In tutte le epoche appare importante la ricerca del bene, in diverse declinazioni.
Nell’epoca antica la filosofia morale nasce quando la meraviglia dinanzi allo spettacolo della physis si trasforma nella meraviglia intorno alla profondità dell’ uomo: la natura umana diviene oggetto diretto dell’ investigazione filosofica.
Socrate può essere considerato il padre della filosofia morale: bisogna esercitare un radicale atteggiamento critico anche e soprattutto nei confronti di se stessi, fino a riconoscere di non sapere, mentre l’ ignoranza più riprovevole , che rende schiavi, consiste nell’ essere convinti di sapere quello che invece non si sa.
La pars construens che nasce da qui si riassume nella conoscenza e nella cura di sé, che ridisegnano la gerarchia dei beni della vita, in cui l’ ideale morale assume autentiche tonalità religiose. La sapienza umana, infatti, è essenzialmente elevazione dell’ anima, la quale è una voce interiore che rimanda a sua volta a una voce divina. L’ equazione tra verità e bene comporta l’ unificazione di male e ignoranza; a costo di dover ammettere la superiorità di chi sbaglia volontariamente rispetto a chi lo fa in modo involontario. La morale socratica non va intesa nel senso di una conoscenza nozionistica di principi astratti , ma come capacità di riassumere nel percorso di elevazione della mente l’ intera vita pratica. L’ uomo buono non può subire alcun male.
L’ eredità socratica è raccolta soprattutto da Platone (428/27-347 a. C.).
Per conoscere veramente se stessi bisogna cercare altrove. Il punto di arrivo di Socrate si trasforma nel punto di partenza di Platone: l’ essenza è oltre l’ esperienza. Il bene costituisce il telos supremo di un mondo di Forme ideali, verso le quali la parte più alta di noi si sente attratta per una singolare “parentela metafisica”. La vita morale è posta sotto il segno di un amore della sapienza che è essenzialmente armonia dell’ anima, giusto ordine delle virtù. Da Parmenide Platone aveva appreso che il nome del tutto è l’ Immobile. Nell’ essere di Parmenide Platone trova la risposta ontologica al problema di Socrate. Nasce da qui l’ individuazione di un mondo di forme ideali, o “Idee”, dominio dell’ essere, che trascendono il mondo sensibile, dominio del divenire, e nello stesso tempo lo fondano e lo identificano: l’ uomo socratico , che cerca di conoscere se stesso e di innalzarsi alla conoscenza del bene, trova finalmente la cornice metafisica entro la quale l’ aspirazione alla pienezza trova la sua giustificazione. Lo statuto dell’ uomo in cammino tra due mondi assegna alla vita morale il compito di mediare questo dislivello. Oltre la molteplicità delle cose sensibili, si profila una molteplicità di essenze soprasensibili, incorporee, autosussistenti. Tali essenze non sono il risultato di una proiezione mentale , ma le forme più proprie e originarie dell’ essere, che nella loro semplicità intellegibile conferiscono unità a tutte le cose che ne partecipano. In questa prospettiva l’ esperienza non è fonte, ma occasione di conoscenza, che può essere intesa come esplicitazione di un patrimonio interiore preesistente: conoscere è anamnesi, è ricordare. Due sono le forme di conoscenza. L’ opinione (doxa) riguarda la sfera sensibile , a sua volta articolata in immaginazione e credenza; la scienza (episteme) riguarda la sfera soprasensibile, suddivisa in conoscenza intermedia relativa agli enti matematici e intellezione, in cui s’ attiva un processo di trascendimento fino alla contemplazione dei principi. Il filosofo, in quanto “dialettico”, s’ innalza alle Idee con un procedimento discorsivo e intuitivo, e , attraverso di esse, fino alla suprema idea del Bene. Un cosmo di Idee, ordinate gerarchicamente attorno all’ Idea suprema del Bene , è la forma metafisica dell’ armonia alla quale deve corrispondere la forma dell’ armonia morale nella vita umana. L’ idea del bene è fondamento ultimo e principio d’ intelligibilità di tutte le Idee , e quindi, attraverso di loro, di tutte le cose. Il baricentro della vita morale è posto nell’ anima, che è simile a ciò che è divino , immortale, uniforme, sempre identico a se medesimo; questa vocazione metafisica ne fa un bene in sé e una condizione necessaria per il conseguimento di tutti gli altri beni. Però accanto ad una parte razionale, volta alla conoscenza, sono presenti una parte concupiscibile o appetitiva, in cui il desiderio insaziabile dei piaceri spinge e trascina , e una parte irascibile o coraggiosa, capace di contrastare tali impulsi e portata per natura ad aiutare la ragione, a meno che non sia stata corrotta da cattiva educazione. Mentre le anime divine sono interamente buone, le anime degli uomini hanno una “natura mista”. Secondo questa struttura tripartita dell’ anima: la sapienza corrisponde alla facoltà razionale , cui spetta di comandare e decidere; la fortezza alla facoltà irascibile che deve obbedirle, combattendo al suo fianco; la temperanza alla facoltà che deve essere tenuta a freno; infine la giustizia riguarda la capacità di equilibrare le tre parti dell’ anima, consentendo un pieno autodominio dell’ individuo. Il corretto sviluppo di una comunità politica consiste nell’ assecondare tale tripartizione, se non si vuole che la vita pubblica degeneri in uno stato divorato dalla ricerca del lusso e dalla conflittualità. Occorre quindi una cesura netta tra tre classi di cittadini: la prima comprende artigiani, contadini e mercanti, ai quali è concesso un possesso moderato di beni e ricchezze; la seconda è quella dei custodi, la cui fedeltà allo stato dovrà manifestarsi nella difesa dai nemici e nella protezione della pubblica moralità; i filosofi, chiamati a comandare.
Uno stato ideale così costituito deve essere fondato su quattro virtù: giustizia, sapienza, fortezza, temperanza. Per quanto riguarda l’ amore, nonostante tanti luoghi comuni, quello platonico attesta il valore di una tensione desiderante che coinvolge e riscatta tutti gli strati dell’ umano , dai più bassi a quelli più alti.
Platone incarna l’ esigenza di “alzare lo sguardo” rispetto al naturalismo dei filosofi presocratici; Aristotele vuole tornare a indagare il mondo della natura , e quindi la vita morale. Quest’ ultimo segue una via che parte dal mondo dell’ esperienza , al cui interno ricerca la sintesi fra particolare e universale, fra molteplice e uno, che Platone aveva sdoppiato. L’ anima, in quanto atto primo di un corpo naturale che ha la vita in potenza, non è un’ entità separata dal corpo , come pensava Platone, ma è la forma stessa del corpo, e quindi il principio che fa del vivente un’ unica sostanza. Mentre il corpo, in quanto materia, ha la potenzialità del vivere, l’ anima , in quanto forma, rappresenta il compimento della vita. Rispetto a Platone , che concepisce il bene come qualcosa di universale, unico, Aristotele si orienta verso una concezione composita del bene, e quindi della felicità, che si può considerare bene perfetto, in quanto scelto sempre per se stesso e mai in vista di altro. Nella Metafisica, dopo aver definito la filosofia <>, distingue tra filosofia teoretica, che ha come fine la verità, e filosofia pratica, che ha come fine l’ azione. Anche la filosofia pratica ricerca la verità , cioè indaga la natura e la causa delle cose, ma lo fa in rapporto a un’ azione determinata. L’ oggetto della filosofia pratica è dato quindi dalla prassi, che realizza il proprio fine nell’ atto stesso. Per Aristotele vive bene colui che mette in pratica tutti gli scopi particolari unificandoli in modo armonico e coerente. Il bene prende forma come una finalità immanente alla prassi , su cui la filosofia pratica esercita un vaglio critico: tutti desiderano essere felici, ma non tutti vogliono esserlo allo stesso modo. Chi è malato può identificare la felicità con la salute, chi è povero con la ricchezza. Inoltre accanto all’ anima tradizionale si dà anche un’ anima priva di ragione, nella quale a sua volta è possibile distinguere una funzione puramente vegetativa , che non ha nulla a che fare con la virtù umana, e una funzione desiderativa, che è il motore prossimo dell’ azione umana e può partecipare della ragione; l’ intelletto pratico può riportare questa funzione sotto il proprio controllo, trasformando il semplice appetito in una sorta di desiderio razionale che Aristotele chiama volontà. La virtù è una disposizione abituale all’ agire razionale, stabilizzata mediante l’ educazione e l’ esercizio, capace di orientare in modo costante verso fini buoni. Il coronamento virtuoso, che rende felice una vita buona, chiama in causa due tipi diversi di virtù, etiche e dianoetiche.
Le prime corrispondono alla parte irrazionale dell’ anima, che forma il carattere (ethos) e sono il risultato di un esercizio che diventa abitudine. Le disposizioni sono stati abituali in base ai quali ci rapportiamo alle passioni, in modo scorretto (oscillando tra l’ eccesso e il difetto) o corretto (secondo il giusto mezzo). Le virtù etiche consistono nella disposizione a scegliere il giusto mezzo tra vizi opposti: ad esempio il coraggio rispetto alla viltà e alla temerarietà. Tra le virtù etiche, massimamente perfetta è la giustizia, che persegue un’ equidistanza fra il troppo e il poco. Le virtù dianoetiche corrispondono alla parte razionale dell’ anima; il libro VI dell’ Etica Nicomachea ne elenca cinque, suddivise in due gruppi: appartengono alla ragione “scientifica” o teoretica , che ha come oggetto l’ essere eterno o necessario, l’ intelligenza, la scienza, la sapienza; appartengono alla ragione pratica , che ha come oggetto ciò che è contingente e quindi dipende dall’ uomo, l’ arte e la saggezza. Tali virtù sono fondamentalmente riconducibili a due: la sapienza, che consiste nel conoscere ciò che deriva dai principi e nel trovarsi nel vero rispetto ad essi, identificandosi con la filosofia; la saggezza consiste invece nella capacità di valutare correttamente ciò che è bene e ciò che è male, e quindi di deliberare bene attraverso il calcolo dei mezzi necessari. Le etiche di Platone e Aristotele concordano sull’ idea di un baricentro unificante che ha la funzione teleologica di polo di attrazione dell’ essere umano , rispetto al quale teoria e prassi, sapienza e virtù appaiono come alleati irrinunciabili per il conseguimento di una vita buona e felice. Eppure , al di là di questo, le loro strade divergono in maniera rilevante: nell’ approccio ai problemi morali, nel metodo individuato per affrontarli. Aristotele, in particolare, misurandosi con la dimensione plurale e pratica del bene , s’ interroga sulla possibilità di ricercare una tensione teleologica unificante a partire dalla dinamica stessa della vita morale. In ogni caso, la stagione d’ oro del pensiero greco si chiude con questa sorta di straordinaria gigantomachia fra Platone e Aristotele, che lascia in eredità due paradigmi fondamentali dell’ etica ai quali il pensiero occidentale sarà continuamente rinviato.
Con l’ impero di Alessandro Magno , che si espande verso il mondo asiatico e africano, il baricentro della civiltà si sposta progressivamente verso i popoli “barbari”. Il mondo ellenico tramonta e nasce il mondo ellenistico.
