La relazione Criminologo- Detenuto

Nell’ambito del colloquio clinico tra il detenuto e la figura professionale del criminologo in un’istituzione penitenziaria, si intrecciano molteplici elementi che concorrono a rendere tale relazione difficoltosa. Diffidenza e pregiudizi sono comuni sia negli operatori sanitari nei confronti dei detenuti, sia da parte di questi ultimi nei confronti degli operatori. Il detenuto spesso è percepito come un manipolatore, per lo più orientato ad ottenere benefici secondari da chiunque. Gli operatori sono inquadrati nell’ottica della tipica “sottocultura carceraria” che prevede una divisione netta tra il mondo del detenuto e quello degli “altri” e ad una tipica strutturazione “paranoidea” della personalità del detenuto che, senza necessariamente sconfinare nella psicopatologia, si caratterizza per sospettosità, sfiducia, e marcato utilizzo di meccanismi proiettivi.
In questo senso, il colloquio con il detenuto va necessariamente decodificato e interpretato nel suo significato e nelle sue specifiche dinamiche. Il “mondo del carcere” implica valori, scelte di comportamenti non sempre sovrapponibili a quelli che una persona può gestire, in libertà, al di fuori delle mura carcerarie e delle regole che la condizionano. E’ possibile ipotizzare delle osservazioni di tipo antropologico-culturale, con lo scopo di aiutare le figure professionali che si relazionano con chi è ristretto dentro le mura penitenziarie.
La maggior parte dei detenuti non è certo gratificata dal fatto di essere etichettata, emarginata, stigmatizzata come deviante, delinquente, condannata, ma sente necessario il bisogno, almeno durante il colloquio, di recuperare un ruolo sociale che sia riconosciuto positivamente. Il detenuto cercherà, quindi, di offrire di se stesso una buona immagine, definendosi, per lo più, come persona innocente, o, comunque, non colpevole del reato di cui è stato imputato e/o condannato. La proclamazione di innocenza può variare dalla negazione assoluta della partecipazione al fatto, fino alle più sofisticate giustificazioni di quanto è successo. Il detenuto tenderà a dipingersi come una persona non priva di buone qualità umane, amante della madre, rispettoso dei genitori, devoto e attento ai bisogni della propria moglie, in grado di sacrificarsi per i figli, onesto lavoratore. Tenderà, infine, a presentarsi, anche nell’ambiente carcerario, come un detenuto modello, una persona che non fa la spia, non si permette di giudicare nessuno, non chiede quello che non gli è dovuto. Questa non può essere sbrigativamente etichettata come “simulazione”: per la maggior parte dei detenuti, soprattutto quelli che da tempo sono ristretti nelle carceri, sarebbe quasi traumatizzante un confronto con l’amara realtà della loro vita. Mettersi davanti allo specchio e valutare, in modo obiettivo, che alla loro età non hanno concluso nulla a livello di lavoro, di sistemazione economica, non hanno alcuna professionalità, non possiedono alcuna fonte di reddito e non hanno alcun conforto emotivo da parte delle persone più care, che, anzi, li criticano o addirittura li abbandonano, è estremamente difficile. Molti detenuti, poi, sono affetti da patologie croniche, per cui fanno molta fatica a cogliere una speranza nel futuro. Ed è allora che il detenuto attribuisce la colpa di tutte le sue “sventure” agli altri (“la colpa non è mia, è degli altri!”) o assume il ruolo di vittima (“gli altri sono cattivi, io sono buono, io sono solo una povera vittima della cattiveria degli altri”). Alcune volte la proiezione della colpa viene fatta con modalità difficilmente comprensibili per chi non è avvezzo a riconoscere i meccanismi di difesa. Ad esempio, “La colpa, se io sono in carcere, è dei miei genitori… Mi hanno detto: ‘Sei un drogato! ’ e allora io sono stato costretto ad andarmene fuori di casa e a drogarmi”.
Com’è ovvio, non si può aprioristicamente escludere la reale possibilità che la colpa non sempre sia del soggetto e che numerose dinamiche si spieghino attraverso ruoli vittimologici: tutti elementi che vanno approfonditi sotto l’aspetto cognitivo. Spesso è difficile ottenere delle risposte obiettive, precise, specifiche, anche a domande apparentemente semplici. La risposta, per lo più, è vaga, imprecisa, onnicomprensiva e, soprattutto, tende a variare nel corso del colloquio stesso. La nebulosità delle risposte è tanto più evidente quanto più il detenuto non ha idee chiare su quello che vuole o può ottenere dalla persona che lo sta interrogando. Queste risposte “a largo alone semantico” non impediscono che a volte vengano date risposte del tutto non veritiere finalizzate ad ottenere specifici guadagni secondari.
