In punta di piedi…ai confini del cuore e ad un passo dalla Felicità

Letteralmente, l’espressione “in punta di piedi”, significa camminare poggiando a terra solo le punte; ma in senso figurato significa agire con prudenza, con discrezione.
Quanti di noi riescono ad entrare in punta di piedi nella vita altrui? Quanto riusciamo a mediare dei sentimenti che deporrebbero per un interessamento a qualcuno e a qualche situazione che sta vivendo, senza, però, interferire con la sua sfera privata? Il passo potrebbe essere breve, ma quando ci si sente legati a qualcuno sembra breve anche il passo che, ai nostri occhi, potrebbe essere interpretato come disinteresse, piuttosto che come invadenza.

Raggiungere questo equilibrio potrebbe rappresentare la strada per la felicità, quando due persone che si amano riescono a creare un progetto comune, nel quale però trovino spazio anche i progetti individuali, ai quali nessuno dei due deve rinunciare.
Questa è la Felicità come “Amore” ma anche come “progetto”, non come qualcosa di autonomo, che può accadere comunque, che si verifica indipendentemente dalla nostra volontà, come un fato predeterminato, ma che va cercata, costruita, e, possibilmente, anche imparata, come ho scritto altrove. La felicità come elemento collettivo e “contagioso” tra due o più persone.
Ma Felicità è anche sentirsi in “sintonia” con la vita stessa.
E questa sintonia vitale in qualche modo mitigherebbe il concetto di caducità del sentimento. “La felicità è sempre e soltanto un istante. La felicità non è una cosa che dura. Non è un tempo, è un istante o una serie di istanti. Un punto di contatto con qualche cosa di straordinario” (in Gianni Bisiach, Inchiesta sulla felicità, Rizzoli, 1987). Ma la vita stessa si caratterizza per la sua caducità ed allora tutto diventa transitorio, da afferrare, nell’istante in cui si presenta.
Eugenio Montale ritiene che tale condizione sia raggiungibile solo per pochi attimi, in cui la persona scopre un mondo di emozioni fino ad allora quasi sconosciute.
La poesia “Felicità raggiunta” fa parte della raccolta « Ossi di seppia » del 1925: il tema dominante è l’esistenza come una specie di corsa ad ostacoli, piena di difficoltà e di incertezze, in cui l’uomo è solo e non può sperare nell’aiuto divino. Dio è indifferente alle vicende umane e addirittura nella poesia “Spesso il male di vivere ho incontrato”, la Felicità viene vista consistere nel raggiungimento della Divina Indifferenza, cioè di una condizione di assoluto distacco spirituale dal dolore.
Solo eccezionalmente gli eventi della vita possono aprire la porta ad uno spiraglio di speranza.
La Felicità è fragile, è “barlume che vacilla” e “ghiaccio teso che s’incrina”, quindi è un miraggio destinato a svanire.
“Non ti tocchi chi più t’ama”: secondo il poeta proprio chi desidera maggiormente essere felice deve rinunciare a ricercare la gioia, perchè essa svanisce presto e lascia il posto alla delusione; è importante notare inoltre che le persone normalmente tristi provano un senso di turbamento quando sperimentano la gioia, non essendo abituate a questo stato d’animo.

Per Guido Gozzano nel 1909, la Felicità assume le sembianze di una donna, la signorina Felicita, il cui aspetto è filtrato dalla dimensione malinconica del ricordo e dalla sofferenza esistenziale: “[…]  Nel mio cuore amico | scende il ricordo. E ti rivedo ancora, | e Ivrea rivedo e la cerulea Dora | e quel dolce paese che non dico”.

Il Piccolo Principe ( 1943) di Antoine de Saint-Exupéry è un “racconto filosofico” su un pilota che si schianta nel deserto ed incontra un giovane principe caduto sulla terra dal suo piccolo pianeta. Il principe insegna al pilota il senso della vita, la natura dell’amore e la bellezza di una esistenza felice.
Anche dopo molti anni il tema della Felicità rimane sempre attuale: il “Progetto felicità. Aspetti psicologici di un viaggio interiore” di Carmen Meo Fiorot e Marcello Andriola del 2010 sostiene che la felicità dipende dall’autostima e dalla fiducia in se stessi.
Ancora in “ Momenti di trascurabile felicità” (2010), Francesco Piccolo si chiede quali siano le piccole gioie che ci colgono in modo improvviso e in momenti inaspettati della vita e della giornata. Sono attimi, piccole parentesi in cui e grazie ai quali, trovare il tempo di sorridere.

