Aristotele, in sintonia con le tesi del maestro Platone, riconosce che il bene è “ciò a cui tutto tende”. L’agire umano ha come fine ultimo il raggiungimento del bene “sommo”.
Nel primo libro dell’Etica Nicomachea Aristotele critica, sottolineando il primato della verità rispetto all’amicizia, la posizione di Platone secondo la quale esisterebbe il “bene in sé”, un qualcosa di estrinseco all’uomo, dotato di propria consistenza ontologica, del quale è possibile avere conoscenza certa, sicura e definitiva.
Questa è una posizione ritenuta inaccettabile: il bene, similmente all’essere, è predicabile in modi tanto differenti da non poter essere sintetizzato in un unico ente stabile. Se ad esempio consideriamo un uomo che fa il mestiere del carpentiere, risulta assai difficile pensare come esso potrà trarre giovamento dalla contemplazione dell’Idea del bene, mentre sarà per lui più proficuo operare secondo il “bene costruire le case”.
Aristotele esamina quale sia la scienza in grado di raggiungere la conoscenza del bene giungendo alla conclusione che essa sia la Politica, la scienza architettonica per eccellenza.
Per architettonica si intende la scienza a cui tutte le altre, anche le più ricercate come la strategia o la retorica, sono subordinate. Inoltre tale scienza concorda con quanto detto: l’oggetto della Politica non è un qualcosa di astratto ed immutabile, come è ad esempio per la Matematica; al contrario è di natura fluttuante, per questo non bisogna operare con una precisione assoluta: si può abbandonare la logica in favore della retorica.
Definita la scienza che può condurre al bene assoluto rimane da analizzare in cosa quest’ultimo consista. Aristotele nota come per la maggior parte degli uomini il bene sommo sia la felicità. Ma in cosa consiste la felicità? Vengono analizzate e criticate alcune diffuse posizioni a riguardo: l’identificazione del bene con il piacere, Edonismo, propria del popolo rozzo che conduce alla schiavitù del corpo; l’identificazione del bene con l’onore – tipico degli uomini politici, è superficiale ed inoltre rende dipendenti dall’essere onorato mentre il vero bene deve poter essere trovato nella propria singolarità; l’identificazione del bene con la ricchezza (in greco ta crhmata) – è una grossolana confusione tra strumento e fine: la ricchezza può essere un mezzo che favorisce il raggiungimento del bene ma di per sé stessa non può essere un fine.
Come si è detto il bene – e per estensione la felicità – è assai relativo al soggetto al quale si predica: bisogna perciò isolare una caratteristica unica dell’uomo, non posseduta dagli altri essere popolanti la terra, e comune ad ogni uomo. Questa è palesemente riconoscibile nella razionalità: la felicità sta nell’esercizio della parte razionale dell’anima. Dunque pensiero e piacere non sono incompatibili, non è corretto ipotizzare che pensare troppo riduca il piacere, anzi vanno di pari passo ed il pensiero incrementa la felicità.
Secondo Aristotele quando un uomo si può ritenere felice? Il termine greco corrispondente a felicità, eudaimonia, letteralmente “avere un demone buono”è più chiaramente espresso in italiano come “vita buona”.
Se essere felici significa avere condotto “una vita buona” risulta evidente che non si può dare un giudizio definitivo sulla felicità di una persona fino a che essa non giunge a morte, ovvero fino a che la sua vita non è compiuta. Nel corso della vita ci potranno poi essere momenti relativamente buoni-favorevoli e momenti relativamente cattivi-sfavorevole, solo chi saprà conservare intatta la disposizione d’animo detta magnanimità (in greco megalopsucia) di fronte alle mutevoli situazioni del vivere si potrà dire felice. Alcuni obiettano che anche dopo la morte la persona può, in virtù o per colpa dei suoi discendenti, essere felice o infelice; secondo Aristotele questo è vero solamente in parte: sicuramente una piccola parte di felicità o infelicità tocca il defunto ma non è abbastanza significativa da rendere felice l’infelice o infelice il felice.
La felicità non può e non deve essere lodata. La lode è un compiacimento di fronte al raggiungimento di un bene relativo: una vittoria sportiva, un successo politico, una intuizione scientifica.
Viceversa, la felicità è qualcosa di assoluto, principio e fine di ogni nostra azione; come tale, similmente agli dèi, deve essere fatta oggetto di onore.