Spesso chi opera in istituzioni penitenziarie si confronta con un detenuto che richiede pressantemente un colloquio, nell’ ambito del quale non emerge, però, un problema chiaro come poteva sembrare alla richiesta, ma emergono miriadi di problemi, tutti “importantissimi”, tutti “urgenti”, quasi tutti “senza speranza di risoluzione”, che il detenuto espone al suo interlocutore. Si tratta, a volte, di essere “investiti”, nel senso vero e proprio del termine, da un affollamento confuso di problemi che egli con ansia, agitazione e, talvolta in modo aggressivo e provocatorio, getta sulla scrivania o direttamente sulla coscienza di chi lo ascolta.
Il detenuto è spesso oggetto, in carcere, di penose frustrazioni, non solo legate alla vita carceraria, ma anche alle notizie che possono giungere dall’esterno. Alla frustrazione, egli può reagire con dei passaggi all’atto, con autolesionismi, tentativi di suicidio, aggressioni, crisi pantoclastiche, che provocano a loro volta un grave scompiglio nel carcere, creano turbamento ed ansia tra il personale medico e paramedico ed il personale addetto alla custodia, perché appaiono non sempre
prevedibili e, soprattutto, molto difficili da gestire. Un esempio tipico si può avere nel detenuto che va in infermeria e richiede un’enorme quantità di farmaci. Quando gli vengono rifiutati, incomincia i suoi acting-out verso il personale medico e paramedico, sbatte la porta dell’infermeria, si reca in cella ed in genere, dopo aver preso le lamette, si produce vistose lesioni alle braccia.
Accade, inoltre, che il detenuto ponga una “attenzione selettiva” tanto nei confronti di atteggiamenti malevoli, quanto di atteggiamenti benevoli da parte dell’ambiente carcerario. L’attenzione può essere anche rivolta a desideri e speranze che egli nutre nei confronti dei suoi interlocutori. Del tipo: “Voi me l’avevate promesso che mi avreste fatto uscire dal carcere… “.
Soprattutto noi psichiatri saremmo portati ad identificare questo comportamento con una psicopatologia legata ad una interpretazione paranoidea della realtà in senso persecutorio o ad una interpretazione di tipo “maniacale”, come accade nel disturbo bipolare dell’umore, in cui tutto è facile, semplice, possibile, tutto si può ottenere immediatamente.
L’attenzione selettiva è stata oggetto di molti studi psicologici e psichiatrici. Sono stati fatti esperimenti con “pseudo-pazienti” psichiatrici, in realtà sani di mente, in cui il personale medico e paramedico riusciva a trovare la patologia che si aspettava di trovare. Se venivano, infatti, inviati pazienti descritti come psicotici, essi tendevano ad essere riconosciuti come psicotici sebbene fossero sani. Ovviamente, in ambito carcerario l’attenzione selettiva, che può variare nei campi più disparati, non è di necessità separata da eventuali disturbi di personalità o psicosi che si possono variamente associare e contribuire a complicare una corretta visione della realtà da parte del detenuto. Nell’ambiente carcerario, com’è intuibile, spesso non solo vengono vissuti sentimenti di tipo depressivo che rappresentano la difficoltà a nutrire delle speranze per il futuro (hopelessness), la difficoltà a poter ottenere aiuto (helplessness), la difficoltà ad avere una buona autostima (worthlessness), ma può esservi anche la messa in atto, da parte del detenuto, di previsioni spesso a fondo nichilista, di impotenza, che egli stesso favorisce nell’ambito di un’autoprofezia che si sforza di realizzare. Quel detenuto sembra farlo apposta: si lamenta che non lo si mette mai a lavorare e così non può guadagnare dei soldi e non può essere utile a casa; però ogni volta, prima di essere messo a lavorare, quando gli si dice: “Da domani puoi andare al lavoro”, lui aggredisce qualche compagno o qualcuno del personale di custodia, così è punito e non è più inviato al lavoro. È frequente che in ambiente carcerario, proprio per la prevalenza di sentimenti come ostilità, aggressività, paura, e componenti depressive (perdite, separazioni, scarsa o poca fiducia in se stessi, difficoltà ad accettare o a pensare che si possa essere aiutati, blocco delle speranze future), si creino aspettative che spesso è lo stesso detenuto a rendere reali e concrete confermando la “profezia”, spesso a carattere depressivo, che aveva costruito.
