata l’importanza del punto 3: anche una madre che si limita a simulare una patologia nel figlio può, in un secondo momento, trasformarsi in una madre che danneggia attivamente la salute del figlio e può arrivare anche ad ucciderlo.
Alla luce di questa considerazione, risulta particolarmente importante che il personale medico sia capace di effettuare in maniera corretta e precoce la diagnosi di smp.
Non sempre donne affette da smp la esercitano sui figli: nel caso in cui si tratti di infermiere, possono manifestare la patologia nel luogo di lavoro, scegliendo come bersaglio dei pazienti.
I casi più gravi di smp possono sfociare non solo nell’uccisione di un figlio, ma addirittura nell’omicidio seriale di più figli, anche se non tutte le madri che mettono in atto la smp diventano assassine seriali.
Il caso più sconvolgente è avvenuto negli Stati Uniti dove una donna di nome Marybeth Tinning si è resa responsabile della morte di otto dei suoi nove figli senza che nessun medico si fosse accorto della patologia in tempo per poter salvare le vittime.
Esistono, inoltre, numerose variabili concausali che possono influire sulle motivazioni sociali e personali che portano a commettere un delitto come quello del figlicidio.
Ad esempio:
Un sentimento inadeguato di maternità: ogni essere umano, subito dopo la nascita, ha bisogno di una “madre sufficientemente buona”, come voleva Winnicott, che sia in grado di adattarsi in maniera attiva e quasi completa ai bisogni primari del proprio bambino. Se le cure della madre verso la figlia, che diventerà madre a sua volta, sono state adeguate e corrette, quest’ultima potrà avere un atteggiamento positivo nei confronti del proprio ruolo di madre dei propri figli.
Se invece la donna ha avuto una “cattiva madre”, percepirà il mondo con diffidenza, immaturità, mancanza di autostima.
Ed è proprio questo il caso di molte madri che hanno commesso un figlicidio, le quali hanno avuto una ”cattiva madre” che non è stata in grado di trasmettere loro un sentimento adeguato di maternità.
L’abuso di sostanze: l’abuso di sostanze stupefacenti, in particolare l’eroina e la cocaina, può contribuire al figlicidio in due modi: da un lato, la loro assunzione o l’astinenza da esse può provocare irritabilità, eccitazione, stati depressivi e/o disforici; dall’altro, nei casi di doppia diagnosi (malattia mentale e tossicofilia) può scatenare scompensi psicotici, quali eccitazione maniacale, deliri, allucinazioni che possono culminare nell’atto omicidario.
La presenza frustrante di situazioni emotive problematiche: alcune madri uccidono i propri figli in coincidenza di situazioni fortemente stressanti sopraggiunte nei mesi o anche nei giorni precedenti al delitto. In genere si tratta di situazioni di crisi in cui vi è rappresentata la perdita e/o la separazione, per esempio: la morte di persone care, mutamenti della vita non voluti, separazioni, perdita di sicurezza economica ed altre ancora.
La presenza di psicopatologie acute: la malattia mentale, pur non rappresentando l’unica causa di tale delitto, può agevolare l’agito omicidario.
Dopo questo lungo excursus sulle motivazioni che possono portare una donna ad uccidere il proprio figlio e sulle condizioni e modi in cui ciò avviene, vorrei soffermarmi sulle molteplici dinamiche psicologiche che possono seguire tale delitto. La loro “tempestiva” comprensione risulta essere estremamente importante sia per l’accertamento della verità in sede giudiziaria, sia per impostare un intervento terapeutico finalizzato ad un’immediata prevenzione dei tentavi di suicidio, molto frequenti in queste donne, o di reiterazione del delitto, e, a lungo termine, ad una più completa riabilitazione della persona. In alcuni casi, le madri che hanno ucciso il proprio figlio tendono ad una confessione completa e veritiera non appena commesso il delitto, in altri, invece, le madri continuano a sostenere, anche per lunghi periodi, la loro estraneità. Un esempio del primo gruppo, può essere quello della madre “sopravvissuta” ad un progetto di suicidio allargato che, dopo avere ucciso il proprio figlio, racconta con grande sofferenza e con minuziosità di particolari il delitto da lei commesso. Un esempio del secondo gruppo, è quello di una madre che uccide il figlio perché indesiderato e tende a negare con forza la propria responsabilità fino ad attribuirla ad un’altra persona.
