Mancanza o mancanza della mancanza?

Si è soliti pensare, riflettendo su ciò che non abbiamo e che vorremmo avere ( e questo, ovviamente, può riguardare sia la nostra vita personale, che quella dei nostri cari, parenti ed amici, ma anche quella dei nostri pazienti), al concetto della mancanza in modo univoco: mancanza è ciò che non si ha. Potremmo pensare a qualcuno che ci manca perchè momentaneamente assente, oppure perchè perduto, in modo più o meno irrimediabile, a qualcosa che ci potremmo permettere se avessimo più denaro, a qualcosa per noi prezioso, che abbiamo perso. Ma mancanza sta anche per mancanza della mancanza: se non si avesse un sintomo, ad esempio, si potrebbe stare meglio. In questo secondo caso si presuppone, allora, un eccesso di un qualcosa che se, invece, ci mancasse, ci farebbe stare meglio.

C’è poi qualcuno che apparentemente ha tutto e afferma di non sapere cosa gli manca. E’ come se, in qualche modo,  l’essere umano si identificasse con ciò che ha, o che non ha e che, comunque, gli causa disagio se non sofferenza. Sembrerebbe un paradosso, ma se ci pensiamo, anche Freud aveva parlato dell’Io paragonandolo ad una cipolla rivestita da tanti strati, ma che, spogliandosi di ognuno, porterebbe ad un nucleo centrale vuoto, ad una inconsistenza. Ad una mancanza.

L’Io è ciò che dà una consistenza al nostro essere, che permette la formazione della nostra identità, pur costruendosi su un nucleo privo di consistenza. Cosa arricchisce allora il nostro Io? La relazione con l’altro. Anche se, per inciso, è così difficile a volte relazionarci con gli altri che preferiremmo sentirne la “mancanza”. L’essere umano appena nasce non è già più da solo, c’è un mondo che lo sta aspettando, prima rappresentato dai parenti più prossimi e poi, da una rete, via via, costituentesi, di relazioni sociali.

Si trova, così, catapultato nel mondo, in una serie di significanti, un apparato simbolico costituito da aspettative, desideri, speranze provenienti dapprima dai genitori, che gli attribuiscono aggettivi e significati all’insegna del “Tu sei…Tu hai…”, subito dopo dal gruppo dei pari, nel periodo adolescenziale, fase in cui emergono le proprie aspettative, che si uniformano e rispecchiano in quelle dei coetanei, causando, spesso, una sorta di ribellione, la prima vera ribellione, ai significanti attribuiti dal mondo adulto.

Il gruppo fa coesione e presenza, non certo mancanza.

Secondo Lacan la formazione dell’Io ha un carattere “immaginario”, cioè illusorio: l’Io si fonda e si struttura grazie all’Altro. Ma questo può portare in alcune forme psicopatologiche ad avere la sensazione di aver perso la propria identità o di non averla mai acquisita.

L’esistenza di ognuno di noi, fisiologicamente, si rispecchia comunque su quella altrui. Come sapremmo di essere noi stessi se non avessimo coscienza dell’Alterità? Il passaggio di freudiana memoria dal Principio di Piacere al Principio di Realtà implica l’adattamento al mondo in cui si entra a far parte.

La tensione tra dipendenza e autonomia,  è un elemento costante nella vita umana: la nascita del soggetto è legata ad un movimento di costante alternanza tra conquista e mancanza, un più e un meno, un guadagnare ed un perdere. Man mano che si cresce, si struttura l’identità che per adattarsi alle leggi del mondo, deve perdere spontaneità, libertà ed autonomia.

Freud e Lacan sostengono che l’essenza dell’essere umano è ciò che resiste a questo movimento continuo di perdita.

Il desiderio inconscio è ciò che si oppone alla mancanza e si esprime metaforicamente come una passione, un ideale, una ricerca che dia senso alla propria vita. Rappresenta una spinta, un movimento che orienta la propria esistenza, un motore che dà vitalità al soggetto. Ben diverso dal bisogno, che si soddisfa in un oggetto, con l’urgenza di essere soddisfatto, mentre il desiderio può anche essere procrastinato ed anzi, ritardarlo ne accresce l’intensità. In questo senso, come spinta vitale, non può e non deve essere estinto, né reso silente, pena la sofferenza o la manifestazione di sintomi. L’essere umano, e questo lo vediamo sempre più ai giorni nostri anche se è un fenomeno sempre esistito,  si esalta di fronte alla conquista, ma non accetta la perdita, il limite, spesso invalicabile, anche di fronte al proprio Sé. Anzi, in qualche modo riconoscere di non potere andare oltre un limite è lo specchio della propria limitatezza interiore, di quella che Lacan definiva ” mancanza-a-essere”

Ogni perdita appare, così, un presagio di una perdita assoluta, della perdita “per eccellenza”,  quella della vita stessa.

 

Riferimenti bibliografici

S. Freud, Introduzione al narcisismo, Opere Vol VII, Bollati Boringhieri

J. Lacan, Il Seminario. Libro 1. Einaudi

J. Lacan, Il Seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi Einaudi

M. Recalcati, Ritratti del desiderio, Raffaello Cortina

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