Quando il detenuto, da uomo libero che era, entra nelle mura del carcere, non lascia fuori dalle porte del carcere tutti i suoi problemi sociali, psicologici e, soprattutto, i suoi schemi comportamentali. Anche in carcere cercherà di reiterare quello che era solito ripetere, stimolato in modo simile, nel suo ambiente libero. Talvolta è nell’ambito della sua permanenza in carcere che il detenuto tende a riproporre determinati schemi comportamentali inadeguati e disfunzionali alla sua vita. Il detenuto, ma questo non differisce dalla maggior parte delle persone, tende a ripetere nella propria vita schemi di comportamento già fissati, elaborati, basati su esperienze precedenti. In ambito carcerario questi schemi tendono ancora di più a fissarsi, data la maggior ristrettezza del campo esistenziale e delle scelte, e spesso sono improntati ad un comportamento distruttivo e violento nei confronti di cose, di se stessi o degli altri. Il carcere non è solo, nell’ambito di una rappresentazione simbolica, un padre crudele, cattivo che toglie la libertà, impone sacrifici e punizioni; è, paradossalmente, per alcuni detenuti, la rappresentazione di una madre accogliente ed accettante. L’istituzione rappresenta, infatti, l’unico ambiente in cui molte persone hanno un tetto sotto cui ripararsi, del cibo caldo per nutrirsi, un letto su cui dormire, sono anche curati per le loro malattie, ma soprattutto vengono accettati ed ascoltati.
“A casa non ho nessuno che mi ascolta, nessuno che bada a me, tutti mi chiedono i soldi per tirare avanti, mi disprezzano, mi trattano male… l’inferno è fuori, ed io ho paura, ne vorrei parlare ma ho paura, credo che solo parlando con qualcuno mi toglierò le paure che mi aspettano fuori dal carcere”. Questa ambivalenza della figura del carcere, come padre che punisce e madre che accoglie, andrebbe adeguatamente utilizzata ai fini terapeutici.
E’ stata descritta una vera e propria sindrome, la “vertigine dell’uscita”, ossia l’insieme di paure ed ansie che si possono avere prima di uscire nuovamente dal carcere ed affrontare la vita in libertà. E le persone possono reagirvi in modo anche molto diverso.
Il mondo carcerario è spesso vissuto all’insegna della paura di essere aggrediti dalle altre persone. È il sentimento più diffuso, che permea sia il personale di custodia che i detenuti. Questa paura non è quasi mai verbalizzata in modo così chiaro dal detenuto, ma sono spesso altri contenuti del colloquio a mascherarla ( e a svelarla, come in un rebus). Ad esempio, spesso, quando il detenuto si lamenta di avere una cella troppo umida, in realtà sta dicendo che ha paura di essere aggredito, come anche un dolore alla colonna vertebrale e il non poter scendere all’ora d’aria stanno ad indicare che in libertà con gli altri detenuti potrebbe essere vittima di un’aggressione .
In modo ambivalente è presente, inoltre, il sentimento di disagio provato per vivere lontani dalla propria casa, dalla propria donna, dai propri beni personali, con il proliferare di nostalgie verso il bene, il bello e il buono dell’esterno, irrimediabilmente perduto, in contrasto con il cattivo, il brutto e il pericoloso dell’interno. Questo permette di isolare alcune osservazioni specifiche sul colloquio con il detenuto, in quanto la complessità della corretta decodificazione del contenuto di un colloquio suggerisce di ottimizzare la comunicazione nella rete di operatori che con esso si relazionano. Il contenuto di un colloquio, a volte, risulta un mosaico i cui tasselli sono sparsi tra i vari operatori; solo una buona e corretta comunicazione tra questi, in un intervento di “rete”, permette di ricostruire il reale significato di un colloquio che altrimenti rimarrebbe frammentato, incompleto e, soprattutto, incomprensibile e non terapeuticamente utilizzabile.
Appare opportuno saper adeguatamente valutare il contesto e la temporalità del colloquio: ciò che in un dato momento ha un significato potrebbe non averlo in un momento successivo. Pertanto, il reale significato delle comunicazioni dovrebbe sempre essere verificato e contestualizzato nell’attualità del momento. Saper riconoscere ed affrontare questo, al di là della diffidenza, rappresenta uno strumento diagnostico e terapeutico, che non può prescindere da una corretta valutazione ed identificazione dei meccanismi psicologici alla base delle proprie emozioni e comportamenti.

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