Queste mie riflessioni nascono dalla lettura del libro “Estetica” di Paolo D’Angelo (2011, edizioni Laterza).
Il libro prende le mosse da un gioco di immaginazione proposto provocatoriamente da William E. Kennick che invita il lettore a fantasticare di trovarsi in un grande magazzino dove gli viene chiesto di prelevare solo le opere d’arte.
Se inizialmente il gioco può sembrare abbastanza semplice, dirigendosi verso statue, dipinti e libri di letteratura, ad un certo punto non si sa bene come comportarsi con l’artigianato etnico, con l’arredamento di design o con il brano jazz che viene eseguito dal sassofonista sulla terrazza. Quindi, quali strumenti utilizzare per capire cosa è e cosa non è arte?
Il design è arte?
Tutte le opere d’arte sono oggetti? E cosa dire, allora, della performance musicale?
Non è affatto semplice rendere conto dell’estetica, una disciplina che, a quasi trecento anni dalla sua fondazione, continua ad avere uno statuto epistemologico quanto mai incerto. Tanto più che di arte, bellezza e gusto si discute da più di duemila anni. D’Angelo cerca di fare un po’ di chiarezza a questo proposito, tramite l’estetica come filosofia della percezione, come filosofia dell’arte, come teoria della bellezza, come teoria dell’esperienza, come filosofia della storia dell’arte.
La pars destruens del testo muove dalla considerazione che la finalità dell’estetica non può essere la definizione dell’arte, e argomenta contro le principali tesi della filosofia analitica.
E’necessario operare una netta distinzione tra proprietà estetiche in quanto tali e proprietà semplicemente sensibili.
Per dire che un fiore è bianco (proprietà sensibile) basta avere gli occhi. Ma se diciamo, di quel fiore, che è di un bianco “virginale”, allora attribuiamo a esso una proprietà estetica.
Le proprietà estetiche, a dispetto dell’etimologia (estetica, aisthesis: percezione) e di quanti considerano l’estetica solamente una teoria della percezione, non coincidono con le proprietà sensibili, pur essendovi spesso legate.
Quando, poi, attribuiamo una proprietà estetica a un qualsiasi oggetto esprimiamo la nostra soggettività; compiamo dunque una inevitabile scelta di natura valutativa, di gusto che non sempre è condivisa dagli altri.
Nella pars construens, le argomentazioni di D’Angelo offrono una lettura trasversale dell’intera storia dell’estetica, ruotando attorno al concetto di esperienza estetica. Alla luce dell’esperienza estetica – e in netto contrasto con le varie ontologie dell’arte – parlare della fruizione delle opere d’arte come di meri oggetti è molto riduttivo.
Inoltre, non ha senso limitare l’esperienza estetica alla sola arte, perché possiamo attribuire proprietà estetiche anche a un paesaggio naturale.
E nemmeno ha senso parlare di bellezza, il più fuorviante dei luoghi comuni sull’estetica: perché la qualità di un’esperienza provata di fronte a un fatto naturale o artistico non dipende né dal bello né dal brutto, ma dal nostro sentirci appagati al cospetto di tale visione.
L’esperienza estetica è, infatti, un evento che scaturisce dalla relazione tra una soggettività e un oggetto estetico, sia esso una sinfonia, un tramonto o un film horror.
Perciò è più corretto usare la voce «apprezzamento» invece di «piacere» estetico per definire il nostro sentire l’arte.
Quanto all’arte, essa crea un duplicato di esperienza, ad uso e consumo dell’immaginazione: ci coinvolge cognitivamente ed emotivamente, benché le conoscenze e le emozioni immaginative siano diverse da quelle reali. Tale attitudine estetica persegue, sin dai tempi dei graffiti rupestri, lo scopo evolutivo di insegnarci a vivere simulando la vita stessa.
L’arte, allora, è, semplicemente, quel che è: «Una forma di arricchimento, intensificazione e ampliamento del l’esperienza comune».
L’ Estetica è “filosofia dell’arte”?
L’’estetica si configura come quella parte della filosofia che riflette sulla natura le funzioni e i destini dell’arte, prende cioè in considerazione quei particolari prodotti che sono le opere d’arte discernendo ciò che é arte da ciò che non lo é.