Epicuro (341-270 a. C.) apre ad Atene la prima scuola filosofica ellenistica. Come Democrito , egli professa una forma di atomismo materialistico , che sconfessa qualsiasi finalismo: anche l’ anima umana è un aggregato di atomi più sottili. La fisica epicurea non autorizza però un determinismo assoluto. Epicuro continua ad attribuire alla filosofia il compito di procurare una vita felice; tuttavia, in un universo che non riflette più un ordine metafisico , cambia profondamente l’ approccio etico che acquista un ‘originale fisionomia edonistica: la vita deve essere liberata da paure ingiustificate e restituita alla naturalità dei bisogni più elementari. Epicuro propone un “quadruplice farmaco”: l’ uomo deve affrancarsi anzitutto il timore degli dèi; in secondo luogo non deve temere la morte poiché non essa non vi è un rapporto diretto. Le altre due “medicine” riguardano il piacere e il dolore : in presenza del piacere non c’è dolore né sofferenza ; la sofferenza fisica non è eterna. L’ ideale della felicità ha quindi una connotazione per lo più negativa: ciò che conta è soprattutto l’ assenza di turbamento nell’ anima (atarassia) e di dolore nel corpo (aponia). Se il piacere è il principio e il fine di una vita felice, la saggezza è indispensabile per selezionare i piaceri naturali e necessari, e astenersi da quelli superflui e dannosi. In un ideale di vita ispirato a libertà e autocontrollo, l’ amicizia diventa un bene sociale prezioso e la politica una minaccia. Il vero bene è la vita e la vicinanza alla vita diventa il paradigma normativo del pensiero. Con lo stoicismo, al meccanicismo degli epicurei subentra una forma di razionalità immanente che l’ uomo deve riconoscere come destino ineluttabile. Ancora una volta, al primo posto è il raggiungimento della felicità e il logos è a fondamento dell’ etica: eppure il risultato complessivo è del tutto nuovo. Vivere secondo ragione significa vivere secondo natura e la virtù consiste nella capacità di conformare la propria vita alla legge che governa il tutto. La vita morale si configura secondo un ideale di completa autosufficienza , in cui si debbono neutralizzare le turbolenze passionali, rifugiandosi in una “cittadella dell’ anima” chiusa nella sua impassibilità (apatia) rispetto agli assalti delle passioni, fonte ultima di infelicità. La saggezza, dunque, basta a se stessa ed è perfettamente in grado di estromettere ogni pulsione irrazionale dal proprio orizzonte , a costo di sterilizzare l’ intera scala dei sentimenti , in nome della libertà dalle passioni, fino al punto di ammettere il suicidio quando la roccaforte virtuosa comincia a vacillare dinanzi ad attacchi esterni. Alla fine dell’ era pagana , l’ opera di Platone è ancora oggetto di studio, alimentando una tradizione di pensiero i cui esponenti sono riconducibili a due distinte stagioni: il medioplatonismo dominato dalla figura di Antioco di Ascalona; il neoplatonismo che raggiunge vertici di grande originalità grazie all’ opera di Plotino, secondo cui tutto ciò che è sussiste e risulta intellegibile solo in virtù dell’ unità. L’ Uno , o Bene, è causa e fondamento di se stesso; in quanto assoluta trascendenza e illimitata potenza, possiamo parlarne solo in termini negativi: conferisce a tutto esistenza e visibilità, ma non può essere contemplato direttamente. Nonostante la paura corporea, non siamo separati dal Bene, dal quale continuiamo a dipendere; nella misura in cui incliniamo al Bene , si può dire che esistiamo in grado maggiore o minore.
Il pensiero cristiano non solo valorizza nuove virtù rispetto a quelle classiche, ma conferisce alla vita morale uno statuto nel quale né Aristotele né gli Stoici avrebbero potuto riconoscersi: le virtù non sono più quelle disposizioni che dobbiamo coltivare per far fiorire la vita umana, ma diventano momenti di un itinerario che conduce al di là di esse; di conseguenza, vengono articolate secondo vari piani gerarchici a seconda delle tappe di tale percorso , il cui fine è condurre alla somiglianza con Dio.
Nella complessa stagione del pensiero patristico un ruolo cruciale assume la figura di Agostino d’ Ippona (354-430) che, in nome di un dialogo tra fede e ricerca, elabora una sintesi fra le fonti cristiane e la filosofia dei “platonici”.
Dio ha donato all’ uomo la facoltà della ragione, che lo rende superiore a tutti gli esseri viventi: non potremmo neppure credere, se non avessimo un’ anima razionale. La fede quindi non è ostacolo nei confronti dell’ esercizio di questa facoltà , ma apre la ricerca e interpella l’ intelligenza. L’ atto di fede è il primo passo per poter comprendere veramente. L’ incarnazione di Cristo occupa un posto centrale nella riflessione di Agostino: egli vede nella seconda persona della Trinità il perfetto mediatore e redentore di tutti gli uomini. In quanto vero Dio e vero uomo , Cristo diventa il paradigma di un incontro possibile fra scienza e sapienza: alla scienza compete <>, mentre la sapienza possiede <>. Agostino vede la possibilità di riconoscere Dio come la causa dell’ esistenza , il principio dell’ intelligenza , la norma della vita. Ogni natura creata porta in sé le tracce del creatore, ma solo quanti sono capaci di ascoltare la voce interiore possono decifrarle. Agostino trasmette al pensiero occidentale soprattutto la “via dell’ interiorità”, che non rappresenta un allontanamento dalla trascendenza, ma custodisce la possibilità di un doppio riconoscimento di sé e dell’ Altro. Al fondo dell’ io è possibile scoprire un punto di tangenza tra finito ed infinito in cui Dio s’ annuncia. L’ uomo intero risulta dalla congiunzione di anima e corpo. Esiste tuttavia un ordine gerarchico tra corpo, anima e Dio; l’ anima, la cui natura è incorporea e indivisibile, è irriducibile ad ogni realtà materiale e non ha natura divina. A differenza dei corpi materiali, che mutano nello spazio e nel tempo, e di Dio, che non muta né nel tempo né nello spazio, l’ anima è mutevole solo nel tempo. Come si legge nel De natura boni , ogni realtà creata che ha ricevuto l’ essere da Dio secondo la propria misura è buona, poiché ogni bene esiste solo a partire dal sommo bene, dunque tutto è bene nell’ ordine dell’ essere. Nemmeno la natura del diavolo è in sé male. La causa del male, più che efficiente, è “deficiente”, poiché il male non è una sostanza, ma un uso cattivo del bene.
La figura etica della colpa si trasforma nella figura religiosa del peccato.
All’ opposto l’ amore è la forma più alta del mistero trinitario e identifica la vocazione più profonda dell’ essere umano. È un appetito orientato verso un oggetto che Agostino intende anche come una forza di gravità capace di elevare ed orientare il desiderio. Uno dei tratti più significativi dell’ etica agostiniana si riassume nell’ idea di un ordine dell’ amore, che contiene in sé ogni altra virtù: la virtù è infatti essenzialmente una forma d’ amore ordinato. Le virtù si possono considerare “beni grandi” e i corpi sensibili “beni minimi”, mentre le facoltà spirituali , come la volontà, “beni medi”, in quanto possono essere usati in modo ambivalente. L’ amore umano può essere più o meno lecito , a seconda che rispetti o meno un’ ordinata gerarchia tra amore di Dio, di sé, del prossimo, del corpo. L’ autentica vita virtuosa , condotta secondo sapienza, si esprime nell’ amore dell’ essere immutabile. Quando si sarà consumato l’ intero segmento della storia umana, con la resurrezione dei corpi, la vita della creatura umana sarà definitivamente libera da ogni forma di corruzione e il rapporto con il bene e il male sarà definitivamente risolto, trasfigurato in una comunione piena con Dio.
Nel contesto del monachesimo, Anselmo d’ Aosta (1033-1109) offre un contributo importante. Secondo il vescovo di Canterbury, prima monaco, le verità della fede si fondano sull’ autorità divina, ma la ragione ha un proprio spazio all’ interno della fede, che consiste nella possibilità di accreditare con il ragionamento i principali contenuti della rivelazione cristiana, sulla base di una fiducia dialettica che non si arresta, a differenza di Tommaso, dinanzi ai suoi dogmi principali. La novità dell’ etica anselmiana sta nel suo discostarsi dall’ impianto classico , secondo il quale il conseguimento della felicità dipende dalla possibilità di orientare l’ agire in relazione a un fine ultimo. Anselmo si interroga intorno al fondamento della morale, ricavato dalla nozione di rettitudine, che inerisce alle due facoltà dell’ uomo (intelligenza e volontà): la verità è la rettitudine dell’ intelligenza, esprime cioè la correttezza del rapporto conoscitivo; la giustizia è la rettitudine della volontà e identifica l’ agire “come si deve”. La libertà della creatura razionale si fonda sulla rettitudine della volontà , da conservare proprio per amore della rettitudine in sé , mentre il male non è altro che l’ assenza nella volontà della giustizia. Dunque più che disporsi ad una ricerca della felicità come un fine esterno all’ agire, l’ etica deve trovare in se stessa le ragioni della propria capacità imperativa. Nel fervore di studi del XII secolo spiccano la scuola cattedrale di Chartres e la scuola di Parigi: nella prima l’ incontro fra platonismo e cristianesimo avviene nel segno di interessi scientifici e cosmologici; la seconda è dominata dalla figura di Abelardo in cui si riscontra un uso spregiudicato della razionalità filosofica in ambito teologico e un’ interpretazione in chiave ottimistica della creazione. Introducendo una differenza tra vizio (tendenza al male) e peccato (consenso dato al vizio), Abelardo restringe la responsabilità morale facendola coincidere con la sfera dell’ intenzione , ridimensionando il pessimismo agostiniano. Secondo Abelardo, non importa l’ azione che si compie, ma l’ intenzione con cui la si compie. Il peccato viene riconosciuto proprio nell’ intenzione malvagia, per questo non potrebbero essere considerati peccatori infedeli o bambini senza l’ uso della ragione. Lo scenario culturale tra XII e XIII secolo è arricchito da una nuova attenzione al mondo della natura. Giovanni di Fidanza , che assume il nome francescano di Bonaventura, riprende la tripartizione della filosofia in naturale, razionale e morale, quest’ ultima a sua volta distinta a livello individuale, domestico e politico. Il percorso di ascesa a Dio si sviluppa in sette tappe, suddivise in tre momenti (esteriore, interiore, superiore). In questo percorso il ruolo della volontà è tenuto particolarmente in considerazione: a differenza di Tommaso, Bonaventura riconosce il libero arbitrio della volontà non solo in relazione ai beni finiti, ma persino dinanzi al bene sommo. Dalla volontà dipende la salvezza. Ancora una volta, nell’ unica verità divina va cercata l’ unità della vita cristiana, in una convergenza essenziale di conoscenza e azione. Bonaventura riafferma la novità della morale francescana e del suo ideale evangelico di povertà , reinterpretato come una virtù del giusto mezzo nel senso aristotelico, perché il vero equilibrio è una virtù dell’ anima.
