Il rapporto tra Medicina e Filosofia nell’antichità

Tra medicina e filosofia, pur nella loro differenza disciplinare, è presente fin dall’antichità un profondo intreccio; lo dimostrano tutti i filosofi che nel corso dei secoli hanno utilizzato delle metafore mediche per esprimere le loro riflessioni filosofiche. Molti di loro furono medici ed in effetti questi due “saperi” dovrebbero essere complementari: è incompleto studiare il corpo umano e agire su di esso senza conoscere “chi è l’uomo”, Sarebbe come se la medicina si occupasse della cura del corpo, tralasciando lo spirito. Gli albori, insomma, potremmo dire, della medicina psicosomatica…
Il termine greco φιλοσοφία è composto di φιλεῖν (phileîn), “amare” e σοφία (sophía), “sapienza”, ed è, dunque, “amore per la sapienza”.
Nessuno più del medico dovrebbe possedere questa qualità?
La medicina, d’altro canto, è l’esercizio della “compassione” (dal latino cum pati, soffrire insieme) tra esseri umani.
Un uomo mosso dalla compassione (il medico) si prende in cura un altro essere umano attraversato dalla vulnerabilità prodotta dalla malattia e s’impegna a custodire la sua vita.
Il forte legame tra medicina e filosofia è presente fin dalla civiltà greca.
La“filosofia della medicina”, è lo studio delle diverse situazioni inerenti la scienza medica, ma la filosofia della medicina può essere definita come una filosofia che affronta il problema dell’uomo nel suo complesso, cioè della persona umana, affondando le sue radici nell’antropologia. Qualsiasi riflessione che tratti della medicina non può non tener conto del pensiero filosofico, di quello biomedico e delle istituzioni sanitarie.
Dare un orientamento filosofico al proprio pensiero credo che aiuti e supporti chi quotidianamente è di fronte al dolore umano e alla morte.

Nelle scuole dell’antichità era presente la visione “sacrale” del medico e in alcuni contesti, questa figura, fu divinizzata. La medicina era di tipo “teurgico” ed interpretava la malattia come un castigo divino, oppure era attribuita alle forze demoniache, che penetrando nella persona, se ne impossessavano: la medicina greca mostrò contenuti mistici e magici.
Queste concezioni sopravvissero fino all’epoca di Ippocrate che segnò il passaggio tra razionalità e magia.
Il medico di Kos, nel trattato “L’Arte”, descrivendo l’arte medica, dimostrò che questa può guarire o attenuare le sofferenze con mezzi materiali. Ippocrate è ricordato solitamente per “il Giuramento”, ma non si può trascurare nei suoi scritti l’utilizzo costante del vocabolo greco “ánthropos” (essere umano); ciò dimostra la sua consapevolezza di curare innanzitutto un essere umano.
Il rapporto medico-paziente fu fondato sul paternalismo: il dovere del medico era la ricerca del “maggior bene” del paziente; l’obbligo del malato era, a sua volta, l’accettazione incondizionata dell’indicazione medica.
Socrate (470 a.C. – 399 a. C.) fece uso del metodo dialettico della maieutica”, dal greco “maieutiké”, che si proponeva di “tirar fuori” all’allievo pensieri personali, senza imporre le proprie vedute agli altri con la retorica e l’arte della persuasione, in una specie di parto intellettuale e partendo dal principio che “è sapiente solo chi sa di non sapere”, mentre chi si illude di sapere, ignora la sua ignoranza.

Per Platone (428 a.C. – 348 a.C.) la filosofia aveva la capacità di realizzare una comunità umana fondata sulla giustizia. Convinto che Asclepio fosse il fondatore dell’arte medica come fa affermare al medico Eurissimaco nel “Simposio”, tratta di cosmologia, di filosofia della natura e di biologia nel “Timeo”.
Gli dei, secondo il filosofo, posero i legami della vita, dove anima e corpo sono collegati, nelle “radici” del midollo, dove fu posta anche “la specie mortale dell’anima”.
La specie divina e immortale fu posta invece in un’ altra parte del midollo che la mano divina “plasmò tutta rotonda” e che fu chiamata cervello ( Cfr.: PLATONE, Timeo XXXIII b, c, d).