Alla base di tali processi psicologici, c’è spesso il tentativo da parte dell’autore del delitto a trasformare, in modo spesso inconscio e per una difesa psicologica, la propria immagine e quella della vittima. Per quanto riguarda se stessa, la madre può cercare di trasformare la propria immagine di madre “crudele e cattiva” in quella di madre “disperata e sofferente”, immagine quest’ultima favorevole al mantenimento di una sufficiente autostima ed accettazione di se stessa. Per quanto riguarda l’immagine del proprio figlio, può essere resa più “cattiva” o molto più “buona” di quella che è in realtà, con l’intento di “giustificare” il proprio atto (“Mio figlio era veramente un demonio”) o di cercare di placare i propri sentimenti di colpa richiamando su se stessa una punizione (“Mio figlio era un angelo, sono io quella cattiva che deve essere punita per l’orrendo crimine che ho compiuto.”). Sulla confessione della madre, grande influenza hanno tutte le misure difensive per eludere la giustizia o almeno attenuare e ridurre la pena prevista per il reato commesso. In quest’opera di difesa, gli avvocati, i parenti e le stesse notizie che provengono dai vari mezzi di comunicazione rivestono un ruolo di grande importanza, sia come fonti di informazione e sia nella scelta delle tecniche difensive da adottare. A volte i meccanismi di difesa, di trasformazione dell’immagine di se stessa e della vittima,utilizzati dalle madri si associano bene con i mezzi di difesa psicologici delle persone a loro vicine o dell’opinione pubblica, andando infine ad essere avvalorati, non sempre in maniera adeguata, da spiegazioni scientifiche. Ecco che da qui ci si appella, a scopo defensionale, a stati di infermità mentale temporanea, a personalità multiple, al contagio della patologia mentale, a vari tipi di amnesia patologica, ecc. C’è poi da considerare con particolare attenzione il processo della “simulazione conscia che si trasforma in simulazione inconscia”, per cui una persona inizia a dire una falsità sapendo di dire una falsità, ma poco per volta si convince di dire la verità e così, al termine di un lungo processo di auto-convincimento, la persona diventa persuasa acriticamente di affermare la verità. Questo è il caso di quelle madri che, subito dopo il delitto, utilizzano delle versioni false dell’accaduto, per poi, dopo lungo tempo, arrivare a credere loro stesse a quanto affermato in precedenza.
La comprensione della difficoltà, da parte delle madri, di rievocare il ricordo dell’uccisione del proprio figlio, può presentarsi più o meno difficoltosa a seconda dei casi. In alcuni casi può essere facilmente comprensibile e sono le madri stesse ad esternare chiaramente di essere consapevoli di ciò che è accaduto ma di non volerlo ricordare. In altri casi, possono presentarsi vari meccanismi di difesa che hanno lo scopo di tutelarle dall’ansia, dai sensi di colpa, dal rifiuto di fronte ad un così orribile delitto, e che sono: le fantasie compensatorie (“Non volevo farlo, presto mi riunirò a mio figlio in cielo e saremo felici.”), la razionalizzazione (“Ho ucciso mio figlio per non farlo più soffrire.”), la proiezione, attraverso cui si attribuiscono le proprie colpe ad altre persone (“Non sono stata io ad uccidere mio figlio, è stato mio marito a convincermi.”), l’”isolamento”dei sentimenti del
fatto (“So di avere ucciso mio figlio, ma non provo alcun sentimento.”). In altri casi, i meccanismi di difesa sono utilizzati in modo così esasperato da andare a configurare dei quadri psicopatologici gravi concernenti alterazioni della “normale reazione da lutto”, ossia dei processi psicologici che andrebbero messi in atto di fronte la perdita di una persona cara, o delle “amnesie patologiche”, ossia le patologie psichiatriche che non permettono di rievocare il ricordo. Esempi sono il meccanismo della negazione, per cui una madre può arrivare a credere che il proprio figlio sia vivo in attesa del suo ritorno dopo l’ingiusta carcerazione (reazione da lutto delirante); oppure, in alcune personalità (personalità borderline, disturbi post-traumatici da stress, stati dissociativi, etc.) possono verificarsi delle amnesie patologiche in cui la madre non è in grado di rievocare il fatto, come se l’avesse cancellato dalla propria mente o non fosse in grado di utilizzare i meccanismi fisiologici per far tornare il ricordo allo stato di coscienza (Nivoli, 2002).
Lo schema comportamentale messo in atto dalla madre figlicida dopo l’uccisione del proprio figlio può essere influenzato da numerose variabili, quali:
· la presenza o meno di una malattia mentale e la sua tipologia;
· il rapporto con la famiglia di origine e la famiglia acquisita;
· la capacità di introspezione e accettazione della madre in relazione al delitto;
· il tipo di contesto penitenziario;
· la reazione da parte della madre a trattamenti psicoterapici e farmacoterapici.
La presenza di queste variabili ed altre ancora, ci fa facilmente intuire l’impossibilità di tracciare una schema di comportamento che sia valido per tutte le madri figlicide. Tenuto conto di ciò, Gian Carlo Nivoli (2002), ha evidenziato quattro fasi distinte che possono caratterizzare il comportamento di una madre dopo aver ucciso il proprio figlio:
· La fase immediatamente seguente all’arresto: questa fase è caratterizzata da un alto rischio suicidario da parte delle madri, che può da loro essere manifestato più o meno chiaramente. In questa fase i familiari della madre omicida le stanno accanto e cercano spesso, in un processo di negazione, di attribuire la colpa di quanto successo a terze persone o a stati temporanei di malattia, allo scopo di proteggere e di continuare ad avere una relazione con una persona che rimane pur sempre autrice di un delitto.
