Quando si tratta il tema delle “cure palliative” si ha la sensazione, forse come in nessun altro ambito, di approcciarsi all’uomo, considerato nella sua più intima complessità e di una presa “in carico” nelle sue diverse dimensioni terapeutiche, sociali ed esistenziali. L’approccio olistico è indispensabile se si vuole intraprendere il tentativo di liberare la malattia e la morte dalla loro raffigurazione di semplici “fasi cliniche” e di trasformarle in un impegno comune.
In quest’ottica la malattia diventa riflessione sul senso della sofferenza, la morte stabilisce sì la limitatezza umana, ma ne favorisce anche una più dolce interiorizzazione. Il lutto, nel suo dolore della perdita, si afferma in una tenace manifestazione, seppur mutato, di amore. L’attuale tendenza, a prescindere da ideologie o ideologismi di stampo diverso, è quella di intendere le cure palliative come una “terza via” tra accanimento terapeutico ed eutanasia.
Se la medicina palliativa è definibile come “un approccio che migliora la qualità della vita dei malati e delle loro famiglie […] attraverso la prevenzione e il sollievo della sofferenza per mezzo di una identificazione precoce e di un ottimale trattamento del dolore e delle altre problematiche di natura fisica, psicofisica e spirituale” ( World Health organization, National cancer control programmes. Policies and managerial guidelines, Ginevra 2002, 84), occorre sistematizzare una filosofia per la fine della vita utile per porre in risalto il valore dell’uomo e le dimensioni esistenziali coinvolte nell’evento. In questo senso, le cure palliative vanno inquadrate in un approccio umanistico concreto, ponendo in risalto l’insieme dei principi etici necessari per affermare il valore della vita, della identità umana e riconoscere l’ineluttabilità della morte. Accingendoci a definire il concetto di persona, è necessario individuare gli aspetti peculiari dell’essere. Luigi Pareyson propone di comprendere la complessità dell’essere umano e di approfondire le dimensioni ontologiche fondamentali: “La persona è al tempo stesso esistenza, e cioè storia concreta del corporificarsi dell’iniziativa; compito, cioè coincidenza di ideale e dovere in una vocazione ch’è la coerenza cercata nella vita intera; opera, cioè forma vivente e irripetibile dotata di validità assoluta e originalità esemplare; io, cioè sostanza storica qualificata da una responsabilità essenziale, ed esercizio personale della ragione universale”( L. Pareyson, Esistenza e persona, Il melangolo, Genova 1985, 201).
Nell’ambito di tutti i processi di cura, ma in particolare delle cure palliative, il malato è sempre intessuto di storia e relazioni, che vanno valutati e valorizzati nel processo di cura stesso. La sua storia non inizia con la malattia, l’uomo malato non è la malattia che lo affligge, ma la sua storia che lo divide, lungo un continuum che va dallo stato di salute a quello della malattia, ed in cui essa va ad inserirsi come momento di defaillances nelle relazioni che ha con se stesso e con gli altri.
Qui si palesa la debolezza che necessita di ascolto partecipe della storia del malato e dei suoi vissuti, del suo modo di reagire, spesso sopraffatto dal volersi arrendere, laddove le forse vengano meno e la disperazione prenda il sopravvento.
L’uomo conserva la sua intima essenza anche nelle condizioni più drammatiche, anche quando tutto ci porterebbe a pensare ad una sorta di “disumanità” dell’essere umano. La persona è sempre e comunque persona, finchè è relazione, finchè trova il suo modo di relazionarsi con l’altro. Ma questo pone il drammatico problema della dignità della “persona”, che in alcune malattie si fa fatica a rintracciare addirittura anche solo come ricordo passato, e la cui sofferenza meriterebbe una pace eutanasica.
Umanizzare la medicina, significa porre in risalto l’esigenza di una medicina che, nei limiti delle sue competenze, si modelli sulle esigenze psichiche ed esistenziali dell’essere umano, con il corredo della sua dignità, e non di un essere umano come “numero”, come purtroppo troppo spesso e da più parti si vede. Il processo di umanizzazione non può prescindere dall’incontro con l’alterità, irreplicabile ed irripetibile, di ognuno di noi.
“Nel nostro genoma non c’è un gene scientifico che sarebbe il portatore della dignità. Piuttosto essa consiste in quel che noi stessi siamo complessivamente. E lo siamo sempre in rapporto ad altri enti e soprattutto in rapporto ad altri uomini” (B. Casper, Dignità e responsabilità. Una riflessione fenomenologica, La Compagnia della Stampa, Roccafranca 2012, 22-23).
Sono necessarie, quindi, alcune condizioni perché si possa parlare di dignità e del suo riconoscimento. Occorrono due uomini in rapporto tra di loro, un rapporto che deve effettivamente accadere, in una relazione la cui manifestazione avviene tramite il linguaggio, nel senso di parola parlata, ma anche nel senso del non-verbale ( mimica, gestualità e postura), ed anche tramite il silenzio che, di fatto, è oltremodo comunicativo. Con la comunicazione noi cessiamo parzialmente di essere per noi stessi ed iniziamo ad essere per l’altro, laddove, ovviamente, si tratti di una comunicazione partecipativa alla sofferenza ( ma anche alla gioia) altrui.