Gli dei nel petto e nel così detto torace legarono la specie mortale dell’anima.
Non c’era, però, equivalenza, anzi, poiché una parte di essa era di natura migliore e l’alta peggiore, divisero in due la cavità del torace, separando l’abitazione delle donne da quella degli uomini, e vi posero in mezzo il diaframma.
Invece, quella parte dell’anima che partecipa del valore e dell’ ira e che è bellicosa, la collocarono più vicino alla testa, fra il diaframma e il collo (Timeo XXXI, op. cit., e, a).
“Il cuore lo stabilirono nel posto di guardia (…).
“Quanto alla parte dell’anima che appetisce i cibi e le bevande e quello che è necessario per la natura del corpo, gli dèi la collocarono nella regione intermedia fra il diaframma e il confine dell’ombelico”.
E, a guardia, “composero il fegato e lo collocarono nella sua dimora, denso e liscio e lucido e dolce e fornito d’amarezza” (Timeo XXXII, op. cit., b, b, p).
Agli umori o parti fluide (sangue, flegma, bile…) troviamo giustapposta la tripartizione anatomica: “cervello” dove ha sede, come affermato nel mito dell’anima nel “Fedro”, appunto l’anima che governa due “destrieri” che sono “il cuore” ( nobile e buono) e “il fegato” (non buono) (cfr.: PLATONE, Fedro, XXV a,b.).

Platone, nelle “Leggi”, divise i medici in due categorie: medici degli schiavi e medici dei liberi, così descritti. I primi “Curano gli schiavi andando in giro e attendendoli nei luoghi di cura… prescritto ciò che par meglio alla loro esperienza, come se ne avessero scienza perfetta, fanno come un tiranno superbo e tosto si scostano e si dirigono a un altro schiavo ammalato”.
Medici dei liberi: “… cura quasi sempre le malattie dei liberi e le studia, le tiene fin da principio sotto osservazione, come vuole la natura, dando informazioni allo stesso ammalato e agli amici, e insieme egli impara qualcosa dagli ammalati e, per quanto è possibile, ammaestra l’ammalato stesso. Non prescrive nulla prima di aver persuaso per qualche via il paziente, e allora si prova di condurlo alla perfetta guarigione, sempre preparando con il convincimento il paziente”.
Platone indica poi ai medici il dovere di auto-educare il malato.
Parlando dei medici, Platone, considerava Ippocrate, suo contemporaneo, “il medico per antonomasia”,famoso per il suo insegnamento e per alcune sue teorie.
Nell’opera “Il Gorgia”, che riporta il dialogo che il filosofo ebbe con questo sofista (Gorgia di Lentini), fa alcuni riferimenti alla medicina, trattando del concetto di retorica in Socrate che parla di quattro tèchne buone: ginnastica e medicina (che riguardano il corpo), legislazione e giustizia (che riguardano l’anima).

Aristotele (384 a. C – 322 a. C) fa riferimento alla medicina in varie opere parlando del rapporto tra questa e la filosofia come pure diede ampio spazio all’anatomia e alla fisiologia e considerò Ippocrate “un grande medico non per statura ma per talento”.
Aristotele chiarisce il suo pensiero nei “Parva Naturalia”, una delle opere meno conosciute del filosofo: trattando della salute e della malattia si chiede quali siano le scienze che se ne devono occupare e mostra un coordinamento fra i medici e i filosofi affermando che la maggior parte dei filosofi, partendo dall’esame delle realtà naturali, affrontano poi questioni di medicina, mentre i medici incominciano i loro studi dall’esame della natura e traggono da lì i principi per l’azione terapeutica.
In più sedi Aristotele utilizzò esempi medici per esplicitare i suoi concetti, come nell’ “Etica Nicomachea” in cui il filosofo tratta della coerenza: ” … i malati ascoltano con attenzione le cose che dicono i medici, ma non fanno nulla di quello che viene loro prescritto. E quindi, proprio come quelli non sono sani nel corpo, se si curano in modo simile, nemmeno questi sono sani nell’animo…”.
Aristotele, dedicò ampio spazio anche all’anatomo-fisiologia e alla zoologia, scienze fino allora inesistenti.
Nel trattato ”Sull’anima”, Aristotele, trattò il problema della vita che definisce: “la capacità di nutrirsi da sé, di crescere e di deperire”. Ogni vivente è dotato di anima, che fa la differenza tra vivente e non vivente; l’anima è “l’atto primo di un corpo naturale dotato di organi”.
Per quanto riguarda l’uomo, in particolare, egli oltre essere dotato di sensibilità e di locomozione possiede caratteristiche particolari dovute al suo intelletto definito “noûs” che gli permette determinate attività intellettive. La parte dell’anima che non dipende dalla corporeità è immortale.
L’uomo, dunque, per Aristotele è molto superiore agli animali, è quasi divino, e grazie al suo intelletto.