Nel secolo XIII il rinnovamento della cultura medievale giunge al culmine. Nasce una filosofia “scolastica” in relazione all’ ordine degli studi vigenti nelle scholae. Contribuiscono allo sviluppo degli ordini mendicanti, l’ ordine religioso dei francescani e dei domenicani, al quale appartiene Tommaso d’ Aquino, secondo cui la filosofia dischiude un campo esplorabile con le risorse della ragione, mentre la teologia si fonda sulla divina rivelazione; poiché Dio è la medesima fonte, se il processo ascensionale (dalla ragione verso la rivelazione) e quello discensivo (dalla rivelazione alla ragione) non s’ incontrano , l’ errore va cercato in un cattivo uso della ragione. Ciò che conta è spingere quanto più possibile il percorso di elevazione razionale verso Dio. Tommaso indaga il raccordo possibile fra l’ ordine naturale della ragione e quello soprannaturale della rivelazione, evitando interruzioni brusche o forzature. Considerato dal punto di vista umano, tale raccordo va cercato e costruito “dal basso”, rintracciando con la ragione un ordine naturalmente orientato in senso metafisico. Tommaso , come Aristotele, afferma che abbiamo un’ esperienza immediata solo dell’ ente. Per questo, Dio non è immediatamente evidente né ricavabile da una riflessione sull’ idea di Dio : quello che è primo nell’ ordine dell’ essere non lo è nell’ ordine del conoscere. Rispetto ad Aristotele però la tematizzazione dell’ essere non si limita all’ essenza, ma chiama in causa l’ atto di essere. Il Dio cristiano, unico e assoluto essere in sé e quindi perfetta coincidenza di essenza ed esistenza, non forma i modi d’ essere , ma crea l’ essere finito dal nulla. Ogni ente finito tende a Dio, causa creatrice e finale. Per Tommaso la filosofia morale ha bisogno di una qualche conoscenza dell’ anima umana e delle sue facoltà : se da un lato essa presuppone la metafisica , dall’ altro rimanda all’ antropologia, chiama in causa il modo in cui la creatura umana si rapporta al Creatore in quanto imago Dei. In questa relazione il cammino dell’ uomo si sviluppa secondo l’ esperienza della lontananza da Dio e progressivo ritorno alla comunione di amore con Lui. Il motivo ultimo dell’ atto creatore non può che riassumersi nella compiutezza del bene , che si esprime in un atto d’ amore. Il fine ultimo è la divina bontà in sé. L’ assoluta asimmetria tra Dio e l’ uomo , attestata dalla creazione, può essere sperimentata come autentica reciprocità. Il conoscere e il desiderare sono i due versanti lungo i quali la concreta vita umana può essere esplorata nelle sue potenzialità più alte. L’ attenzione quindi si concentra sulle facoltà intellettive e appetitive dell’ anima. A differenza dell’ intelletto divino, quello umano trova in un certo senso la sua misura fuori di sé : il conoscere non crea l’ essere, ma entra in una relazione con ciò che è ; la verità è la conformità fra l’ intelletto e la cosa. L’ anima, in quanto forma del corpo, non preesistente al corpo stesso, garantisce l’ unità e l’ identità dell’ essere umano ; in quanto forma sussistente, è sostanza semplice e spirituale, estranea alla corruttibilità propria del corpo e per questo immortale. Costituita come unicità irripetibile nell’ unione dell’ anima con il corpo, la persona significa quanto di più nobile c’ è in tutto l’ universo. In quanto la ragione ordina gli atti della volontà, essa è in qualche modo “superiore” alla volontà, sotto il punto di vista formale. Nella determinazione dell’ atto, l’ intelletto prevale in quanto coglie l’ oggetto; nell’ esercizio concreto di tale atto invece prevale la volontà in quanto muove l’ intelletto. La volontà è quindi una forma di appetito intellettivo , in cui giunge al culmine la naturale inclinazione verso un fine, propria di ogni ente finito. Il fine attrae in quanto si configura come la perfezione dell’ ente , che tende verso di esso come suo bene in ragione di una qualche somiglianza. Il bene e il fine stanno quindi insieme, in una relazione in cui <>. In questo modo la tendenza al fine acquisisce una irrinunciabile valenza morale. Oggetto della filosofia morale è l’ azione umana ordinata al fine. Il vertice che finalizza l’ intero processo dell’ agire morale è il bene che, raccogliendo l’ eredità di Aristotele, è ciò che tutti gli esseri desiderano. Fare il bene ed evitare il male non è un principio astratto, ma il presupposto per conseguire la pienezza della perfezione, e quindi la felicità. Ogni uomo desidera naturalmente la felicità , in base a un’ aspirazione originaria. La coscienza valuta in modo responsabile e vincolante la conformità delle azioni alla legge morale. Come a livello conoscitivo anche a livello morale la persona manifesta una fondamentale capacità riflessiva. Possono considerarsi propriamente umane , a differenza di azioni semplicemente dell’ uomo , solo quelle di cui l’ uomo è responsabile, in quanto procedono dalla volontà secondo l’ ordine della ragione; in questo senso <>. Invece, una volontà che non asseconda il retto ordine della ragione è sempre mala; sperimenta cioè un rapporto di tipo difettivo con quella perfezione in cui si può conseguire la pienezza dell’ essere e quindi dell’ unità e del bene. Il libero arbitrio può essere considerato come una potenza che chiama in causa il concorso dell’ intelletto e della volontà non solo in relazione al compimento del singolo atto, ma nell’ integrità di una vita coerentemente orientata al bene sommo in tutti i suoi atti e in tutti i beni particolari finalizzati ad esso. Le virtù sono disposizioni che stabilizzano e consolidano dall’ interno il retto operare dell’ intelletto (virtù intellettuali) e della volontà (virtù morali). Queste ultime non s’ identificano con le passioni , con le quali tuttavia possono convivere. Tommaso considera le passioni come un apparato pulsionale moralmente neutro, che la ragione può regolare, anche se mai in forma definitiva. Le passioni quindi non sono di per sé fonte di peccato; possono addirittura aiutare a compiere occasionalmente grandi cose, che tuttavia, proprio per questo, hanno un valore ridotto. Tommaso consolida la distinzione, propria della tradizione cristiana, fra virtù cardinali, che riguardano la felicità naturale (prudenza, giustizia, fortezza, temperanza), e virtù teologali (fede, speranza, carità), che sono un dono della grazia divina e sono orientate alla felicità soprannaturale. L’ amore di Dio e del prossimo include anche la relazione di amicizia, essenziale alla vita attiva e contemplativa, perché chi è capace di aiutare gli altri e realizzare il loro bene è più perfetto di chi persegue unicamente il proprio. In questa tensione fra umano e divino la legge rappresenta un’ indispensabile forma di mediazione normativa.
Nell’ ordine francescano la ricerca di una fedeltà costante al fervore evangelico delle origini si misura concretamente con le sfide della povertà, in un difficile equilibrio fra realismo istituzionale e radicalismo. Questa dialettica fra superfluo ed essenziale, che investe la vita spirituale, si ripropone anche a livello di pensiero, incoraggiando una volontà pratica di semplificazione e liberazione da sovrastrutture razionali. Questo atteggiamento è particolarmente evidente nelle figure di Duns Scoto (1265-1308) e Guglielmo di Ockham (ca 1285-1347). Il primo riconosce la relativa autonomia del sapere filosofico, che tuttavia non può rispondere in modo esaustivo alla domanda intorno alla felicità ultima e per questo deve mantenersi aperto alla fede. Ciò che conta non è la bontà formale della specie, ma l’ unicità singolare della creatura , che raggiunge la sua massima perfezione nell’ unità di materia e forma della persona umana. L’ intera legge morale si può riassumere nell’ amore di Dio , mentre gli altri comandamenti acquistano valore in senso derivato, solo in quanto riconducibili a una libera scelta divina. A differenza dell’ intelletto, naturalmente determinato dal suo oggetto, la volontà agisce in modo assolutamente indeterminato , anche dinanzi al sommo bene; essa quindi è superiore all’ intelletto, come la carità è la più alta delle virtù. L’ atto riconducibile alla volontà può dirsi morale, ma sarà buono o cattivo a seconda della sua conformità a un oggetto conveniente secondo la retta ragione. In questo contrasto fra il naturale e il volontario l’ etica di Duns Scoto si caratterizza in senso volontarista, senza raggiungere l’ arbitrarismo di Ockham, il quale porta alle estreme conseguenze l’ indigenza della creatura umana nell’ essere e nel conoscere: dinanzi alla rivelazione dell’ amore di Dio, che accede qualsiasi possibilità di dimostrazione filosofica, l’ individuo è solo con la sua libertà senza il solido appiglio fornito dalla garanzia metafisica di un orientamento naturale al sommo bene. Anche Ockham , come Scoto, ritiene che un’ azione moralmente buona deve essere compiuta conformemente alla retta ragione che testimonia un orientamento al bene. Tuttavia, la volontà è del tutto svincolata rispetto ad esso; non ha un’ autonoma consistenza ontologica , ma si identifica semplicemente con l’ amore di Dio. La vera perfezione si risolve nell’ assecondare la volontà di Dio.
Nel pensiero moderno, Niccolò Machiavelli (1469-1527) incarna un atteggiamento , sulla base di un approccio alla tradizione meno speculativo e più pragmatico, che ricava utili indicazioni dall’ analisi storica , privilegiando la “verità effettuale” a ogni immaginazione idealizzante. La storia “ammaestra” intorno alla natura, fino al punto da far cogliere un’ insuperabile instabilità delle cose umane, costantemente in bilico fra ordine e disordine. Male e bene sono termini estremi di un ciclico andirivieni che vale per il mondo naturale e per quello umano. Nell’ incrocio tra naturalismo e pessimismo, c’ è un margine per la nostra libertà. Scienza e tecnica politica consentono di tracciare un identikit dell’ uomo politico in cui la questione della legittimità del potere cede il passo alle condizioni strumentali del suo esercizio più accorto e spregiudicato, secondo utilità ed efficacia. Una linea di pensiero antitetica è espressa da Erasmo da Rotterdam (1469-1536) e Thomas More (1478-1535). Entrambi ricavano da una profonda sensibilità cristiana un’ intransigente domanda di rinnovamento religioso che non accetta di separare etica e politica. Nel trattato Institutio Principis Christiani Erasmo invoca un esplicito impegno formativo nella vita politica, pronunciando una condanna nei confronti della guerra, dietro la quale si nascondono inaccettabili mire espansionistiche. More contrappone il modello di una comunità basata su principi alternativi: un regime costituzionale, la parità tra uomini e donne, nella prospettiva di un cristianesimo coerente con la religione naturale. Una forte domanda di riqualificazione della vita cristiana e una nuova visione del rapporto tra l’ uomo e Dio vengono rilanciate dal monaco agostiniano tedesco Martin Lutero, in cui la dottrina tradizionale del peccato originale conosce una nuova radicalizzazione: dopo il peccato la ragione è cieca, il libero arbitrio non può non condurre al male. I meccanismi della vita naturale restano estranei alla dinamica della salvezza; l’ uomo nuovo è salvato ma unicamente in virtù dei meriti della croce di Cristo. Se è unicamente la grazia di Dio a rendere giusto l’ uomo peccatore, la giustizia è un attributo solo di Dio e non ha senso parlare di giustizia dell’ uomo. La rivoluzione scientifica, che riceve un forte impulso dall’ opera di Bacon (1561-1626) e Galileo Galilei (1564-1642), costituisce uno dei fattori che contribuiscono più potentemente a plasmare il mondo moderno. Per Bacon la missione della scienza è di restituire all’ uomo i suoi diritti sulla natura; con il peccato originale la creatura umana ha perso l’ intelligenza e il potere sulla natura stessa : la religione cristiana aiuta a riparare la prima perdita, la scienza la seconda. Le dottrine di Giordano Bruno (1548-1600) e Tommaso Campanella (1568- 1639), confermano il consolidarsi di una ricerca di autonomia del pensiero filosofico rispetto alle promesse della rivoluzione scientifica e ai vincoli confessionali. Rispetto alle forme morali accessibili all’ uomo comune, che si esprimono nella medietà delle virtù civili e nel valore del lavoro, Bruno esalta lo slancio “eroico” dell’ amore intellettuale, in un’ esaltazione contemplativa dell’ eros , che prevale e trasfigura. Al di là di ogni calcolo. Ciò che alla fine gli impedisce di far proprie le tesi luterane è una costante rivendicazione del libero arbitrio, anche se in un equilibrio instabile tra attività e passività, tra naturalismo e volontarismo. Dall’ altra parte Campanella ricava il primato della virtù come fonte di beatitudine e sommo bene in sé a prescindere da una sopravvivenza ultraterrena. Nella Città del sole l’ incontro di etica e politica affida alla ragione il compito di governare la convivenza eliminando squilibri e lotte intestine.
