Sono rimasta profondamente affascinata dallo studio della figura della Coscienza infelice di Hegel, il momento forse più alto della Fenomenologia dello Spirito, l’ultima tappa della coscienza prima che essa diventi Ragione.
L’autocoscienza naufraga tra l’assoluta verità e la caducità dell’essere umano, dell’essere che si scopre infelice.
Vivere senza essere infelici non è possibile ma questa non è la “depressione” dell’umore che presenta dei criteri psicopatologici ben precisi e che, come patologia in sé, va trattata, bensì è la presa di coscienza della limitatezza della coscienza individuale.
Hegel ci dice che non si può essere felici in eterno.
La felicità eterna è considerata fedeltà ad uno status, ad un eterno non essere veri, ad un aderire ad un modello di finzione: tutti uguali, tutti aggrappati ad una felicità fittizia ed irreale.
Per raggiungere la vera felicità bisogna passare per l’infelicità.
Nel dolore, e solo nel dolore, può esservi presa di coscienza.
Spesso il divertimento è fine a se stesso, posticcio e fittizio, non reca in sé maturazione. Non può farlo.
Il dolore è, invece, maturazione.
Le cose che hanno un valore hanno un trascorso ed è grazie ad esso che hanno assunto valore.
Il dolore serve per arrivare alla verità, ma tende continuamente all’infinito, senza mai raggiungerlo. La coscienza è l’uomo che si mortifica per arrivare all’assoluto.
La coscienza individuale non è che un passaggio per giungere alla coscienza universale, la Ragione.
A questo punto, la Ragione diventa Spirito e il suo sviluppo non è più quello della coscienza individuale, ma quello della storia dell’umanità.
Secondo Hegel 1′”esperienza della coscienza” dispiegata nella Fenomenologia dello spirito, può essere considerata “come la via del dubbio o, più propriamente, la via della disperazione”‘.
Si può raggiungere una verità nuova solo nella dolorosa rinuncia.
Nello sviluppo dell’autocoscienza è questo stesso dolore a divenire il tema dell’analisi fenomenologica hegeliana, nella famosa dialettica della signoria e della servitù e nel successivo dispiegarsi della “Libertà dell’autocoscienza”.
Il processo di questa liberazione secondo Hegel si compie attraversando le posizioni dello Stoicismo, lo Scetticismo ed un’ulteriore posizione caratterizzata, appunto, come coscienza infelice.
La coscienza infelice è anzitutto l’unità contraddittoria dei due opposti: dell’autocoscienza e della coscienza di ciò che è nullo, o dell’essenziale e dell’inessenziale, od anche dell’universale astratto e della singolarità concreta. E poichè in essa tutto questo si presenta come contraddizione, la coscienza infelice si mette sul lato dell’inessenziale. Ma unificandoli in sé, vede molto bene la loro differenza e perciò tende a liberarsi dall’inessenziale e quindi dalla contraddizione, il che significa “liberare sé da se stessa” .
In questa relazione contraddittoria, l’universale (l’essenziale) e la singolarità (l’inessenziale), si presentano sempre assieme. E proprio questo diviene una “esperienza” che l’autocoscienza scissa fa nella sua infelicità.
Secondo Hegel la liberazione di sé della coscienza infelice si compie in passi successivi che corrispondono alla mutevole esperienza fatta dalla coscienza nel dolore della sua infelicità. La coscienza infelice e disgregata si trova nella contraddizione dell’universale e della singolarità, toccandoli entrambi, anzi si potrebbe dire che essa stessa rappresenta il contatto tra i due, stabilendone l’unità. Questa unità è il suo oggetto, ma non v’è consapevolezza di questo, altrimenti sarebbe “pensiero”, ossia compirebbe un movimento atto a cogliere l’oggetto come proprio. Così non è in questo grado, e la coscienza va verso il pensare, non possedendolo ancora, non arrivando al “concetto”, non riconoscendosi come il soggetto della congiunzione di universale e singolare. Questo accade nel pensiero concettuale, che, comunque, resta un movimento caratterizzato da una “infinita nostalgia”. Quello che si afferra è sempre una singolarità, un oggetto sensibile, non l’unità dell’universale e della singolarità, ossia la realtà effettiva ed in sé differenziata.
Ma questa esperienza, seppure compiuta nel vano tentativo di afferrare la realtà, consente alla coscienza infelice di sviluppare un “implicito” sentimento di sé, che la porterà fino alla certezza più completa di se stessa.