Stefano Bartolini, docente di Economia Politica all’Università di Siena, in “Manifesto per la felicità. Come passare dalla società del ben-avere a quella del ben-essere” del 2010, spiega che siamo infelici perché siamo poveri di relazioni interpersonali. Occorre, dunque, riorganizzare le nostre vite.

La “Lettera a mio figlio sulla Felicità” di Sergio Bambaren (2010) è una mappa per affrontare il viaggio più importante, quello verso la felicità, in cui unici bagagli indispensabili sono l’ottimismo e il coraggio.

In “Progetto felicità. Aspetti psicologici di un viaggio interiore” di Carmen Meo Fiorot e Marcello Andriola del 2010, gli autori sostengono che la felicità dipenda da una forte autostima e fiducia in sé stessi.

Dalai Lama (Gyatso Tenzin) e Howard C. Cutler in “L’arte della felicità in un mondo in crisi” del 2013, sostengono che viviamo in un mondo inquieto, segnato da crisi profonde e non solo economiche, in cui sembrano prevalere impulsi distruttivi che portano a guerre e conflitti tra individui e nazioni. In questa situazione può ancora esistere la Felicità? Dalai Lama e lo psichiatra americano Howard C. Cutler affrontano il tema partendo dall’assunto che l’uomo è fondamentalmente buono e se coltiva le sue doti innate, potrà essere felice.

Tal Ben-Shahar ne “La felicità in tasca. L’arte di vivere bene senza essere perfetti” (2014) sostiene che una vita felice non è una vita perfetta. Una persona felice è una persona che va incontro agli insuccessi, ma che, comunque, non ha paura di fallire.
Questo, nonostante la società moderna ci imponga continuamente di essere perfetti: apparire giovani e belli, guadagnare di più, ed essere sempre all’altezza di ogni situazione. In realtà, secondo l’autore, dai fallimenti e dalle emozioni dolorose si può imparare molto.

Per l’antropologo Lévi Strauss, la Felicità è equilibrio e l’alternanza degli opposti, che ne determina anche l’amore. Il Sole e la Luna, infatti, assolvono, complementariamente, ma ognuno per suo conto, due funzioni diverse, illuminante e riscaldante.

Epicuro sostiene che non si è mai troppo giovani o troppo vecchi per la conoscenza della felicità e che a qualsiasi età è bello occuparsi del benessere dell’anima.
Secondo Aristotele ogni essere umano desidera essere felice, anche se i percorsi per raggiungere la felicità sono spesso, in contraddizione tra loro: per alcuni essa coincide con l’onore, per altri con la ricchezza, per altri con il piacere, per altri ancora con la virtù. Dunque, anche se nessun uomo agisce per essere infelice, in diversi casi qualcuno si inganna sul modo di esserlo. Anche chi si impicca, sostiene Pascal, lo fa perché ritiene che, togliendosi la vita, potrà accedere ad una condizione migliore, il nulla o una vita oltremondana. A partire dall’Illuminismo, si era diffusa nella mentalità la convinzione di un diritto alla felicità, o, meglio, un “diritto a ricevere la felicità”, che qualcuno ha il dovere di procurarci: se qualcuno non è felice è vittima di un’ingiustizia, perché vuol dire che chi aveva quel dovere non lo ha assolto. Questo atteggiamento che, in qualche modo è ancora presente nei giorni odierni, determina un aumento dell’infelicità: poiché l’uomo ritiene di avere diritto a ricevere la felicità, quando, per vari motivi, non la sperimenta, si sente vittima di un’ingiustizia e questo accresce l’insoddisfazione. Da ciò, l’aumento numerico dei suicidi, in parte dovuto al fatto che si è diventati intolleranti alle frustrazioni, piccole o grandi che siano, la crisi delle famiglie, l’aumento dei casi di patologie psichiche, soprattutto di tipo depressivo, prodotte dalla delusione nei confronti della vita; il ricorso indiscriminato, come surrogati della felicità, al sesso ed alle sostanze stupefacenti.
L’infelicità, dunque, secondo Aristotele, sarebbe determinata da una condizione di solitudine: “riteniamo che l’amico sia uno dei beni più grandi e che l’esser privo di amici e in solitudine sia cosa terribile” (Etica Eudemia, 1234b 32 – 1235a 2)
Non si può, dunque, essere felici da soli, perché l’uomo è un essere sociale, ma non basta neppure vivere con gli altri: bisogna essere in comunione con la loro vita tramite l’amore, che ci fa sperimentare su di noi le gioie e i dolori altrui. Nonostante ciò, i contemplativi che vivono da eremiti, non sono infelici, perché non sono realmente soli, ma in comunione con Dio, che Platone chiamava il Primo Amico.