Nel Seicento il pensiero di Descartes è legato soprattutto alla possibilità di dar vita a un sistema di sapere “interamente nuovo” , grazie all’ individuazione di un metodo dotato di assoluta evidenza e valore dimostrativo, attraverso l’ artificio metodico del dubbio, spinto sino all’ idea estrema di un inganno diabolico, oltre il vuoto di ogni verità, emerge un’ autoaffermazione del pensiero (cogito ergo sum, res cogitans). Questa certezza di esistere , sulla quale Descartes innesta una metafisica dell’ infinito aperta all’ idea di Dio, ha però un alto costo antropologico; dinanzi all’ autonomia sostanziale dell’ anima (res cogitans), Descartes arriva a sostanzializzare anche il corpo (res extensa); pensiero ed estensione testimoniano una doppia auto sussistenza di sostanze , concepibili separatamente e unite nel composto umano grazi alla garanzia divina. Descartes delinea le regole di una morale provvisoria ,fondata su verità indimostrate, ma capaci di orientare al bene che ancora non si conosce; anzitutto , obbedire alle leggi e ai costumi del proprio paese.; mantenersi il più possibile fermo e costante nella direzione assunta; moderare i propri desideri , accettando i limiti imposti dalla natura. L’ errore nasce sempre da un cattivo uso della volontà. Descartes assegna all’ etica il compito di presidiare quella “terra di mezzo”, all’ incrocio tra attività e passività, in cui il chiaroscuro della vita appare insuperabilmente “provvisorio”. Dinanzi a questa difficoltà si possono segnalare almeno tre linee diverse d’ interlocuzione critica: secondo alcuni, il dualismo cartesiano è l’ esito di uno sbilanciamento in senso razionalistico ; una diversa linea di contestazione assolutizza il presupposto cartesiano della materia come estensione riducendo ogni sporgenza spirituale entro una forma di materialismo meccanicistico; secondo altri il dualismo cartesiano andrebbe unificato nel segno della razionalità. Se le prime due vie trovano rispettivamente in Pascal e Hobbes gli interpreti autorevoli, Spinoza e Leibniz si assumono il compito di portare sino alle estreme conseguenze la via cartesiana della ragione. Per Pascal (1623-1662), la verità che eccede la ragione raggiunge l’ uomo a un livello più profondo della sua vita:<>. Al dualismo, come esito imbarazzante di una ragione analitica, subentra il senso di una duplicità paradossale della condizione umana. L’ appello all’ etica cristiana scaturisce dal riconoscimento di quest’ ambivalenza, contrastando ogni divertissement e disponendosi all’ incontro con Cristo, in cui è la vera felicità. Secondo Hobbes invece, in quanto semplici corpi in movimento, gli individui manifestano una tendenza naturale di appetizione o avversione , indotta dall’ esterno , che si traduce in piacere e dolore, equivalente sostanzialmente alla differenza tra bene e male; dentro quest’ impianto materialistico , la libertà indica una semplice assenza di impedimenti esterni, e non la facoltà di autodeterminarsi in rapporto ad un fine. Affidandosi a una razionalità calcolante, Hobbes intende la morale come una forma di razionalizzazione dell’ egoismo naturale, allo scopo di eliminarne le conseguenze più negative. La riduzione materialistica neutralizza il dualismo cartesiano tra anima e corpo, riproducendolo però nella forma di un insuperabile conflitto tra individui. L’ intento cartesiano di guadagnare , percorrendo la sola via della ragione, un’ idea autonoma di sostanza, tale da rendere superfluo qualsiasi impianto finalistico, in Spinoza è portato alle estreme conseguenze. Identificando la sostanza, all’ inizio dell’ Etica, come <> (vale a dire che non ha bisogno di altro per essere concepita e quindi per esistere), Spinoza le attribuisce un’ autosussistenza estranea allo spirito e alla definizione aristotelica. È possibile ammettere un’ unica sostanza assolutamente infinita, causa universale e immanente, che è Dio, che cogliamo attraverso due dei suoi infiniti “attributi”, il pensiero e l’ estensione, mentre la molteplicità delle cose finite configura l’ insieme dei modi, cioè delle affezioni o modificazioni dell’ unica sostanza, mediante i quali gli attributi di Dio sono espressi. Anche il corpo e la mente debbono considerarsi come modi di attributi diversi, simultaneamente appartenenti all’ unica potenza divina; la mente, in particolare, è l’ idea di un corpo umano che esiste in atto. Spinoza ha davanti a sé un compito rovesciato rispetto al pensiero cartesiano: giustificare non tanto l’ unità oltre ogni dualismo, quanto il molteplice a partire dall’ unità. Assumendosi tale compito, il pensiero spinoziano si fa carico di ricondurre entro l’ assoluta necessità e perfezione della sostanza divina l’ intera trama del mondo della natura. Il piano conoscitivo e quello morale sono quindi ricondotti alla più rigorosa unità , in una perfetta equazione di libertà e necessità, d’ intelletto e amore, mentre la dinamica affettiva consente di cogliere l’ essenza dell’ uomo e la possibilità della sua liberazione. Gli affetti sono affezioni del corpo che coincidono con l’ idea che abbiamo di tali affezioni; rispetto ad esse, la mente umana può essere attiva o passiva: le azioni nascono da idee adeguate ed esprimono la perfezione della sua natura, mentre le passioni dipendono da idee inadeguate, riconducibili a cause esterne, ed esprimono la sua imperfezione. Il processo di liberazione, attraverso il quale la mente si avvicina sempre più a uno stato di attività, si decide per intero sul terreno della conoscenza. La ricerca del proprio utile può essere prescritta razionalmente come unico fondamento della virtù, cioè della retta maniera di vivere. In quanto dipende dalla potenza di una causa esterna, una passione può superare la potenza attiva dell’ uomo e può essere contrastata solo con un affetto contrario e più forte; la ragione è capace di produrre questi affetti positivi, in quanto il sapere che tutto dipende dalla divina necessità consente di agire bene. Dalla possibilità di guadagnare un’ intelligenza delle cose sub specie aeternitatis, nasce l’ unione indefettibile con Dio. Anche in Leibniz l’ istanza di unificazione razionale è molto forte, declinata tuttavia nella forma di un’ articolazione armonica del molteplice, più che in quella di un suo riassorbimento in un’ unica sostanza. Il pensiero leibniziano trova un coronamento metafisico nella dottrina della monade come “specchio dell’ universo”. La monade è un microcosmo autoreferenziale in cui sono racchiusi tutti i suoi possibili attributi e quindi l’ intero “tracciato” dei rapporti con le altre monadi; solo la sapienza infinita del divino Architetto assicura una corrispondenza. Le monadi spirituali possono elevarsi alla conoscenza di se stesse e di Dio; in quanto capaci di ragione e scienza, nella propria sfera d’ azione ciascuna di loro è come una piccola divinità. Mentre le forze naturali dei corpi sono necessariamente sottomesse alle leggi meccaniche, quelle degli spiriti sono liberamente soggette alle leggi morali. Leibniz fonda il suo ottimismo metafisico sull’ assoluta bontà della scelta divina. In questo modo, però, egli è costretto a minimizzare l’ impatto del male, coniando il termine “teodicea”, per identificare la questione della compatibilità tra giustizia di Dio e presenza del male nel mondo.
Il pensiero illuminista guarda con favore a John Locke (1632-1704), secondo cui la conoscenza umana si basa su idee semplici che scaturiscono dall’ esperienza: esterna (sensazione) o interna (riflessione); rispetto ad esse, l’ intelletto manifesta una duplice condizione, attiva e passiva, che si riflette nella vita morale. Possiamo infatti intervenire attivamente sulle idee , combinandole fra l’ altro in idee complesse. Le stesse idee di bene e male non sono semplici, né innate. Nel chiarire la relazione tra idee semplici e complesse attraverso cui si formano le idee morali, Locke mette in campo anche il giudizio, cui è ultimamente affidato l’ assenso a un’ azione piuttosto che a un’ altra. Le fonti delle idee morali sono l’ opinione comune e la legge di natura: la prima scaturisce da un consenso diffuso, che deve passare al vaglio della ragione; la seconda è espressione della volontà divina , conforme all’ ordine naturale, e può essere colta attraverso l’ intelletto. Locke, in ogni caso, dinanzi a un pluralismo di visioni morali, pone come criterio dirimente la conservazione della società e la promozione della felicità pubblica in una fiducia nella razionalità , nelle capacità umane di autoregolamentazione e nell’ educazione. Hume (1711-1776) riprende la critica lockiana all’ idea di sostanza , estendendola anche all’ idea di causa; sostenendo che la trasformazione della mera successione cronologica in una relazione di causalità non è autorizzata dall’ esperienza, ma è solo frutto di abitudine, si compie un passo decisivo verso il completo abbandono del paradigma teleologico. Rispetto a una natura umana che è essenzialmente sentimento e istinto, la ragione (anch’essa una manifestazione della natura istintiva dell’ uomo) è moralmente inerte: non può contrapporsi alle passioni, le quali non possono considerarsi di per sé né ragionevoli né irragionevoli. Se la passione non è fondata su presupposizioni false e non si avvale di mezzi insufficienti allo scopo, l’ intelletto non può giustificarla né condannarla. La passione cede alla ragione solo quando sono smascherati i falsi giudizi che l’ accompagnano o si rivela sproporzionato il rapporto tra mezzi e fini: il desiderio di un frutto svanisce se vengo convinto che non ha un sapore eccellente. La conoscenza non produce la moralità e, a sua volta, la moralità non consiste in nessun dato di fatto che si possa scoprire con l’ intelletto. Virtù e vizio si differenziano a seconda della loro utilità e immediata piacevolezza per sé e per gli altri. Il campo libero che viene lasciato alle passioni mette in pericolo la libertà; d’ altro canto, dietro il disimpegno della ragione s intravede , su un fondo scettico, la sua debolezza.
