Dà voce alla sofferenza. Il dolore che non parla imprigiona il cuore agitato e lo fa schiantare.
Shakespeare, Macbeth, atto IV
Queste riflessioni scaturiscono così, di getto, facendo uso dei miei sentimenti, anzitutto, delle mie reminiscenze scolastiche e di qualche breve ricerca, a seguito di importanti problemi di salute che hanno afflitto una persona a me molto cara e che per questo si è trovata a confrontarsi con una non improbabile fine della sua vita.
L’approccio che abbiamo alla vita, mi chiedo, può condizionare il modo in cui un giorno affronteremo la morte?
Le modalità di “graffiare” la vita possono essere le più diverse: c’è chi tende a vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo, c’è chi, convinto della transitorietà terrena, affida le sue speranze alla immortalità dell’anima; c’è chi, ancora, il problema non se lo pone, avendo quasi la convinzione di essere onnipotente ed immortale.
In tutti i casi la morte fa paura. O meglio, quella che spaventa è la sofferenza che di solito precede la morte. Siamo nati per la gioia, non per il dolore, con buona pace di chi crede nelle varie forme di “espiazione” dei peccati.
Ma per esorcizzare la paura, abbiamo bisogno, in qualche modo, di raffigurarcela, di rappresentarla, come se questo potesse aiutarci a conoscerla. L’ignoto fa sempre più paura rispetto a ciò che non conosciamo.
Ma anche qui non è semplice: la morte nella maggior parte delle raffigurazioni ha il volto coperto o semiscoperto, stando a significare che sono i più diversi i modi in cui può sorprenderci.
La morte personificata, infatti, è una figura esistente fin dall’antichità sia nella mitologia che nella cultura popolare, con una vaga forma umana ( non sembrerebbe femminile, ma con un nome declinato al femminile), o come personaggio fittizio.
La raffigurazione più diffusa nell’immaginario collettivo è quella di uno scheletro che ha con sé un’arma, una falce, vestito con un saio nero, una tunica o un mantello munito di cappuccio.
Nella Bibbia il quarto cavaliere dell’Apocalisse è rappresentato con l’inferno, che egli precede.
Nell’Antico Testamento l’ “Angelo del Signore” fa strage nell’accampamento Assiro, nel libro dell’Esodo il Signore “percuote” ogni primogenito d’Egitto ma non fa passare lo “sterminatore” nelle case in cui c’è un segno di sangue sulla porta.
L’Angelo Sterminatore riesce a causare una pestilenza in Israele.
Giobbe usa il termine “distruttore” e Azrael è riconosciuto come Angelo della Morte.
La figura della morte è nota a molti con il nome di Tristo Mietitore e Cupo Mietitore.
Nella mitologia greca, Thanatos (Θανατος) è la personificazione della morte.
Secondo Esiodo si tratterebbe del figlio di Nyx (Νυξ) (la Notte), che l’aveva concepito per partenogenesi, e fratello gemello di Hypnos (il Sonno), come già narrato da Omero nell’Iliade.
Nemico implacabile del genere umano, fu sconfitto da Eracle che lo sconfisse sino ad ottenere la restituzione di Alcesti.
Ateniesi e Spartani rendevano onori alla morte, ma non è noto il culto.
Thanatos aveva un cuore di ferro e delle viscere di bronzo.
I greci lo rappresentavano come un giovane o un vecchio barbuto con le ali.
Thanatos e sua madre Nyx (la Notte) sono accomunati dalle ali e dalla Torcia girata, simbolo della vita che si estingue.
Nelle antiche sculture viene rappresentato anche con un viso dimagrito, gli occhi chiusi, coperto da un velo, e mentre tiene una falce in mano: la vita è raccolta come il grano. Ancora, con la farfalla in mano (ψυχή [psiche], che oltre a farfalla, può significare anche anima, vita) oppure con un fiore di papavero come sonnifero, simbolo condiviso col fratello Hypnos.
I Romani chiamavano la morte Mors, raffigurandolo come un Genio alato.