Esisteva anche un nesso tra Etica e felicità: l’uomo moralmente buono, che cioè esercita le virtù, è l’uomo che giunge
alla felicità più profonda possibile in questa vita. Egli non è colui che è imprigionato in regole e divieti, ma colui che vive motivato dall’amore.
Da tutto questo si possono comprendere le ragioni dell’infelicità nella nostra epoca, connotata da stili di vita del tutto egoistici ed orientati al conseguimento della propria felicità, mentre la felicità la consegue solo chi non la cerca per se stesso, bensì chi la cerca per gli altri.
Questo “paradosso” lo troviamo lungo tutto il corso della storia della filosofia.
Autori come Bentham, Mill e Sidgwick (i capostipiti di quella corrente di filosofia morale che è l’Utilitarismo), hanno ritenuto che l’uomo agisca motivato solo dal proprio egoismo.
Bentham sosteneva che “per ogni granello di gioia che seminerai nel petto di un altro, tu troverai un raccolto nel tuo petto, mentre ogni dispiacere che tu toglierai dai pensieri e dai sentimenti di un’altra creatura sarà sostituito da meravigliosa pace e gioia nel santuario della tua anima” (Bentham Manuscripts, University College, CLXXIV, 80, cit. da A. Goldworth, Editorial Introduction, in J. Bentham, Deontology,together with a table of Springs of Action and Article on Utilitarianism, in The Collected Works of Jeremy Bentham Clarendon Press, Oxford, 1983, p. XIX).

Per Mill: “la capacità cosciente di rinunciare alla propria felicità è la via migliore per il raggiungimento di tale felicità”
( J.S. Mill, L’utilitarismo, Sugarco, Milano, 1991, p. 33).

…“non ho mai dubitato che la felicità sia […] lo scopo della vita. Ma ora
penso che quello scopo può essere ottenuto se non lo cerchiamo come scopo diretto. Sono felici (io credo) solo coloro che hanno le loro menti fissate su qualcos’altro che la propria felicità; sulla felicità degli altri, o nel miglioramento dell’umanità, persino in qualche arte o occupazione, cercati però non come mezzi, ma come un ideale scopo. Puntando così su qualcos’altro essi trovano la felicità lungo la strada”

Sidgwick parla dell’edonismo come di una forma di egoismo, consistente nel fatto che “l’impulso al piacere, se troppo predominante, viene a vanificare il suo stesso fine”… “i nostri godimenti attivi […] non possono essere conseguiti se il nostro scopo viene consapevolmente concentrato su di essi” (H. Sidgwick, I metodi dell’etica, Il Saggiatore, Milano, 1995, p. 84).