Rispetto al pragmatico empirismo degli illuministi inglesi, che riconosce il primato del senso morale e invita allo spirito di tolleranza, e al radicalismo degli illuministi francesi, che fornisce una formidabile spinta alla rivoluzione del 1789 , con l’ illuminismo tedesco si assume il compito più austero di una ricerca metodica di fondazione razionale. Il pensiero di Kant (1724-1804) sintetizza molti temi e motivi illuministici in una prospettiva nuova ed originale. Indagare la conoscenza a prescindere dai contenuti di tale conoscenza , è per Kant un compito che la ragione pura deve assumersi e portare fino in fondo. In questo modo non sono tanto i contenuti della conoscenza che interessano il filosofo, quanto la genesi e le condizioni di una conoscenza rigorosa. La maggior parte dei problemi che tormentano la ragione umana nascono dalla sua stessa natura , diventando insolubili quando ne oltrepassano i poteri; per questo la metafisica è diventata il campo di una lotta senza fine e al suo dispotismo dogmatico si è reagito con una forma di scetticismo non meno pericoloso , anche a livello sociale. Assumendo, in senso tipicamente illuministico, l’ idea di una ragione come un giudice che giudica tutto, persino se stessa, Kant distingue fra la dimensione della sensibilità , per cui ogni esperienza è percepita secondo le forme spazio-temporali dell’ intuizione (Estetica trascendentale), e la forma del pensiero in generale che ha la sua origine nell’ intelletto (Logica trascendentale). Solo la forma del conoscere può dirsi a priori: il materiale sensibile diviene sentito in quanto entra in una sintesi a priori. La soggettività trascendentale (“io penso”) è la condizione che rende possibile tale sintesi. Isolando un nucleo trascendentale d’ intelligibilità, Kant è disposto a pagare fino in fondo il prezzo di un’ autoeliminazione della ragione pura: verso il basso, distinguendo tra fenomeno e noumeno, cioè fra la cosa in quanto oggetto di giudizio nella sintesi a priori e la cosa in sé, astrattamente pensabile , ma non realmente conoscibile a prescindere dalla nostra concreta intuizione; verso l’ alto, impedendo ogni accesso conoscitivo a un mondo metafisico di idee pure , di cui è possibile autorizzare non un uso “costitutivo”, ma solo “regolativo”. Quest’ autolimitazione della ragione pura conferisce quindi alla ragione pratica un <>, chiamandola a misurarsi con un conflitto insanabile dell’ uomo moderno con se stesso. Kant riconosce come spetto qualificante della riflessione morale la nozione di obbligatorietà. Il principio dell’ obbligazione , alla base di ogni legge morale, può scaturire non da circostanze empiriche, ma dalla forma pura della volontà, cioè dalla possibilità di isolare i suoi comandi , rinunciando a cercarne il principio fra moventi e leggi empiriche. Tuttavia , in quanto la filosofia morale si riassume nella prescrizione di leggi a priori , l’ uso pratico della ragione conduce ad ammettere un principio incondizionatamente necessario, senza essere in grado di conoscerlo. Un’ azione compiuta per dovere deve poter prescindere dall’ influsso dell’ inclinazione e dall’ effetto che se ne può attendere, l’ origine dei concetti morali è interamente a priori. A differenza degli imperativi ipotetici, che riguardano la scelta dei mezzi per raggiungere un fine, l’ imperativo categorico prescinde dalla materia dell’ azione da compiere e riguarda essenzialmente la forma e il principio da cui l’ azione deriva : ciò che in essa vi è di essenzialmente buono è solo l’ intenzione che comanda di agire conformemente a una massima universalizzabile. Promettere di restituire una somma ottenuta in prestito sapendo di non poterlo fare non può valere come legge universale, poiché se ognuno si comportasse così verrebbe meno il senso stesso della promessa. La facoltà di autodeterminarsi invece deve valere per tutti gli esseri ragionevoli: la loro esistenza ha un valore assoluto ed è oggetto di rispetto in quanto principio di un imperativo categorico. Infine, la volontà di ogni essere ragionevole è universalmente legislatrice, in quanto sottoposta a una legge che essa stessa autonomamente si dà; nasce da qui l’ idea di un “regno dei fini”. In tale regno , l’ umanità ha una dignità senza prezzo e l’ attività sintetica a priori rappresenta l’ unica eredità possibile dell’ armonia prestabilita. Alla perdita dell’ unità a livello metafisico corrisponde il guadagno dell’ autonomia a livello morale. La moralità non coincide con la santità. Kant chiarisce analiticamente l’ uso pratico della ragione: i suoi soli oggetti sono bene e male, intesi in un’ accezione morale, non sensibile, in quanto collegati ad un semplice sentimento di piacere o dispiacere. Il dovere attesta la natura finita dell’ essere umano , in cui la virtù non è riducibile né a pura sensibilità né alla santità divina, che attua una perfetta conformità tra volontà e ragione. La legge morale s’ impone come un “fatto della ragione” inspiegabile con dati dell’ esperienza sensibile. Fra l’ uso speculativo e quello pratico della ragione pura emerge dunque un dislivello incolmabile, corrispondente alla differenza tra leggi di natura e quelle di una natura che è invece soggetta alla volontà secondo una causalità libera. In quanto non subordinata ad altro, la virtù è il bene supremo, ma non il bene sommo, cioè perfetto, che include virtù e felicità. La virtù non produce la felicità secondo una concatenazione causale necessaria, ma ne rende l’ uomo degno e ne giustifica l’ attesa; nessuno però può sperimentare nella sua esistenza tale stato di santità, verso il quale tendiamo secondo un progresso all’ infinito , praticamente possibile solo presupponendo un’ anima immortale. Inoltre per garantire una felicità proporzionata alla moralità bisogna supporre l’ esistenza di una causa adeguata , cioè di un “dispensatore di felicità saggio e onnipotente”: Dio. La legge morale conduce alla religione: la morale può renderci degni della felicità, la religione ce ne offre la speranza. Accanto ad originarie disposizioni al bene, Kant rileva anche una tendenza inestirpabile a capovolgere l’ ordine morale, frutto di una corruzione dell’ uso della libertà; questo male radicale e innato, dovuto alla fragilitas, impuritas e pravitas della natura umana, non è un irresistibile istinto naturale né un pervertimento della ragione, ma consiste in un debito imputabile all’ uomo, che egli non può estinguere. Dinanzi a ciò , si rende necessaria l’ idea di un salvatore, o Figlio di Dio, inteso come personificazione dell’ umanità perfetta: il vero razionalista deve essere consapevole dei limiti della capacità umana di comprendere , arrivando ad ammettere la religione cristiana come la vera religione naturale. La morale, dunque, nella sua autonomia, non ha bisogno della religione, ma conduce alla religione. Si coglie la natura ambivalente del pensiero kantiano : il trascendentale incarna il paradigma illuministico di una ragione che giudica tutto senza essere giudicata da un’ istanza superiore, ma , nello stesso tempo, proprio tale esercizio implica un’ analisi critica intorno ai limiti del conoscere, la quale si arresta dinanzi al mistero del male e della speranza , e apre all’ idea di fede razionale.
Dopo Kant, la stagione d’ oro della filosofia classica tedesca trova un riferimento fondamentale nell’ opera di Fichte (1762-1814), il quale idealizza l’ “io penso” come autocoscienza creatrice. L’ io pensante si riconosce originariamente come volontà , in cui l’ impulso spirituale e quello naturale trovano un orientamento consapevole nell’ impulso morale, che scaturisce da un’ obbligazione originaria e incondizionata. La morale si esprime sotto forma di un dovere incondizionato e fonda il diritto e la libertà. L’ autonomia, fine ultimo del soggetto razionale, assegna alla vita morale un compito che si attua in un orizzonte intersoggettivo attraverso una progressione di azioni concrete, in una sintesi perfetta di legge e libertà. La distanza dall’ etica kantiana è presente anche nel pensiero di Schelling (1775-1854), secondo il quale la filosofia pratica si esprime nell’ imperativo della morale, in cui si afferma la volontà individuale, presupposto dell’ imperativo dell’ etica, che manifesta la volontà generale. Se l’ idealismo mira a ricomporre la dicotomia kantiana fra a posteriori e a priori, in nome della soggettività trascendentale, Hegel (1770-1831) mette a punto il dispositivo dialettico che giustifica la conciliazione di una forma onnicomprensiva e assoluta: lo spirito è soggetto di tale conciliazione, che si attua storicamente attraverso un processo d’ infinito oltrepassa mento, in cui tutto ciò che appare viene tolto dallo stato di astratta individualità e ricompreso in una sintesi superiore. Anche nella vita morale la purezza ideale dell’ intenzione non deve essere scissa dalle sue esternazioni storiche, manifestandosi come un’ oggettivazione dello spirito, in cui l’ ethos incarna le “potenze etiche” concrete che reggono storicamente, attraverso leggi e istituzioni, la vita della collettività. Se la natura è per Hegel esteriorità e disuguaglianza, l’ essenza dello spirito è la libertà, che si dispiega come spirito soggettivo nel suo essere in relazione a se stesso, come spirito oggettivo incarnandosi nel mondo, come spirito assoluto innalzandosi a libertà infinita nelle forme dell’ arte , della religione e della filosofia. Nel suo realizzarsi pratico, la volontà si oggettiva come libertà in tre grandi sfere, che consentono di elevarsi oltre l’ ambito di appetiti , opinioni e desideri soggettivi: nel diritto domina un “io” astratto, che si identifica in rapporto a un possesso, una proprietà, un contratto esterno, in cui i singoli si riconoscono come persone e proprietari ; nella moralità il singolo si autodetermina in rapporto a se stesso , nella forma di una libertà soggettiva, caratterizzandosi come coscienza del bene e del male , in una sintesi di volontà interna e azione esterna; nell’ eticità , cioè nello spessore storico del costume: solo a questo livello la libertà individuale diventa sostanziale , incarnandosi nello spirito di un popolo come una “seconda natura”. Entro questa sfera Hegel distingue famiglia, società e stato: la prima è una forma naturale e immediata di eticità , che trapassa, attraverso la procreazione e l’ educazione, nella molteplicità di interessi e bisogni individuali della società civile. Lo stato invece ha un rapporto del tutto diverso con l’ individuo; giacché lo stato è spirito oggettivo , l’ individuo stesso ha oggettività , verità ed eticità in quanto è membro del medesimo. Lo stato incarna la forma più alta di eticità solo nella misura in cui in esso si compie una sintesi di tutti i momenti precedenti. Nell’ idea