Etimologicamente il termine solitudine rimanda alla parola “separare” composta da “se” e “parare”.
Dunque, “divisone” e “parto”.
La solitudine, allora, rimanda alla separazione primaria del nascituro dalla madre con la perdita dello stato di “simbiosi”.
Non c’è una sola solitudine, ma più solitudini.
Più modi radicalmente diversi gli uni dagli altri, di stare da soli.
Vi è una solitudine che potremmo definire fertile, perché distanziamento dalle cose del mondo, una solitudine attivamente ricercata, in quanto capacità di stare da soli e di starci bene. Una solitudine, dunque, importante in quanto impulso al potenziale creativo ed in cui la presenza dell’altro diventa stimolo fastidioso ad una compagnia indesiderata. Ma vi è anche una solitudine subìta, derivante dalla separazione e dalla perdita, che dunque va accettata, dopo elaborazione di un lutto. Ed una solitudine in quanto “oscura malattia dell’anima”, la solitudine tipica della melanconia: la compagnia dell’altro viene evitata per rifugiarsi in sé, ma ad una distanza incolmabile da sé; la solitudine dello schizofrenico, che si costruisce la fortezza vuota dell’autismo, che non sa e non può godere della compagnia dell’altro.
La solitudine, ancora, del fobico, laddove l’oggetto origine del disagio viene evitato accuratamente e dà origine all’inevitabile scelta della solitudine, ma laddove la compagnia dell’altro, per necessità più che per scelta, funge da rassicurazione.
Che dire della solitudine dell’ossessivo? Necessaria per arrovellarsi con tormento su idee, inesauribili fonti di azioni compulsive, e per il quale l’altro non può esserci, altrimenti il rischio è che interrompa i suoi rituali ritenuti salvifici. Il borderline sceglie spesso la solitudine come cura di un possibile abbandono.
La solitudine, ancora, come la più alta dimostrazione d’amore per l’altro, laddove una relazione sarebbe impossibile o nociva. Quindi solitudine come sacrificio. Fino alla morte, quella che scelse la figura mitologica di Alcesti, che decise di sacrificare la sua vita per amore del suo futuro sposo, morte che Eracle impedì, salvandola dagli inferi per riportarla sulla terra.
Seguendo Freud, il sentimento di solitudine e di vuoto non risparmiano nessuno dei diversi quadri psicologici, pur variando nell’intensità e nelle manifestazioni, dalla dimensione dell’autismo, al panico che si associa alle fobie.
Esisterebbero, dunque, due modi di percepire la solitudine:
1) la “Hilflosigkeit” o “mancanza di aiuto”, in cui il sentimento prevalente è di essere abbandonati, si avverte dolorosamente un’assenza, una perdita; è quella che Freud chiamò mancanza di aiuto. Il modello fondamentale è quello del trauma della nascita, un sentimento che può essere avvertito in gradi diversi, accompagnandosi a stati interni che possono andare dalla disperazione allo struggimento o alla nostalgia.
2) Il deserto degli affetti, in cui il sentimento di solitudine, pur con diverse sfumature, si connota come sentimento di indifferenza, di aridità affettiva. Non soltanto ci sembra che nessuno ci ami, ma avvertiamo una profonda incapacità di amare, un vuoto interiore, una mancanza di interesse e un’impossibilità di legarci affettivamente a qualcuno.