La medicina ippocratica, dunque, era centrata sul concetto di malattia e sul medico interamente dedicato alle esigenze del paziente, allo studio della patologia non perdendo di vista la sua umanità.
Dal III secolo a.C., soprattutto con Erofilo e Erasistrato, la medicina modificò prospettiva poiché si pose al centro di essa il problema della salute, cioè la comprensione dello stato naturale della persona.
La medicina ufficiale si avviò a Roma con l’arrivo di alcuni medici elleni venduti come schiavi. Ad alcuni medici greci fu concessa la libertà, aprendo la strada alla progressiva grecizzazione della medicina romana.
Non possiamo, infine, dimenticare il contributo del cristianesimo che introdusse valori nuovi nel campo assistenziale sia con l’insegnamento che con la prassi. La persona umana era intesa come unità di corpo, di psiche e di spirito.
Nella prassi assistenziale, il riferimento fu il Vangelo nel quale Gesù Cristo consegnò ai suoi discepoli il comando di curare gli ammalati, indicando la Sua presenza nel sofferente.

Marco Tullio Cicerone (104 a. C- 46 a. C) espresse stima e rispetto per il medico,
Seneca (4 a.C. – 65 d. C.) fa un ritratto del medico ideale: “…il vero medico si è preoccupato di me più del dovuto; è stato in ansia non per la sua reputazione ma per me; non si è limitato a indicarmi i rimedi ma li ha applicati con le sue stesse mani; è stato fra quelli che ansiosamente mi assistevano: di conseguenza io sono in obbligo ad un uomo simile non come medico ma come amico” ( De beneficiis, VI, 16,2. ). Seneca possedeva una visione monistica dell’uomo, in forza della quale anima e corpo sono due entità intercomunicanti in quanto consustanziali e attraversate da un unico “spiritus coibente”.
Nell’ “Epistulae morales a Lucilium”, che scrive quasi al termine della sua vita si esprime prendendo come esempio la medicina; “Senza la filosofia l’animo è malato, se anche il corpo è in forze. Curiamo prima la salute dell’anima, poi del corpo. E’ da stolti esercitare i muscoli come pazzi; se è troppo il peso del corpo l’anima diviene meno attiva. La troppa fatica negli esercizi fisici esaurisce lo spirito e l’abbondanza di cibo ostacola l’acutezza d’ingegno. Ma ci sono esercizi facili da fare come corsa, salto, sollevamento; ma qualsiasi cosa tu faccia torna subito all’anima ed esercitala notte e giorno”.

Galeno (129-199) fin da giovane,ebbe una precoce preparazione in filosofia che inseguito intersecò con quella medica. Egli sosteneva che non si può essere un buon medico se non si conoscono logica, fisica ed etica, cioè l’insieme dell’autentica filosofia. “… chi è un vero medico è sempre anche filosofo. Sul fatto che ai medici abbisogni la filosofia per adoperar bene l’arte non credo abbia bisogno di dimostrazione…”( I. GAROFANO – M. VEGETTI, Galeno, Opere scelte, Utet, Torino 1978, pg. 76). L’ampiezza dell’opera di Galeno, che si presentò come il restauratore della dignità del medico, rifondò la medicina e rimase punto di riferimento per più di mille anni.

Plotino (203-270) si riferisce alla medicina nel testo “Enneadi”, pubblicate dal suo allievo e biografo Porfirio.
“Quando poi pretendono di liberarsi dalle malattie, avrebbero ragione, se lo volessero fare mediante la temperanza e un regime regolare di vita, come fanno i filosofi; (…), … il genere di filosofia, da noi perseguito, fra gli altri beni raccomanda la semplicità dei costumi e la purezza dei pensieri, ricerca l’austerità non l’arroganza, ci ispira una confidenza accompagnata da ragione e da molta sicurezza, da prudenza e da massima circospezione”.

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