di uno stato etico, inteso come unica forma d’ individualità veramente libera e sovrana, si sprigiona un’ irresistibile potenza fusionale, destinata a realizzarsi compiutamente nell’ unità dello Spirito assoluto e dalla quale non poche ideologie politiche si lasceranno tentare. Feuerbach (1804-1872) invoca un radicale rovesciamento dell’ hegelismo , che arrivi finalmente a riconoscere l’ uomo naturale e sensibile come il vero Dio , cioè a porre non il finito nell’ infinito, ma l’ infinito nel finito. Tale rovesciamento è anche alla base dell’ opera di Marx (1818-1883) secondo il quale se l’ uomo, per un verso , è un essere naturale attivo , capace di soddisfare i propri bisogni attraverso il lavoro, per altro verso è di fatto condannato a vendere il proprio lavoro , in condizioni di vita “alienate”, causate dalla proprietà privata dei mezzi di produzione e dalla divisione del lavoro. Solo attraverso una “soppressione positiva” della proprietà privata , può essere riconquistata la completa emancipazione umana, che renderà superfluo ogni apparato “ideologico”, cioè l’ insieme delle esemplificazioni “ideali”, fra cui si può annoverare anche la morale. Stretta fra la dimensione strutturale dell’ economia e il ruolo salvifico della politica, l’ etica patisce una squalifica sostanziale nel pensiero marxista. Occupa una posizione più isolata l’ opera di Schopenhauer (1788-1860), che rappresenta un’ altra linea di distacco di Hegel ; il suo pensiero prende corpo liberando il titanismo romantico da qualsiasi ottimismo idealistico e facendone il presupposto per un ripensamento del dualismo kantiano di fenomeno e noumeno. Rispetto al fenomeno, che è apparenza e illusione (per la quale si può evocare la nozione indiana di “velo di Maya”), l’ essenza noumenica del mondo è la volontà, non come atto individuale e consapevole, ma come illimitato impulso vitale. L’ imperativo categorico non sarebbe altro che una forma di egoismo mascherato , che subordina l’ universalizzazione alla reciproca convenienza. In quanto amore pronto a riconoscere il dolore altrui nel sacrificio disinteressato di sé, la compassione è la vera risposta all’ egoismo. La libertà , negata a livello fenomenico, è parzialmente recuperata all’ interno di un itinerario di liberazione, che consiste nell’ opporre alla volontà, in cui è la radice stessa del male, un movimento opposto di rinuncia totale ad essa (noluntas), che, neutralizzando desideri e passioni, culmina oltre la compassione, nel distacco totale dell’ ascesi, in cui la coscienza dell’ assoluta vanità della vita si dissolve nel nulla. Un attacco decisivo alla “filosofia speculativa” è infine portato da Kierkegaard e Nietzsche , interpreti scomodi di una crisi della ragione che contesta l’ “ordine stabilito” e riaccende nuove domande di senso. Kierkegaard accusa l’ hegelismo di essere un’ insegna vuota che non mantiene le promesse. L’ io che rifiuta di annegare nelle ambiguità sperimenta la vertigine dell’ angoscia dinanzi allo scenario sconfinato delle possibilità. Alla tentazione di dissipare l’ etica nella sfera del concetto, Kierkegaard oppone il valore dell’ atto libero , che segna il salto dalla possibilità alla realtà. Ma la libertà d’ agire è inseparabile da una dialettica antagonista del patire che si manifesta nella sofferenza interiore. In questa dialettica l’ individuo può attraversare tre stadi della vita: lo stadio estetico è dominato dalla ricerca irresponsabile del piacere momentaneo, interpretato dalla figura del don Giovanni mozartiano, che dissipa l’ esistenza all’ insegna dell’ immediatezza e della sensualità; lo stadio etico corrisponde a un’ esistenza stabilizzata, che supera lo spontaneismo con la sottomissione a una legge universale come scelta di responsabilità dinanzi a se stessi e a Dio, ma è anche una scelta che addita una meta ideale, illudendosi di trovare autoappagamento in un perbenismo rassicurante e fine a se stesso; la figura di Abramo invece incarna lo stadio religioso. La fede cristiana pone l’ uomo dinanzi all’ assurdo di una verità eterna che si è incarnata , inconcepibile per una religiosità puramente naturale: è l’ abbassamento del maestro, più che l’ innalzamento del discepolo, il movimento decisivo in cui si condensa il paradosso cristiano, capace di far coesistere nell’ esistente l’ eternità e il tempo. Tuttavia la possibilità di rapportarsi a questo paradosso testimonia che il rapporto con l’ infinito non è un’ opzione indolore e facoltativa: in quanto spirito, l’ io è in sé una sintesi di finito e infinito, che nessuna mediazione razionale può comprendere. È dunque disperato il tentativo dell’ io, entrando in rapporto con se stesso, di separarsi dall’ eterno che è in lui; per questo la disperazione è un’ autodistruzione dell’ io. Secondo Nietzsche (1844-1900), rispetto alla libertà e alla sua forza creatrice, la moralità è una forma di passività e sottomissione, frutto di interferenze indebite della ragione nella creazione di falsi ideali , che Nietzsche decostruisce storicamente , attraverso una via genealogica , per smascherarne la genesi “impura” su tre piani distinti, che riguardano l’ interpretazione di “buono” e “cattivo”, di “colpa” e “cattiva coscienza”, dei cosiddetti “ideali ascetici”. La genesi del risentimento è collegata a un meccanismo repressivo , da cui nasce la “morale degli schiavi”, che sono capaci solo di reazioni negative e cercano di riscattare la loro sconfitta nelle false virtù della rinuncia e del sacrificio. Nietzsche restituisce alla “volontà di potenza” lo spazio lasciato libero dalla critica alla morale tradizionale e di cui solo una forma estrema di nichilismo si può reimpadronire attivamente. Il nichilismo si manifesta anzitutto come una forma passiva di debolezza, quando vive come una perdita lo svuotamento di tutti i valori , culminante nella “morte di Dio”, che non è solo il tramonto della fede cristiana, ma il crollo degli assoluti morali e di una metafisica aggrappata a un qualche fondamento. Secondo Nietzsche, però, si dà anche un volto attivo del nichilismo , che trasforma la perdita in un capovolgimento, e strappa a Dio la sua potenza, trasformando la visione lineare del tempo nella legge superiore dell’ “eterno ritorno”, in cui l’ unica forma di stabilità possibile è la <>. Nasce da qui l’ “amor fati”, cioè la capacità di dire di sì alla vita accogliendo fino in fondo la totalità in trascendibile del divenire e celebrando la vertigine della volontà di potenza. Il bene e il male sono ricollocati nelle mani dell’ uomo: valutare è creare. Il superuomo che compare sulle ceneri della morte di Dio può nascere solo dalla tra svalutazione di tutti i valori. Ne rovesciamento positivo del nichilismo , la volontà di potenza si erge non solo al di là del bene e del male, ma addirittura oltre la stessa differenza fra l’ essere e il nulla: un uomo veramente nuovo può essere solo il creatore di se stesso. Ex nihilo: proprio come Dio.
Nuovi sviluppi della riflessione sono resi possibili da un pensiero tradizionalmente attento a estendere alla vita sociale le conseguenze di un’ analisi empirica della natura umana, trovando il loro esito più importante nelle dottrine etico-politiche che si sviluppano tra Settecento e Ottocento prendendo il nome di utilitarismo, di cui si contendono la paternità Bentham e Mill. L’ identificazione del bene con il piacere, la felicità o il benessere, suppone l’ esistenza di un’ unica scala di valori, che giustifica il perseguire il benessere fino al massimo risultato possibile consentito da un’ “aritmetica morale”, sulla base di un calcolo condotto attraverso una specie di “somma algebrica” dei fattori in campo; in questo modo il criterio di valutazione dell’ agire morale non è aprioristico. La possibilità di ricondurre per intero il giudizio etico entro parametri di calcolo razionale comporta una spersonalizzazione dell’ etica: al punto di vista della prima persona , proprio delle etiche classiche, si sostituisce il punto di vista della terza persona, che vorrebbe essere una ripresa del principio kantiano di universalizzazione, ma che in realtà conduce ad esiti molto diversi: l’ impianto deontologico kantiano , che determina a priori la forma del dovere, è sostituito con un impianto teleologico, in cui diventa criterio di valutazione il fine raggiunto. All’ origine del pensiero utilitarista è l’ opera di Bentham (1748-1832), che estende alla vita sociale l’ intento humeano di delineare una scienza della natura umana, trasformandola in una teoria esplicitamente normativa. Secondo Bentham la tendenza naturale alla felicità si riassume nella ricerca del piacere e nella fuga dal dolore, da cui nasce il criterio utilitaristico dell’ interesse. L’ equazione immediata fra il mondo dell’ esperienza e mondo morale rende superfluo qualsiasi appello al dovere e porta a considerare il piacere come motivo sufficiente per l’ azione. A differenza del diritto (che prende in considerazione solo alcune classi di azioni), la morale estende il criterio valutativo dell’ utile all’ intera sfera dell’ agire umano, comprendendo non solo i moventi delle singole azioni, ma anche gli atteggiamenti permanenti che sono alla base del comportamento. Dall’ identificazione fra felicità e piacere , si ricava un criterio prescrittivo per la scelta dell’ azione più utile, quindi moralmente migliore; il calcolo del piacere è basato sui seguenti parametri: intensità, durata , certezza o incertezza, vicinanza o lontananza, fecondità , purezza, estensione. Il principio della convenienza comporta anche il superamento dell’ interesse individuale; la conciliazione fra interesse personale e promozione degli interessi altrui risponde a un principio di armonia naturale degli interessi, rivolta al conseguimento del massimo beneficio per il maggior numero di persone. Mill (1806-1873) si colloca sulla linea inaugurata da Bentham. Secondo Mill l’ individuazione di una gerarchia fra diversi piaceri dipende da un’ analisi della natura del piacere medesimo, distinguendo fra un’ azione compiuta spontaneamente per puro piacere , rilevante solo per le sue conseguenze , e un’ azione morale vera e propria , compiuta sulla base di una complessità di motivi. La persona moralmente libera può opporsi a un’ inclinazione e regolare i desideri, sulla base di ragioni fondate. La promozione della felicità umana è il principio teleologico ultimo. Ancora una volta , a fondamento della morale è posta l’ utilità, identificata con “il principio della maggior felicità”, sempre intesa come piacere e assenza di dolore; viene tuttavia criticato l’ azzeramento di Bentham di qualsiasi differenza qualitativa fra i piaceri. I piaceri relativi alla vita intellettuale e morale sono infatti più elevati rispetto ai piaceri del corpo.
