…Ho disceso, porgendoti il braccio, milioni di scale ed ora (dato che non ci sei più) ogni gradino è un precipizio. Tuttavia, il nostro lungo viaggio insieme è stato breve. Il mio continua ancora, e non mi servon più le coincidenze, le prenotazioni in hotel, gli incidenti e le delusioni di chi è convinto che la realtà sia solo quella dei fatti concreti…Eugenio Montale
Un pò troppo superficialmente, a volte, si è portati a pensare che se capita di avere un familiare affetto da disturbi psichici e si lavora in ambito psichiatrico, sia più facile la gestione del problema. Lo psichiatra, in particolare, è visto dai più come “colui che riesce a leggere nella mente”, “ad intuire”, prima di chiunque altro, la presenza se non, addirittura, i prodromi di una malattia. E’ come se, inevitabilmente, avesse una marcia in più rispetto a chi se ne intende di meno. Avere una marcia in più è indubbiamente vero, una marcia fatta di intuito ed esperienza, di casi clinici accumulati, di letture tra le righe di un colloquio, di osservazioni di posture anche spesso apparentemente imperturbabili. Di amore, che spesso ci porta a scegliere questo lavoro. Di passione per i nostri pazienti. Ma cosa può accadere se l’amore per il malato è al confine con l’affetto che si prova per un congiunto, che sia madre, padre, fratello, compagno di vita e lo si scopre affetto da un disagio psichico? Quando giunge a ciel sereno, in una apparente condizione di equilibrio, che viene turbato da un evento imprevisto ed imprevedibile che rivela la fragilità di quello status? E’ davvero più semplice capire prima dei altri e gestire la malattia mentale se ci tocca così da vicino? No, non lo è. E per una serie di motivazioni: si riesce ad essere meno obiettivi non solo nel fare diagnosi, se si è coinvolti emotivamente, ma anche ad intuire che ci sia semplicemente “qualcosa che non va”. L’intuito, in questo caso, ma anche l’esperienza, a volte, servono a poco. Non dimentichiamo, poi, che “nemo propheta in patria (sua)”: spesso un familiare seppure esperto e preparato nel settore non viene ascoltato o, comunque, gli si dà meno credito che ad un estraneo, soprattutto in campo psichiatrico, per la maggiore soggettività della diagnosi, che si intreccia, d’altronde, con la minore obiettività da parte del “curante”. Una posizione, dunque, ed un punto di vista del tutto diversi rispetto alla ignoranza, al pregiudizio e allo stigma che spesso caratterizzano il problema della salute mentale analizzato dalla parte dei familiari coinvolti, ma non esperti, che cercano di carpire informazioni, spesso distorte od inesatte, dalle più varie fonti e molte volte per colpa nostra che non riusciamo a trovare il tempo per parlare con le famiglie. La nostra, dunque, da familiari di pazienti, dovrebbe essere una condizione privilegiata, ma non lo è. Non abbiamo ( o non dovremmo avere) ignoranza, pregiudizi, ma siamo coinvolti emotivamente e questo non giova. Abbiamo per lo più perso la paura, il senso di vergogna, la colpa, ma non riusciamo a tenere a freno le emozioni. Se una persona qualunque può non conoscere la malattia mentale in un familiare, lo psichiatra può dimenticarsene e provare la stessa rabbia, frustrazione, dolore che provano tutti. Se non abbiamo difficoltà a maneggiare i farmaci, ci è ancora difficile accettare che la malattia mentale non concede tregua, non consente una vita familiare degna di questo nome, poiché, nei casi più gravi, è molto distruttiva. Non credo sia un privilegio per una madre che scopre di avere un figlio affetto da una patologia di quelle che definiamo “maggiori”, lavorare come psichiatra: se da un lato si conosce meglio la malattia e la sua possibile evoluzione, dall’altro l’emotività non consente la giusta obiettività. Non sempre almeno. Ci riesce molto più semplice sensibilizzare l’opinione pubblica, creare gruppi di familiari, costituire una rete di servizi pubblici, organizzare una proficua presa in carico, cercare di fare prevenzione, se la malattia è lontana da noi, se non sfiora il nostro essere o se ci tocca l’anima, la nostra sensibilità, per poi allontanarsene. Quanti di noi alle prime armi, riescono a “stimbrare” e non portarsi a casa l’emotività dei pazienti o le situazioni problematiche in cui spesso vivono? Pochi, credo.
Beh, in questo caso quella emotività rimane lì, sempre, anche dopo anni di lavoro, ad agitarci l’essere, è dentro casa nostra, diventa parte di noi.
E quale è il nostro vissuto, da familiari di pazienti, nei confronti dei colleghi curanti? Le relazioni non sempre si semplificano in questi casi, se, nella maggior parte degli altri, il vissuto delle famiglie, con il vanificarsi delle aspettative, soprattutto nelle situazioni più gravi, crea relazioni viziate in partenza, e destinate a trasformarsi in seguito, in risentimento e rabbia.
L’incertezza verso il futuro rimane comunque un tema dominante, perchè, se da un lato, si conosce di più il problema e lo si teme di meno, dall’altro si pensa, come fanno tutti, ed anzi con un dispiacere maggiore, “Che ne sarà dopo di noi ?”.