I piaceri della ricerca intellettuale, della creazione artistica, della benevolenza “sembrano richiedere, perché li si provi in misura accettabile, la preesistenza di un desiderio di fare il bene degli altri per se stesso, e non perché così facendo ne deriva il nostro”. Perciò, come principale ostacolo per il loro conseguimento Sidgwick indica l’egoismo: “quell’eccessiva concentrazione dell’attenzione sulla propria felicità personale […] rende impossibile all’individuo sentire un qualche interesse per i piaceri e dolori degli altri. La continua attenzione rivolta al proprio io che ne risulta, tende a privare tutte le gioie della loro intensità e del loro aroma, e a produrre una rapida sazietà e la noia: all’uomo egoista manca […] quella dolcezza particolarmente ricca che dipende da una sorta di complicato riverbero della simpatia che sempre si trova nei servizi forniti a coloro che amiamo e a cui siamo grati.” ( H. Sidgwick, I metodi dell’etica, cit., p. 527).
Buona parte della filosofia morale insegna proprio che la felicità è la conseguenza e l’effetto di una prassi che non è direttamente finalizzata ad essa.
Nell’età antica lo avevano compreso Aristotele e Seneca. Per quest’ultimo virtù e saggezza consentono di raggiungere la Felicità. In età medievale, Agostino, Bernardo di Chiaravalle e Tommaso d’Aquino; nell’età moderna, oltre a Bentham, Mill e Sidgwick, anche Leibniz, Shaftesbury, Hutcheson, Smith, Palmieri, Genovesi e Ferguson; nel XX secolo d.C., tra gli altri, Scheler, Weil e Frankl. Se, dunque, la Felicità è la conseguenza di una prassi che non se la pone direttamente come obiettivo, allora essa è un dono, non direttamente perseguibile. Lo aveva già intuito Aristotele, secondo cui la felicità non sarebbe una scelta, ma un dono divino.
Per Shaftesbury, la ricerca appassionata del piacere come della felicità portano alla sazietà e al disgusto, così come per Scheler, l’uomo che vive secondo i principi della filosofia edonistica, tanto più sicuramente non ottiene il piacere quanto più lo ricerca, mentre partecipare alla gioia o alla Felicità degli altri è ciò da cui dipendono i più grandi di tutti i nostri piaceri.
Si comprende, così, il nesso tra amore e Felicità: l’uomo è aperto all’infinito, omnium capax (Tommaso d’Aquino, De veritate, q. 24, a. 10), ovvero la natura umana è proiettata verso l’unione con tutto ciò che è altro da sé. Perciò, l’amore è l’espressione e la realizzazione connaturale alla natura dell’essere umano che è proiettata verso l’esterno, e che non si può realizzare attraverso rapporti intersoggettivi superficiali, ma solo attraverso l’amore autentico.
Così, la Felicità è gioia della Felicità dell’altro, come ha ribadito anche Leibniz in età moderna, spiegando che essa è delectatio in felicitate alterius, o (nel caso in cui l’altro non sia felice) gioia del cercare la felicità dell’altro ( G.W. Leibniz Codice diplomatico di diritto delle genti, in Scritti politici e di diritto naturale, UTET, Torino, 19652, p. 159).
Anche Kierkegaard sostiene che la porta della felicità si apre amando e donandosi agli altri.
Esiste, però, la “felicità perfetta”? La delusione, in realtà, è sempre in agguato e, secondo Tommaso d’Aquino, tutti i nostri obiettivi suscitano una reazione comune: quando vengono raggiunti e posseduti non li si apprezza più e si desiderano
altre cose, cioè il desiderio non viene mai appagato. Come se, in qualche modo, nel fine a cui si anelava fosse insita la frustrazione di averlo conseguito, perché, comunque, esso si rivela non definitivo. Ogni bene finito è un’anticipazione simbolica del Bene Infinito: l’uomo è perennemente insoddisfatto non perché ha conseguito questo o quel bene invece che un altro, ma per la natura finita di tutti questi beni, incapace di appagare il desiderio umano, che è un desiderio di Infinito, che solo un Bene Infinito può estinguere: solo la comunione con Dio, se esiste, può dare soddisfazione all’anelito del nostro desiderio.

Fu solo tra il tardo Settecento e l’Ottocento che si osò pensare alla Felicità come qualcosa di più che un dono divino o una ricompensa ultraterrena, meno casuale della fortuna. Per la prima volta nella storia dell’uomo, ci si trovò di fronte alla prospettiva di non dover soffrire come per un’infallibile legge dell’universo, ma di potere e di doversi aspettare la Felicità e provare piacere come un diritto dell’esistenza. Ad esempio, “Le Paradis est ou je suis”, dichiara Voltaire all’inizio del diciottesimo secolo:
“Il paradiso è dove sono io”.

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