Kennick ( il tale del gioco iniziale) è un esponente della filosofia analitica che, almeno nelle sue origini intende il proprio compito come quello di una chiarificazione linguistica dei problemi filosofici.
Tuttavia, buona parte dell’estetica analitica ha preso la forma di una filosofia critica dell’arte (infatti, come la teoria della conoscenza o l’epistemologia analizzano i discorsi delle varie scienze, così l’estetica mira a fare altrettanto in rapporto alle discipline critiche che hanno ad oggetto le varie arti.
Intendere l’estetica come filosofia dell’arte comporta come conseguenza più facilmente afferrabile il fatto che non si riconosca tra i suoi oggetti quello che è stato per molti secoli il terreno deputato all’esperienza estetica, la bellezza naturale: nell’estetica analitica per molto tempo si è trascurato questo versante, dimenticando che si possono fare esperienze estetiche anche nella natura,e non solo di fronte all’arte.
Kant è stato l’ultimo filosofo per il quale si poteva discutere di bellezza davanti a un fiore e un animale e non solo davanti a un’opera d’arte. Dopo di lui i filosofi del Romanticismo e dell’Idealismo hanno ristretto con sempre maggior convinzione al bello artistico, l’oggetto proprio dell’estetica: “dottrina dell’arte” è stata infatti la denominazione allora adottata.
Lo spostamento verso la filosofia dell’arte va di pari passo con il processo di sacralizzazione ed enfatizzazione del ruolo della grande arte che ha luogo con Romanticismo e si consolida nel corso dell’Ottocento: l’arte è ben più di un prodotto della cultura umana, è una via di accesso privilegiata alla conoscenza ed alla filosofia.
Anche le avanguardie artistiche del Novecento sembrano ancora pienamente prigioniere di questo paradigma che esalta la funzione dell’arte: esse assegnano alle arti un ruolo propulsivo e la capacità di cambiare la stessa vita sociale.
“Estetica” è un nome artificiale. A coniarlo è stato il filosofo ALEXANDER BAUMRGARTEN, che lo utilizza per la prima volta nel 1735 in un’ opera , Riflessioni sulla poesia nella quale avanza l’idea che così come esiste una scienza dei contenuti mentali, ovvero la logica, dovrebbe esistere una scienza dei dati sensibili della conoscenza, che andrebbe chiamata estetica.
Egli parte dagli studi di LEIBNIZ , secondo il quale non vi è distinzione radicale tra sensibilità e intelletto, bensì una scala ascendente che prevede una progressiva distinzione delle note caratteristiche dell’oggetto. Le nostre conoscenze possono essere, allora, oscure o chiare.
Le conoscenze chiare a loro volta possono essere confuse e distinte, ma ci possono essere conoscenze chiare e confuse, oppure chiare e distinte.
Le prime sono le conoscenze sensibili, le seconde quelle intellettuali o razionali.
Per Leibniz la conoscenza sensibile è chiara e confusa, quella intellettuale é chiara e distinta (tra le due non c’é nessuno iato, ma un percorso ascendente).
Baumgarten si basa su queste articolazioni per sostenere che è possibile una scienza della conoscenza sensibile (scientia sensitive quid cognoscendi), simmetrica alla scienza che conosce i contenuti chiari e distinti: è possibile una estetica, accanto a una logica.
Quando la conoscenza sensibile è perfetta abbiamo la BELLEZZA, la perfezione della conoscenza sensibile in quanto tale.
Sebbene il termine estetica incontrasse subito una qualche fortuna in Germania, non si può dire che abbia avuto diffusione immediata: KANT, per tutta la Critica della ragion pura, lo utilizza nel senso di una dottrina della sensibilità: l’estetica trascendentale é quella parte della prima Critica nella quale si tratta del tempo e dello spazio come forme attraverso le quali transita qualsiasi sensazione noi proviamo.
Nella critica del giudizio, Kant utilizza invece il termine “estetico” , intendendo ciò che ha a che fare con il sentimento di piacere o dispiacere provato dal soggetto.