La dignità umana sta soprattutto nell’accettare la nostra caducità, la possibilità tangibile della morte, la limitatezza del nostro essere. Solo riconoscendo la propria impotenza e si può riconoscere quella dell’altro e, in questa, ritrovare la sua e la propria dignità. Sembra più difficile individuare la “dimensione dolore” nella dignità umana. Come è possibile restituire dignità, o meglio, una sofferenza dignitosa al dolore?
Le cure palliative, in questo senso potrebbero servire a sostenere l’essere umano nell’evolversi dell’evento drammatico, offrendogli la possibilità di utilizzare l’esperienza della prostrazione e di oltrepassarla. Trovare il senso del proprio dolore, soprattutto in quei dolori prostranti in cui un senso si fa grande fatica ad individuarlo presupporrebbe una scelta di apertura, che include anche la speranza. L’uomo che sta per morire percepisce il dolore e la speranza in maniera del tutto nuova: la speranza di aver creati qualcosa di buono nel passato e di aver quindi lasciato una traccia duratura di sé. Il risultato di questa elaborazione definisce il valore e l’importanza che entrambe avranno nella sua esistenza.
L’essere umano è passione, l’essenza dell’uomo alla fine della vita sta nell’essere sofferente: homo patiens. Chi soffre sperimenta tale rivelazione al di là del bene e del male, del bello e del brutto; la vive con freddezza, senza sentimenti né risentimenti […]. Di fronte all’homo sapiens va collocato l’homo patiens. All’imperativo sapere aude ne va contrapposto un altro: pati aude, abbi l’ardire di soffrire.
La sofferenza sarebbe allora elemento caratterizzante l’esistenza umana, o appropriazione del dolore, mentre l’empirizzazione del dolore nella propria storia, sarebbe indispensabile per dare un senso alla sofferenza perché individualizzato e dotato di un valore che riguarda il sofferente e la sua realtà. Riappropriandosi del dolore, l’essere umano scoprirebbe il suo limite e sfaterebbe l’idea che sofferenza e morte possano non riguardare la sua vita.
Ma per chi o per cosa ha senso soffrire? Come tradurre il dolore in significato? E l’operatore sanitario ha un ruolo in questo processo?
Trascendere la sofferenza, dotarla di significato, ha senso nel particolare. Il binomio sofferenza-comprensione si realizza solo nel verificarsi di un accompagnamento affettivo e relazionale. Il medico, o chi per lui, non può dare un senso alla vita del paziente, ma lo aiuta a trovarlo, lo assiste, lo accompagna. È, però, anche un riferimento necessario per proporre la riflessione sul limite. L’uomo è homo sapiens, ma soprattutto, homo patiens, è actio e ratio, ma anche passio e passio si avvicina a patior.
Il compito delle cure palliative è quello di porre al centro della riflessione sulla malattia e la morte, l’homo patiens, l’uomo che soffrendo scopre il suo limite e il suo destino segnato dall’inevitabilità del dolore. Solo attraverso questa prospettiva è possibile intendere la sofferenza come sfida attiva che si realizza nella comprensione e lascia un segno di testimonianza, che dall’hic et nunc, dalla sfida alla realtà in cui siamo immersi, offre un orizzonte sul dopo, forse sulla speranza. Sono due le questioni aperte dal sentimento della speranza nella fine vita di maggiore interesse: quella relativa al morente e quella che include gli operatori che lo accompagnano lungo il percorso sanitario ed esistenziale. Esisterebbe un’idea di speranza capace di accomunare credenti e non credenti: è possibile pensare a una concezione di speranza sostenuta dall’intuizione che questa non si esprima nell’attesa, ma nella sfida della comprensione e nell’esperienza della relazione.
Identificare la speranza con l’attesa di un futuro diverso sarebbe utopico. La speranza non è attesa di un miracolo che risolve. Ha una valenza profondamente religiosa, ma, proprio per questo, è limitante ridurla ad aspettativa di una grazia che salva dalla malattia. La speranza è una sfida che si realizza qui e ora, nella tensione umana che si fa desiderio di miglioramento del quotidiano.
La speranza nasce dalla cura del presente, di ognuno di noi. Nel morente, la speranza è un sentimento imbevuto di realtà, la speranza è sfida dell’“io” alla terminalità che si traduce in ricerca e desiderio di comprensione da parte del “tu” o dei “tu” con i quali si è condiviso il vissuto.
Possiamo interpretarla come affettività che resiste. La speranza, infine, si realizza definitivamente nella fiducia nell’altro che cura e accompagna; recupera la relazione e apre alla fiducia, interpretata come dono di affidamento a quei “tu” dell’assistenza sanitaria, umana e spirituale.
L’ultimo passaggio, rappresentato dal rapporto con l’altro a cui il morente si affida, in particolare il medico e l’infermiere, non si risolve solo nella somministrazione di un farmaco o nel supporto fisico, ma si esprime in un rapporto di accompagnamento, in cui il tecnico diventa anche compagno, e il paziente si pone come essere umano attivo, quindi vivo pur nella tragicità di impedimenti fisici o psichici, che riscopre il suo limite e lo sperimenta di fronte alla drammaticità dell’evento inevitabile e alla bellezza dell’incontro con gli altri.
Difficile parlare di fiducia e speranza in questo tipo di cura. Mi viene, in questo momento, affiancarle alla parola “compagnia”, all’ ”essere con”, anche se, fondamentalmente, si è sempre soli davanti alla morte.
