Sulla falsità

“La psicoterapia ha luogo là dove si sovrappongono due aree di gioco, quella del paziente e quella del terapeuta; la psicoterapia ha a che fare con due persone che giocano insieme (…) quando il gioco non è possibile, allora il lavoro svolto dal terapeuta ha come fine di portare il paziente a uno stadio in cui ne è capace” Gioco e realtà, 1971.

 

L’autenticità è un bene prezioso, anche se oggigiorno non sembra quasi più un valore, perchè comporta fatica. Ma se proviamo a pensare che questa fatica rappresenta un buon investimento per la nostra salute psicofisica, ci risulterà meno pesante metterla in pratica. Chi non riesce ad essere autentico ha più problemi di salute, è più vulnerabile allo sviluppo di condizioni di disagio psicologico e di patologie organiche, e sicuramente è meno soddisfatto della propria vita. E’ più irritabile, insicuro, instabile, inaffidabile, il suo modo di essere è caratterizzato spesso da alternanze di progetti, da variazioni d’umore inattesi, da prese di posizioni incoerenti, a volte illogiche. Nei rapporti con gli altri tende a mascherare la propria insicurezza celando le proprie emozioni (il falso sé patologico), per proteggersi da condizioni ambientali che vive come sfavorevoli per sè, sviluppa atteggiamenti difensivi in modo da prendere distanza dalle proprie emozioni. Chi non riesce ad esser autentico, non sa riconoscere le proprie emozioni, non riesce a decodificarle (alexitimia) e non sa gestirle. Il falso sé patologico nasce quindi da una scarsa delimitazione dei confini dell’Io, e da un livello di maturità instabile ed infantile. Tutto questo è assolutamente fisiologico nel bambino, in cui il progresso di maturazione dell’Io parte dall’illusione di onnipotenza del narcisismo primario, verso la graduale disillusione che sopraggiunge man mano che il contatto con la realtà prende forma ed il bambino comincia a rendersi conto che non tutto il mondo gira intorno a lui. Egli, gradualmente, a partire dal seno della madre che considera un tutt’uno con la propria bocca,  impara a riconoscere se stesso diverso dal mondo e dagli altri, impara a stabilire i propri confini, impara a relazionarsi con gli altri, impara a riconoscere i propri limiti e le proprie potenzialità, ciò che può fare e ciò che invece è bene non fare (i “no” che insegnano a crescere …); impara a dare un’impronta personale alla propria vita.

Da piccoli tutto ci sembra più bello, tutti ci sembrano più bravi e più “grandi” di noi, da cui i miti, le persone che ammiriamo e di cui ci fidiamo. Man mano che si cresce il confronto con la realtà diventa più aspro, ci si accorge dei limiti degli altri e della realtà stessa e ci si accorge che occorre essere prudenti nel valutare le persone e i fatti. Tutto si ridimensiona e grazie a questo, il vero sé ha l’opportunità di esprimersi in modo autonomo: cadono i miti, nasce il Sé, espressione dell’io adulto e maturo.

L’autenticità è, in definitiva questo:  l’espressione del vero Sé, dell’io, origine della vita corporea, nei suoi aspetti fisici e psichici.

Ma sarebbe difficile sopravvivere alle richieste sociali e mantenere un buon rapporto con gli altri se fossimo sempre e solo “veri”. Il falso sé, in minima parte, continua ad albergare dentro di noi,  non ha in questi termini connotazioni negative, ma aiuta l’individuo ad esprimere se stesso modulando le relazioni in rapporto al contesto e allo stile di personalità altrui; rappresenta la giusta prudenza che occorre avere nei confronti degli altri. Il falso sé salvaguarda l’individuo dalla ingenuità, dal credere ciecamente, dal fidarsi senza giusta causa; diventa, insomma,  un fattore protettivo di salvaguardia della propria autenticità. Verità e falsità quindi non si contrappongono, ma rappresentano modi diversi di rapportarsi agli altri, espressione della propria autenticità.

Il falso sè, in senso esclusivo, di cui parla lo psicoanalista Donald Winnicott (Sviluppo affettivo e ambiente, 1965), indica, invece, una modalità patologica di sviluppo della identità che prende le mosse dai primissimi stadi dello sviluppo infantile là dove il bambino non trova nella madre rispecchiamento dei suoi bisogni e desideri, ma cresce assecondando i bisogni e desideri di lei e imparando via via a fondare il proprio senso di identità nell’ accondiscendere alle richieste altrui.

Se questo è l’unico modo che il bambino può sperimentare per assicurarsi la vicinanza e l’affetto delle figure significative è perché esse non riescono, loro malgrado, a fornire contenimento e convalida ai suoi stati emotivi.

