Quando la paura si fa coraggio: riflessioni tra Psichiatria e Filosofia

“Fatti coraggio, non avere paura…” è una frase che molte volte ci siamo sentiti ripetere soprattutto da bambini, quando avevamo paura di affrontare una certa situazione che ci sembrava di non poter superare, un compito a scuola, quell’amico che ci faceva dispetti, la possibilità di dare un dispiacere ai genitori, di non riuscire ad essere all’altezza delle loro aspettative. Ma anche da più adulti, possiamo, nel corso della nostra vita, esserci trovati di fronte ad una possibilità che ci spaventava e che avremmo voluto, potendo, non scegliere, ma l’altra era addirittura impossibile, ed allora si doveva cercare di vincere la paura.
Avere coraggio, dunque, sembra significare sempre, vincere la paura. Ma è proprio così?
Il “coraggio di aver paura” è sempre una contraddizione? Lo è nella forma di una coincidenza tra esperienza della paura ed esperienza del coraggio, laddove, però, il coraggio non sia più inteso come una forma di superamento della paura ma acquisti il significato di un elemento che possa trarre origine dalla paura stessa e che affondi in essa le sue origini.
La paura da un punto di vista più strettamente psicopatologico può essere indeterminata ed indiscriminata: quante volte sento dire ai miei pazienti:” Ho paura di tutto, ma non so di cosa”. E’ una paura senza oggetto, ma di ogni oggetto. Oppure può esprimersi sotto forma di una fobia specifica, di una persona, di un oggetto, di un luogo o di una situazione.
La prima in Filosofia sarebbe sovrapponibile alla “paura assoluta” di cui scrive Hegel nella Fenomenologia dello spirito e che è, fondamentalmente, paura della morte: non timore di perdere, di vedere negato qualcosa di preciso, ma timore di vedere negata la vita stessa.
L’autocoscienza in questo gioca un ruolo fondamentale: per fare esperienza concreta del proprio essere, ha bisogno di ottenere il riconoscimento di essere diversa da una “cosa” esterna. Per diventare umani è necessario essere ricono-sciuti nella propria differenza dal mondo delle cose. Ma questo riconoscimento di sé come umano, può venire solo da un altro umano, non certo da una cosa.
L’autocoscienza ha bisogno di un’altra autocoscienza e tale bisogno è reciproco, Da questo deriva la “drammaticità” dell’incontro o scontro tra esseri umani, perchè ognuno cercherà di prevaricare l’altro nell’intento che quest’altro affermi l’umanità del primo non riconoscendola, ma palesandola nella sua sconfitta, come se esso fosse ridotto al mondo degli oggetti. Non dunque la psicodinamica relazione intersoggettiva tra due soggetti, ma la relazione intersoggettiva in cui uno è il soggetto e l’altro si fa oggetto per assecondare il predominio del primo. Per Hegel questo significa che le due autocoscienze dovranno mettere a rischio la propria identità e, dunque, la propria vita. Non si può essere umani in due, uno di due deve farsi “coseità”. Ma la morte, d’altra parte, riduce l’autocoscienza ad oggetto e l’oggetto non può riconoscere l’autocoscienza come viva. Una impasse irrisolvibile? No, se la coscienza che avrà avuto paura di perdere la vita si assoggetterà all’altra, ammetterà di non essere pienamente umana ed in questo mostrerà coraggio. E’ la relazione che nel linguaggio freudiano, si riassume nel binomio Eros/Thanatos. La pulsione di morte è quella che in qualche modo comporta la continua esigenza di ridare forma all’esistenza umana.
La complementarità di pulsione di morte e pulsione di vita, secondo Freud, suggerisce che se vivere è organizzare forme, ciò è possibile solo in rapporto al contrario, il disorganizzarsi, il fluidificarsi di tutte le forme. Senza il confronto con l’altro non si può riconoscere l’ipseità dell’uno. In questo sta il coraggio di non avere paura: in quella che Sartre evocava come la specificità della esistenza umana: “Un uomo è ciò che egli fa di ciò che gli altri hanno fatto di lui”.

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