Nel Novecento le questioni con le quali si confrontano positivismo logico e filosofia analitica trovano un particolare approfondimento in Wittgenstein (1889-1951), secondo cui l’ etica deve essere una condizione del mondo , come la logica; in tal senso è trascendente. Non vi possono essere proposizioni sull’ etica. L’ esclusione di questa dalla sfera linguistica consente di riconoscerle uno statuto privilegiato. Occorre dunque ammettere una differenza incolmabile tra l’ ambito puramente naturale, dove ogni giudizio non è altro che asserzione sui fatti, e l’ ambito soprannaturale, che è proprio dell’ etica, resistente a qualsiasi evento controfattuale. Il senso etico appare come qualcosa di assoluto; per questo il linguaggio , nell’ insieme delle sue funzioni ordinarie ed empiriche, non riesce a contenerlo. L’ istanza etica rinvia a una luce originaria che l’ uomo sembra incapace di fissare e di cui, nello stesso tempo , non può fare a meno. L’ etica resta confinata in una sorta di orizzonte ineliminabile e inesprimibile: il suo appello assoluto non offre risposte articolabili e non può neppure essere insegnato. La teoria alla quale si da il nome di intuizionismo è riconducibile a George Moore (1873-1958), che mette in guardia contro gli equivoci dell’ etica tradizionale , che nascono dalla pretesa di dare risposte in forma normativa, senza una preliminare chiarificazione della domanda. Due sono le questioni fondamentali dell’ etica: che cosa deve esistere come fine in sé ; quali azioni dobbiamo compiere. Per rispondere alla prima domanda è necessario liberarsi da ogni “fallacia naturalistica”, che consiste nel descrivere ciò che è buono come se fosse una proprietà naturale o metafisica. In questo modo, secondo Moore, è compromessa l’ autonomia dell’ etica, che invece va salvaguardata ribadendo che “il bene è il bene” , cioè non si può definire riconducendolo a qualcosa di altro, in quanto è universalmente riconoscibile e oggetto d’ intuizione immediata, come la proprietà di un colore, ma a differenza di questa, non empirica. Ad esiti anticonvenzionali giungerà invece l’ etica di Bertrand Russell (1872-1970): anche per lui buono e cattivo non sono proprietà naturali degli oggetti, ma riflettono desideri immediati che trovano il loro coronamento in un’ etica dell’ amore e del rispetto reciproco, perseguibile solo in nome di una libertà individuale svincolata dall’ autoritarismo oppressivo di istituzioni politiche, sociali e religiose.
Nella filosofia “continentale” l’ attenzione alla storia favorisce una rinascita dello storicismo. Facendo tesoro di una rinnovata attenzione a Kant, lo storicismo tedesco approda, in Dilthey (1833-1911), a una vera e propria “critica della ragione storica”, volta a indagare la natura e limiti della comprensione storica e introdurre un discrimine fra scienze dello spirito e scienze della natura. Al modello della spiegazione causale, su cui si fondano queste ultime, sfugge il flusso dell’ esperienza vissuta (Erlebnis), con il quale possono invece metterci in rapporto le scienze dello spirito (dalla storia alla filosofia, dalla letteratura alla musica). La storia stessa è non una cornice esterna ma la dimensione costitutiva dell’ umano. È la storicità, quindi, che ne rende possibile la comprensione, in quanto l’ intera dinamica della vita spirituale e morale è intimamente storicizzata. Anche Max Weber (1864-1928) s’ interroga sulla metodologia delle scienze storico-sociali rispetto alle scienze della natura. Mentre queste ultime tendono a spiegare i fenomeni riconducendoli a un sistema di leggi generali, le scienze storico-sociali spiegano gli avvenimenti, anche nella loro concatenazione causale, in rapporto alla loro irripetibile specificità. In tale prospettiva Weber delinea lo statuto di una “sociologia comprendente”: il suo carattere avalutativo impedisce di esprimere giudizi di valore universali, ma non esclude un’ analisi dei fenomeni nel loro significato culturale; solo ricercando di volta in volta il rapporto a un valore un insieme di valori, il comportamento sociale dell’ uomo diventa per noi significativo. Weber si richiama alla nozione di “politeismo di valori”, già presente in Mill, per sottolineare l’ esistenza di una pluralità di sfere valoriali tra loro in un rapporto di insuperabile conflittualità. La ricerca di un nuovo sguardo filosofico, alternativo a ogni approccio ingenuamente empirico al reale, porta Husserl (1859-1938) a elaborare l’ idea di una fenomenologia pura, irriducibile a qualsiasi forma di descrizione psicologica. Attraverso una sospensione del giudizio (epoché) intorno al mondo come insieme dei fatti, è possibile disegnare un percorso di riduzione fenomenologica , al fondo del quale l’ esperienza può essere colta nell’ atto del suo manifestarsi originario alla coscienza trascendentale. L’ etica fenomenologica è per Husserl una coscienza a priori che descrive il manifestarsi dei vissuti intenzionali della coscienza morale. Rispetto all’ impronta della filosofia husserliana, con Max Scheler (1874-1928) siamo di fronte a un atteggiamento particolarmente sensibile alle implicazioni antropologiche ed etiche della fenomenologia. Scheler elabora un’ etica materiale dei valori, cioè contenutisticamente determinata, che vuole essere insieme a priori e oggettiva: alla radice della vita spirituale sta un’ elementare intenzionalità intuitiva , capace d’ instaurare un rapporto immediato con i valori, riconducibile alla sfera del “sentire affettivo”. Il correlato di questo sentimento intenzionale è un mondo di valori, cioè di qualità originarie essenziali, oggettivamente distinte dal soggetto che le coglie e reciprocamente correlate secondo una gerarchia assiologia, che si “realizzano” nei beni concreti di cui facciamo esperienza. Questa gerarchia si presenta come un ordine qualitativamente strutturato : al primo livello cogliamo i valori sensibili (tra gradevole e sgradevole), al secondo i valori pragmatici della civiltà (tra utile e dannoso), al terzo i valori vitali (tra salute e malattia), al quarto i valori spirituali (come giustizia, bellezza, verità), al quinto i valori religiosi (tra beatitudine e disperazione). L’ analisi fenomenologica di questi livelli culmina nell’ amore come suprema istanza ordinatrice della vita morale. Grazie all’ amore, la persona attraversa l’ intera scala dei valori, che conduce al supremo valore della persona stessa , unica e irripetibile, promuovendone l’ identità individuale e sociale. L’ istanza kantiana dello sguardo puro sull’ etica viene portata alla massima distanza da Kant: lo sguardo puro è molto più che uno sguardo e non è vuoto; l’ amore prende il posto del dovere, l’ io penso è una persona. Heidegger (1889-1976) rispetto a Husserl, suo maestro, rifiutando di filtrare l’ intenzionalità attraverso la riduzione metodologica, preferisce imboccare direttamente la “via corta” di un’ ontologia della comprensione, in cui il comprendere non è più l’ alternativa , sul terreno delle scienze dello spirito, alla spiegazione naturalista. Arrestandosi sulla soglia dell’ essere-per-la-morte come radicale impossibilità d’ ogni ulteriore possibilità, Heidegger fronteggia l’ angoscia in nome di un’ accettazione quasi stoica del limite, nel rifiuto titanico di piegarsi dinanzi a se stesso. Nello spostamento dal piano fenomenologico delle essenze ideali a quello ontologico dell’ esistenza finita lo statuto dell’ etica risulta drasticamente ridimensionato. In questo senso si può dire che <>, esercitando un’ ipoteca nullificante su qualsiasi possibilità di scelta. La cifra etica del pensiero heideggeriano in Sein und Zeit si manifestava attraverso il tema dell’ autoaffermazione e della cura: dal riconoscere che nella domanda intorno al proprio essere “ne va” di questo essere stesso scaturiva una differenza fra esistenza autentica e in autentica, non priva di conseguenze di ordine morale. Nello sviluppo ulteriore , la tensione tra etica e ontologia si sposta invece dal piano dell’ esistere a quello dell’ essere : ethos ora significa soggiorno. Se quindi <>. L’ impianto di Essere e tempo continuerà ad essere considerato con interesse dai filosofi dell’ esistenza , che porteranno avanti per via autonoma la riflessione intorno al rapporto tra finitezza e libertà. Una sua particolare declinazione è al centro dell’ opera di Jaspers (1883-1969), che tematizza l’ esperienza esistenziale del limite, del naufragio, assumendola nella sua ambivalenza: nell’ immediatezza del corpo , nell’ universalità della coscienza o nell’ attività dello spirito si esprime un’ inesauribilità del possibile che interpella la nostra libertà. Jaspers assegna alla ragione un triplice compito: orientazione filosofica nel mondo, chiarificazione dell’ esistenza, slancio metafisico. Dinanzi al proliferare degli arsenali atomici nell’ epoca della guerra fredda , Jaspers invoca una vera e propria conversione della ragione, presupposto di autentica liberazione della storia della violenza. L’ esistenza si compie attraverso un percorso concreto e irrinunciabile di liberazione. Il senso del bene e del male si definisce in rapporto all’ atteggiamento di fondo della nostra volontà. L’ esperienza etica autentica , libera da ogni involucro dogmatico, mantiene l’ esistenza in cammino, preservandola da ogni regressione oggettivante. Altri scenari si aprono tra i filosofi dell’ esistenza. In Camus (1913-1960), nel dramma della terra non resta che la risposta etica della rivolta, non contaminata dal risentimento, ma animata da uno “strano amore”, che non si arrende dinanzi all’ esperienza del limite. Al di là del nichilismo, si deve preparare una rinascita. In Sartre (1905-1980), il limite è avvertito come un “muro”, al di là del quale la libertà , interamente riconsegnata al soggetto, si trasforma in un’ assurda passione di assolutezza irrealizzabile. La libertà ricade su se stessa, in un urto drammatico fra onnipotenza e impotenza. Il regno della libertà ha nella storia la sua unica dimora. Unica e insieme impossibile.
