Dal Dolore alla Speranza: una possibile via di cura

Per definizione, quando ci capita di attraversare momenti particolarmente dolorosi, la vita ci appare opaca, come in ombra.
Ed in questo è estremamente difficile vedere la luce della Speranza.
Ma dolore e speranza sono sempre agli antipodi?
L’accento sulla dimensione soggettiva del dolore è stato posto dalla Fenomenologia, per cui non sarebbe l’organo a soffrire, ma è l’esistenza a contrarsi, come vuole Umberto Galimberti (2001) e viene ad essere alterato quell’equilibrio che fisiologicamente caratterizza il rapporto delle nostre esistenze con l’esterno.
Così il nostro ritmo vitale è cadenzato dalla presenza del dolore, che si può sopportare, ma non accettare. Diverse sono le origini ( ed il significato che rivestono per noi) del dolore.
Nel dolore fisico si ha una eccessiva stimolazione dei recettori situati sulla superficie esterna e a livello dei tessuti interni dell’organismo. La trasmissione per via nervosa ai centri corticali superiori determina la percezione del dolore, la cui soglia è variabile da individuo ad individuo, ma anche in diversi momenti e in diversi stati emotivi, nello stesso individuo.
Per Freud (1907), entro certi limiti, il dolore psichico era necessario da sperimentare per la crescita dell’Io, in quanto consentiva alla onnipotenza infantile di approdare al principio di realtà.
Il dolore morale si differenzia dal dolore psichico, perchè più propriamente esprime il vissuto della perdita, del lutto, dell’abbandono, ma anche l’autoaccusa rispetto all’abbandono stesso ed è quello stato di profonda melanconia che caratterizza lo patologia depressiva, fino alla tendenza al suicidio.
In tutto questo si fa fatica, giustamente, ad intravvedere la speranza.
Lasciando da parte le dottrine di fede, secondo le quali la speranza sarebbe nella resurrezione ed il dolore avrebbe una spiegazione nella espiazione del peccato, mi sento di associare il sentimento della speranza alla “empatia”.
Per definizione l’empatia è la capacità di sentire ciò che gli altri sentono, nel bene e nel male, avvertendo, nel caso del “male”, su di sé il dolore altrui come se fosse proprio. Ma credo che la speranza nella fine del dolore possa risiedere nell’imparare ad empatizzare con noi stessi, come se fossimo altro da noi. Sembrerebbe facile e quasi scontato che riusciamo a “comprenderci”, ad avvertire come nostre le emozioni che proviamo, ad obiettivare per noi il nostro dolore. Spesso non è così scontato, anzi, molto spesso, proprio per il coinvolgimento che abbiamo tra il Sé ed il Sé è tutto molto complicato. Spesso siamo troppo concentrati su di noi e le nostre sofferenze, spesso cerchiamo, in modo difensivo, di prendere le distanze dalla nostra sofferenza non empatizzando con essa. Ecco, l’empatia, a mio avviso potrebbe essere la giusta distanza che dovrebbe correre non solo tra noi e l’altro, per compenetrare in lui, rimanendo noi stessi, ma anche la giusta distanza tra noi ed il nostro dolore, per non esserrne travolti.
E’ difficile, ma pur sempre una speranza…

Lascia un commento