· La fase prima della conclusione di un processo: in questa fase, la madre appare spesso a disagio, ansiosa ed inquieta, ed è possibile attribuire questo stato psicologico ad almeno tre ragioni: la prima è dovuta all’inizio della reazione di lutto, in cui la madre inizia a percepire la mancanza del proprio bambino ed, in modo più o meno chiaro, le proprie responsabilità; la seconda è dovuta allo stato di detenzione in prigione, con tutti i problemi legati alla perdita di libertà, all’etichettamento da parte dei mass-media, alle difficoltà relative all’ambiente penitenziario; la terza riguarda l’azione di turbamento a causa di tutte le procedure legali, i colloqui con il giudice e gli avvocati, le dichiarazioni dei mezzi di comunicazione, che “costringono” la madre a doversi confrontare con il delitto appena compiuto e con tutti gli stati emotivi che da questo confronto scaturiscono. Anche in questa fase, esistono dei momenti particolarmente rischiosi per il passaggio all’atto suicidario, come: le intrusioni emotive del ricordo del bambino, per esempio legate a particolari ricorrenze (anniversario della nascita del bambino, le festività natalizie, la festa della mamma), in cui il ricordo è più vivo e può far scaturire sensi di colpa e desideri di punizione che possono tramutarsi in tentativi di suicidio; come pure la presa di coscienza
emotiva delle prove di colpevolezza, in cui, dopo un’iniziale speranza che non esistano delle prove concrete per poter essere accusata, segue la consapevolezza di essere condannata ad un destino di detenzione e di “condanna sociale” per il “più orribile dei delitti”.
· La fase dopo la conclusione del processo: dopo che il processo si è concluso, le madri figlicide attraversano una fase temporanea di apparente tranquillità, la cui durata può variare a seconda dei casi. In un primo momento, viene utilizzato il meccanismo di difesa della negazione dei fatti accaduti, per cui le madri non riescono a rendersi conto della scomparsa definitiva del proprio figlio, e del proprio stato psichico, negando i propri sintomi depressivi e giungendo a costruire con la fantasia un futuro immaginario diverso da caso a caso. In un secondo momento, avviene un contatto duro e penoso con la realtà, per cui diventa sempre più chiaro che il loro bambino non c’è più e che le uniche responsabili della sua morte sono solo loro. In questo momento, i rischi suicidari aumentano ed è ancor più difficile rilevarli poiché le madri, paradossalmente, tendono a manifestare un buon adattamento all’interno dell’ambiente carcerario, mostrandosi attente, rispettose e socievoli.
· La fase del reinserimento sociale: nei casi di figlicidio, non è raro assistere a dei meccanismi psicologici di riparazione, attraverso il desiderio di avere un altro figlio e di prendersi cura di lui.
Quando ciò avviene a distanza di anni, potrebbe essere visto come un segnale terapeutico di un adattamento creativo alla penosa situazione che si è verificata in passato. Il desiderio della madre figlicida deve essere in ogni caso valutato attentamente dai terapeuti, perché potrebbe celare la possibilità di una recidiva e cioè l’uccisione di un altro figlio. In tal proposito, è molto importante riuscire a comprendere se le dinamiche che hanno portato al primo caso di figlicidio si siano esaurite attraverso un lungo percorso terapeutico e non siano più presenti al punto da poter determinare una recidiva. Per quanto riguarda i familiari della figlicida, al contrario della fase immediatamente successiva all’arresto in cui apparivano disponibili e collaborativi, in questa fase possono essere diffidenti, ostili ed avere difficoltà ad accettare il ritorno a casa della propria moglie, madre o figlia. Inoltre, nei casi delle madri che avevano precedenti psichiatrici, in questa fase di reinserimento sociale, possono verificarsi degli scompensi di tipo psicotico, con deliri, allucinazioni, stati dissociativi, ecc. che devono essere attentamente e costantemente monitorati da parte dei terapeuti che seguono queste donne (Nivoli, 2002).
E’ possibile osservare che l’’infanticida di oggi non corrisponde più alla madre crudele o indifferente spesso presente nell’immaginario collettivo. Al contrario, è spesso una madre amorevole e attenta ai bisogni del proprio bambino, a volte anche in maniera “eccessiva”. Negli articoli di cronaca, che seguono i delitti di infanticidio, il comportamento materno giudicato normale o ammirevole appare ai nostri occhi inquietante. Frasi come “Si dedicava molto ai propri bambini.” “La vedevamo sempre, da sola, insieme ai suoi figli.” “Non li lasciava mai a nessuno.”, tendono, col senno di poi, a far paura, a far pensare che sarebbe stato possibile fare qualcosa per impedire un delitto simile.
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