Un’ altra linea di risposta al positivismo è sviluppata da Bergson (1859-1941) e indirizzata su un diverso binario, spirituale più che esistenziale. Grazie al concetto di “durata” , la riflessione intorno al senso del tempo raggiunge un livello profondo di continuità tra spirito e materia, in una metafisica della memoria e dell’ intuizione. La durata si manifesta come progressione e sviluppo incessante , custodita dalla memoria; il senso della libertà s’ intuisce nel rapporto dell’ io con l’ atto che compie. Pur riconducendo l’ intero processo evolutivo all’ unità fondamentale di un’ evoluzione cosmica che si riassume nella durata, Bergson non rinuncia a interrogarsi sulla morale e la religione, le forme attraverso le quali l’ umanità si avvicina sempre più allo slancio creatore. L’ indagine intorno alla condotta umana consente di rilevare due sorgenti originarie: l’ una conduce a una morale chiusa (statica, frutto di pressione sociale), l’ altra a una morale aperta (animata da uno slancio sconfinato di carità). Alla base di una morale completa e perfetta c’ è una chiamata, che attiva un movimento controcorrente: qui l’ obbligazione ricompare nella forma di uno slancio, senza mediazioni sociali. L’ opera di Bergson diventa un punto di riferimento importante per le filosofie che professano il primato della vita spirituale. Le istanze etico-metafisiche che definiscono tale atmosfera spiritualista sono fatte confluire nell’idea di persona grazie all’opera di Mounier (1905-1950) e Maritain (1882-1973). L’opera di Mounier assume il tema della persona come termine ideale di un approfondimento filosofico e di una mobilitazione culturale e politica. Secondo Mounier, con “la comparsa del singolare” si apre una prospettiva nuova per la riflessione filosofica. Il personalismo è una filosofia, non solo un atteggiamento. Per un verso il personalismo offre una matrice filosofica cui si ispira ogni atteggiamento anti-ideologico, per altro verso Mounier ne ricava un percorso di espansione dinamica della persona, come “essere in senso vero”, anche se non “in senso pieno”, che deve svilupparsi secondo tre vettori spirituali: l’incarnazione come tensione che sale dal basso, la vocazione come innalzamento a un universale, la comunione come allargamento ad una comunità più ampia. Per crescere secondo questo “volume totale”, si richiedono tre esercizi essenziali: impegno come riconoscimento della propria incarnazione, meditazione per la ricerca della vocazione, rinuncia come iniziazione al dono in sé. L’autenticità della vita morale scarta sia il premorale, cioè l’automatismo impersonale dell’istinto, sia la moralità mistificata, che prolunga le costrizioni sociali. Per questo, la vita morale è costantemente accompagnata dall’inquietudine e dal dramma della libertà; l’etica dell’impegno personale e comunitario vive in questa tensione fra la coscienza inquieta dei nostri limiti e la fedeltà assoluta ai valori che sono in gioco. Il pensiero di Maritain può invece considerarsi personalista solo in senso lato, in quanto assume il tema della persona soprattutto come criterio di valutazione sul terreno etico-politico, entro una più ampia e organica prospettiva metafisica. Maritain legge in modo circolare il rapporto tra sapere speculativo e sapere pratico: il primo muove dai sensi per innalzarsi alla conoscenza metafisica dell’essere; il sapere pratico segna il ritorno dall’essere astratto a quello concreto dando vita ad un ordine concreto, sul quale vigila la virtù della prudenza, che coniuga il piano intellettuale e quello morale. Il bene, infatti, è l’essere in quanto posto dinanzi all’amore e al volere, così come la verità è l’essere in quanto posto dinanzi al conoscere. La ragione pratica assegna quindi un ambito di relativa autonomia alla morale, la quale rimanda a un piano superiore di vita etica, che si consegue grazie all’esercizio delle virtù teologali. In questa prospettiva l’autonomia della persona non è mai assoluta, ma si realizza progressivamente mediante l’interiorizzazione della legge. La persona umana è un essere ordinato a Dio come al suo fine ultimo, costituito da una natura relazionale: da qui il compito di comunicare con gli altri nell’ordine dell’intelligenza e dell’amore; un compito vincolato alla promozione del bene comune e aperto ad una vocazione sovra-temporale.
In quanto dimensione primaria della vita morale, l’attenzione alla responsabilità non contraddistingue soltanto il pensiero del Novecento, dove, tuttavia, viene messa più intensamente a tema. Non è un caso che siano soprattutto pensatori ebraici ad intercettare l’appello alla responsabilità, che nel secondo dopoguerra diviene particolarmente acuto. In questo contesto si può anche collocare il pensiero di Martin Buber (1878-1965), secondo cui non c’è vita reale senza un incontro dialogico fra un “io” e un “tu”. Nello scarto fra il primo tipo di rapporto (io-esso) e il secondo (io-tu) emerge la differenza etica della responsabilità. Diversamente orientata è invece la ricerca di Levinas (1906-1995), che scaturisce da un radicale rovesciamento del rapporto tra l’io e l’altro. L’emergere del soggetto, nel passaggio da un’esistenza impersonale all’io come esistente, e possibile solo attraverso l’abbandono dell’intenzionalità. Rinunciando alla tutela della mediazione intenzionale e di un’ontologia generale, ogni incontro emerge come un’irruzione originaria che sconfigge la solitudine del soggetto. Dall’oggettivazione dell’altro si passa all’incontro con l’assolutamente altro, o “Altri”. Nella radicale separazione fra il soggetto e l’Altro, si consuma la rottura della totalità. Una differenza senza fondo si spalanca tra l’uno che sono io e l’altro di cui rispondo: la responsabilità è precisamente il nome di questa non-indifferenza. Levinas avvicina responsabilità e giustizia, dilatando lo spazio relazionale alla figura del terzo, che impone una giusta comparazione tra incomparabili. Ed è proprio dalle esigenza etica di rendere giustizia al terzo che nasce lo spazio sociale delle istituzioni, della politica, del diritto. L’etica della responsabilità di Jonas (1903-1993), matura attraverso un percorso diverso. La “filosofia pratica” di Jonas è impegnata ad esplicitare il nesso tra etica e ontologia, sviluppato attraverso una denuncia dei pericoli della civiltà tecnologica, che cancella ogni differenza tra naturale e artificiale, segnando il trionfo dell’homo faber sull’homo sapiens. rispetto all’inadeguatezza dell’etica tradizionale, occorre coniugare un’ “euristica della paura”, che riconosca una priorità metodica alla previsione cattiva su quella buona, con un principio di responsabilità oggettiva nell’azione, che possa farsi carico anche delle conseguenze a lungo termine. Secondo questa etica del futuro la possibilità di preservare l’integrità della natura umana dipende dalla cura della sua vulnerabilità presente. Jonas si chiede quale possa essere lo scopo di tutti gli scopi, individuandolo nel futuro della vita sulla terra. L’essere umano, essendo in grado di totalizzare l’universo dei fini, è tenuto a rispondere del proprio agire, in nome di un’irrevocabile ipoteca etica. All’uomo compete un primato non in termini di potere, ma di responsabilità. Tale responsabilità prescinde da qualsiasi scambio utilitaristico, anzi aumenta progressivamente verso gli individui più fragile e vulnerabili. Essa non implica solo un dovere di tutela nei confronti del singolo vivente, ma include un dovere verso le generazioni future. In tale prospettiva, la responsabilità educativa e politica debbono integrarsi e bilanciarsi reciprocamente, evitando gli estremi di un assoluto potere parentale e di un imposizione autoritaria. Sia in Levinas che in Jonas l’’etica della responsabilità sprigiona la sua forza imperativa in uno spazio che appare sciolto da qualsiasi riferimento antropologico. Rispetto al valore intrinseco del fenomeno della vita, minacciata dalla civiltà tecnologica, la responsabilità appare soprattutto come la risposta di un individuo biologico sui generis, costituito come soggetto etico da un eccesso di potere, in conseguenza di una svolta quasi improvvisa nel destino della natura.
Nel 1923 si costituisce a Francoforte l’Istituto per la ricerca sociale, anche con l’intento di offrire al marxismo il contributo di rigorose indagini sociali. Nel 1930 è chiamato a dirigerlo Horkheimer (1895-1973). Quest’ultimo e Adorno (1903-1969) si chiedono perché l’umanità invece di entrare in uno stato veramente umano, sprofondino in un nuovo genere di barbarie. La crisi della ragione si trasforma in crisi dell’individuo e in ribaltamento delle promesse di libertà. Dinnanzi a tale esito e nell’impossibilità di elaborare un’etica razionalmente fondata su un dominio eterno di valori, Horkheimer recupera l’idea kantiana dell’uomo come fine in sé; valorizza il sentimento morale e in particolare il tema schopenhaueriano della compassione, capace di custodire un senso di solidarietà nel tramonto dei valori. Anche Erich Fromm (1900-1980), che collabora con l’Istituto, analizza le conseguenze dell’idea moderna di libertà come autonomia, rappresentate da un senso di spaesamento e solitudine morale; nonostante il dominio sulla natura, l’uomo non appare in grado di controllare le forze della società che egli stesso a creato. Nell’ambito della rinascita novecentesca della filosofia pratica, accanto a una rilettura di Aristotele, si sviluppa anche un confronto con Kant finalizzato all’elaborazione di un’etica della comunicazione. In tale prospettiva Abel (1922) elabora una “pragmatica trascendentale”, recuperando l’attenzione al linguaggio propria del pensiero ermeneutico. La prassi comunicativa presuppone delle condizioni di validità universali e necessarie a priori: chi parla, se non vuole cadere in una contraddizione performativa, deve accettare comprensibilità, verità, sincerità, correttezza. Anche secondo Habermas una concreta attività comunicativa non può essere separata dalle pretese di validità che la giustifica. Su questa base Habermas riconosce nella comunicazione linguistica un orientamento all’intesa reciproca che si realizza tra un parlante e un ascoltatore; tale intesa implica tre pretese di validità: correttezza, verità, veridicità. Comunicare significa dunque impegnarsi in una azione corretta in rapporto al contesto; vera, cioè corredata da presupposti di esistenza; veridica, tale da manifestare il vissuto del parlante affinché l’uditore gli presti fede. Questo sfondo è posto da Habermas alla base della sua etica del discorso, che intende giustificare le norme morali secondo una procedura argomentativa, culminando in un principio di universalizzazione, secondo il quale tutti i partecipanti si dispongono ad accettare liberamente le conseguenze derivanti dall’osservanza universale della norma morale, abbandonando la ricerca del proprio interesse. Le norme hanno valere prescrittivo, ma possono essere considerate come vere e proprie rivendicazioni di verità, certificate attraverso un discorso reale. Per coltivando temi e interessi parzialmente diversi rispetto a Habermas, l’opera di Rawls (1922-2002) segue un percorso in qualche modo complementare: Habermas assume il valore dell’uguaglianza cercando di aprirlo alle istanze della libertà individuale attraverso la teoria dell’agire comunicativo; Rawls cerca di coniugare il tema della libertà e dei diritti individuali con un principio di uguaglianza, costruendo una procedura che conduca a principi normativamente vincolanti per tutti, attraverso un accordo fondato sul vantaggio reciproco, capace di farsi carico dei più svantaggiati. Il pluralismo è la sfida, una reciprocità garantita dalla giustizia è la risposta. Torna quindi in primo piano il rapporto tra autonomia e norma. Rispetto alla tematizzazione della giustizia come abito virtuoso, tipica della tradizione morale, Rawls elabora una nozione politica di giustizia come qualità delle istituzioni e delle procedure, disancorata da qualsiasi idea del bene. Attraverso un artificio espositivo si può identificare una posizione originaria: essa è caratterizzata da una condizione di perfetta uguaglianza tra persone morali, chiamate a scegliere sotto un velo di ignoranza tale da escludere la conoscenza delle proprie condizioni (ad esempio essere ricco o povero), che influenzerebbero le scelte, diventando fattori di disaccordo. Rawls considera l’autonomia razionale dei cittadini come un valore politico più che etico; la dimensione morale propriamente detta resta tuttavia sullo sfondo, come presupposto della vita politica. Egli si apre a una visione della persona come essere non solo razionale, astrattamente capace di scelta in una posizione originaria, ma anche ragionevole, cioè attento ai diversi progetti di vita e disposto a coinvolgersi socialmente in termini di equa cooperazione. Dietro l’istanza tipicamente moderna di distinguere fra etica e politica, l’ethos della vita pubblica appare come una forma di irrinunciabile mediazione storica fra le due sfere. Anche se da lontano, l’etica continua ad ispirare la riflessione della giustizia fra libertà e uguaglianza.