Allora, una volta adulti, si finisce per non sapere più chi si è, incapaci di contattare desideri e bisogni autentici diventando così schiavi del giudizio sociale e dell’approvazione altrui e incapaci di accedere ad un’autentica dimensione di desiderio e di intimità relazionale.

Il film Scene da un matrimonio (1973) di Ingmar Bergman racconta le vicende della crisi matrimoniale fra Marianne e Johan prigionieri di un rapporto inautentico dal quale tuttavia non saranno capaci di uscire.

L’incapacità di amarsicosì come il non essere in grado, da parte di entrambi, di prendere altre strade e di scegliere per se stessi, renderà loro impossibile uscire dalla gabbia matrimoniale che hanno costruito attorno a loro.

Il film esprime magistralmente la fenomenologia del falso sé nel funzionamento della personalità adulta. Marianne dirà alla fine al marito:  “la mia più grande paura è che io non abbia mai amato nessuno e che nessuno mi abbia mai amato”, a testimonianza di quanto il mancato riconoscimento della propria soggettività da parte delle figure primarie possa compromettere lo sviluppo di un’identità autonoma e di un vero sé.

Un altro film che esemplifica magistralmente una personalità adulta fondata su un falso sé è Quel che resta del giorno (1993) tratto dall’omonimo romanzo di Katsuo Ishiguro il cui protagonista, Mr. Stevens, impersona l’esempio perfetto della “non-persona”: un maggiordomo che ha fatto del suo lavoro di servizio e devozione al suo padrone una vera e propria fonte di identità personale.

Il falso sé di Stevens lo pone al perpetuo e zelante servizio di Darlington Hall senza lasciar mai prevalere passioni, emozioni o opinioni proprie; questo falso sé lo renderà volutamente cieco rispetto alle frequentazioni filonaziste che il suo padrone ospita in casa, cieco al dolore della perdita del suo stesso padre e altrettanto cieco all’amore di Miss Kenton che sarà incapace di corrispondere.

Sia da bambini che da adulti, le persone che fondano massicciamente il proprio senso di identità su un falso sé possono apparire ben adattati alla realtà circostante, se non addirittura bambini prodigio.

L’acquiescenza patologica non crea problemi, non produce “sintomi” che destino preoccupazione negli altri, la persona vive con la sensazione di abitare una gabbia vuota senza saper esprimere il proprio malessere e senza che questo sia visibile agli altri. Nel falso sé descritto da Winnicott c’è addirittura una identificazione col volere altrui,  senza essere più in grado di contattare una dimensione autonoma, libera e autentica di volontà e di desiderio.

Il narcisismo e la strutturazione del falso sè legate ad un deficitario holding ricevuto dalla madre nell’infanzia possono implicare una difficoltà di alcuni pazienti a fare legame, anche con il terapeuta, laddove il narcisismo è un’ istanza psichica collegata alla formazione dell’Io e all’identità del soggetto. Se l’Io è la funzione che collega l’individuo con l’esterno, il narcisismo rappresenta l’istanza fondamentale che regola quella continua tensione del soggetto tra il desiderio-bisogno di rapportarsi con l’altro, che implica la dipendenza, ed il desiderio-bisogno di essere riconosciuto, che implica l’identità e l’autonomia.

Per Fairbairn ogni individuo, fin dalla nascita, è alla ricerca di un contatto emotivo-affettivo. Questa ” libido” si connota di una nuova proprietà: il desiderio. Ma il desiderio può non sempre essere accolto e soddisfatto: se c’è una continua indisponibilità emotiva da parte della madre, si sviluppa un Io antilibidico, frutto del rapporto con l’oggetto rifiutante.  Fairbairn propone la psicopatologia come conseguenza della scissione di un Io primario, unificato e coeso, che ha però bisogno, per mantenere questa coesione, di un oggetto gratificante e di una situazione ambientale favorevole. E’ con il concetto del vero Sé e del falso Sé,  che Winnicott amplia questa concezione. Perché il bambino cominci ad essere, a sentire che la vita è reale e degna di essere vissuta, è necessaria una holding (contenimento) che gli permetta di sperimentare un ambiente affidabile, fonte di quel senso di Sé progressivamente emergente, che si manifesta come sentimento di essere vivi, e d’integrazione . Se ciò non accade, l’individuo si mostrerà incapace di relazionarsi a livello profondo con le persone, perché il contatto con l’ambiente evocherà sempre la frustrazione ricevuta nella prima infanzia; da ciò deriverà l’investimento narcisistico ed una svalutazione della dipendenza, con conseguenti difficoltà anche nell’affidarsi al terapeuta per completare il processo di crescita e maturazione psicoaffettiva, come avevano postulato Donald Winnicott, Heinz Khout e Carl Rogers, superando l’ “empassenello sviluppo del sé e dell’identità che necessitava di un ambiente relazionale empatico, quale quello della relazione terapeutica.

 

 

 

 

 

 

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