Nell’Induismo Yama è la divinità preposta al controllo e al trapasso delle anime da un mondo all’altro. È figlio di Surya (dio del Sole) e di Saranyu, viene chiamato anche Dharma (Giustizia, poiché ha il compito di giudicare le destinazioni delle anime) e Kala (Tempo, poiché decreta il momento della morte).
La sua tradizionale iconografia, stavolta, è quella di un uomo che cavalca un bufalo nero, vestito di rosso con gli occhi di fuoco.
Nel Buddhismo è rappresentato come un essere dalla pelle di colore nero-blu, vestito di pelli animali e adorno di teschi e ossa.
Nella rappresentazione iconografica del Saṃsāra Yama stringe a sé la ruota dell’esistenza.
Nel buddhismo Vajrayana la morte viene considerata uno degli otto dharmapada, un difensore del Dharma.
Nel buddhismo Vajrayana esiste anche Yamantaka, il Distruttore della morte, che assume su di sé le sembianze di Yama, a significare il superamento di ogni dualità.
Nell’Ebraismo, secondo il Midrash, l’angelo della Morte fu creato da Dio nel primo giorno, rappresentato come un essere ricoperto da occhi che tiene in mano una spada da cui gocciola fiele. Quando un uomo sta per morire, l’Angelo fa cadere una goccia di fiele in bocca all’uomo e questo ne causa la morte. L’espressione “avere il gusto della morte” sarebbe proprio derivata dalla credenza che la morte fosse causata da una goccia di fiele. Dopo la morte dell’uomo l’anima esce dalla bocca (o dalla gola).
L’Angelo sta sulla testa del morente per impedire all’anima di fuggire.
Nella tradizione ebraica, l’angelo è rappresentato come un macellaio che uccide tramite la sua goccia di fiele, usando la sua spada (o un coltello) o con un laccio (che simboleggia la morte per soffocamento).
Nel Nuovo Testamento la morte è citata solo qualche volta e affrontata con un atteggiamento notevolmente positivo: Cristo risorge dai morti,
La morte, quindi, mantiene la sua accezione negativa ma viene vinta e non di vincitrice, come se fosse un “periodo transitorio”, un lungo sonno, da cui è dato potersi risvegliare.
Nella mitologia giapponese la morte è impersonata da Enma, che comanda lo Yomi (gli Inferi), il che lo rende simile ad Ade, e decide se i morti devono andare in paradiso o all’inferno, ma non è così facile giungere al suo cospetto, infatti per accedere alla vita ultraterrena, bisogna superare molte prove.
Le antiche tribù slave vedevano la morte come una bellissima donna vestita di bianco che teneva in mano un ramoscello di sempreverde. Il tocco di questo ramoscello avrebbe significato la morte immediata di una persona, iconografia sopravvissuta fino al Medio Evo.
I lituani chiamarono la morte Giltinè dalla parola “gilti” (pungere), rappresentata come una vecchia donna vestita di blu con una lingua velenosa e mortale, che prima era una bellissima giovane trasformata in un essere mostruoso dopo essere stata chiusa in una bara per sette anni.
Fino ad arrivare alla cultura di massa, e tra i vari esempi mi sembra simpatico ( per alleggerire anche il peso notevole dell’argomento), la serie animata statunitense “Le tenebrose avventure di Billy e Mandy”, in cui la morte ha il nome di Tenebra e assume un atteggiamento socievole, buono e cordiale, malgrado il suo spaventoso aspetto. Tenebra, infatti, tende spesso ad aiutare il prossimo, anziché sopprimerlo.
Ma quante volte abbiamo sentito dire ( o abbiamo pensato) che la morte potrebbe essere una liberazione dal dolore?
Riferimenti bibliografici
Wikipedia, L’enciclopedia libera
Leone G, Le chiome di Thanatos, Editore Liguori, Napoli 2011
Ariès P, Storia della morte in Occidente: dal medioevo ai giorni nostri, Milano, BUR 2006