Nel frattempo però la distinzione tra estetica da un lato e filosofia o teoria dell’arte dall’altro, era stata riattualizzata in Germania da KONRAD FIEDLER che riteneva che le due denominazioni dovessero attribuirsi a due cose diverse, e praticamente senza rapporto tra di loro, l’estetica essendo la disciplina che si occupa delle cose che dilettano e aggradano ai sensi, e come tali vengono considerate belle, mentre l’arte è un esperienza che va ben oltre la pura sfera del sensibile e non è affatto ristretta alla rappresentazione di cose che hanno il carattere del bellezza.
Questa diffidenza verso il termine “estetica” serpeggia ancora nella filosofia analitica, di pari passi con il predominare in essa dell’idea dell’estetica come filosofia dell’arte.
In un filosofo come DANTO è palese la convinzione che quel che vale la pena costruire è una filosofia dell’arte che rinuncia a considerare necessari per l’opera d’arte proprio gli aspetti estetici, cioè sensibili, dato che in primo luogo l’opera d’arte è quel che sappiamo, e non quel che sentiamo. Tutto il resto, cioè le sensazioni piacevoli riguardano l’arte di massa, il cattivo gusto, la vita quotidiana.
L’estetica di orientamento analitico reputa che l’estetica sia una “filosofia dell’arte”, l’estetica di tipo continentale (soprattutto italiana e tedesca) ha riattualizzato la veduta baumgarteniana dell’ estetica come filosofia del senso o della sensibilità.
GARRONI, ha sostenuto che l’estetica non può essere una filosofia dell’arte (l’arte non può essere circoscrivibile), bensì una “filosofia del senso”, cioè una condizione sentita e non appresa intellettualmente, del nostro conoscere in genere.
Sulla stessa scia si è mosso FERRARIS che, rifacendosi alle tesi di Baugarten , riteneva che l’estetica solo accidentalmente si fosse orientata su qualcosa, l’arte, che con la sensazione non è prioritariamente collegata.
In Germania invece, troviamo le figure di WELSCH e MARTIN SEEL (secondo cui l’estetica è una teoria dell’apparire o delle apparenze, cioè della conformazione sensibile di un oggetto percettivo) e BOHME, che riteneva che la nostra percezione fosse una percezione non tanto di cose, ma di atmosfere (in questo caso, l’arte è solo uno dei referenti dell’estetica, dato che assai più legate alla nozione di atmosfera sembrano la percezione della natura o le esperienze della vita quotidiana).
L’Estetica è “teoria della sensibilità”?
Sia l’estetica come “filosofia dell’arte” sia come “studio della sensazione”, risentono di alcune critiche: anche se la filosofia potesse fare una buona teoria della sensazione o della percezione,di per sè questo non escluderebbe che essa si possa anche occupare dei fenomeni artistici o della bellezza naturale.
Tuttavia resta il fatto che una teoria della sensazione non esaurisce quel che c’è da dire sull’arte o sulla bellezza naturale: certamente le opere d’arte sono apprese attraverso i sensi e, come diceva Kant, se fossimo solo esseri razionali, dell’arte non sapremmo che farcene (ma anche se fossimo esseri puramente sensibili, aggiungeva, ne avremmo altrettanto poco bisogno).
Il punto debole della teoria delle atmosfere sta nel fatto che proprio perchè è vero che percepiamo sempre atmosfericamente, risulta controintuitivo pensare che percepire atmosfericamente sia percepire esteticamente.
Molto più accettabile risulta pensare che non tutte le sensazioni sono esperienze estetiche.
Inoltre, non tutte le esperienze estetiche sono esperienze sensibili o percettive.
Sui Predicati estetici.
Altra prova del fatto che l’estetica non sia una “scienza generale della sensibilità”: se tutti giudizi che chiamiamo estetici fossero giudizi dei sensi e se tutti i giudizi dei sensi fossero giudizi estetici, allora non vi sarebbe differenza tra predicati estetici e predicati sensibili.
Se dico che un fiore è rosso, che ha i petali chiusi, che ha uno stelo sottile ed è sgargiante, intatto virginale ecc. dobbiamo riconoscere il fatto che i predicati in corsivo non seguono la stessa logica degli altri predicati: i primi sono sì termini estetici, ma solo etimologicamente, perché hanno a che fare con la nostra percezione del sensibile. Quelli sottolineati sono estetici perché hanno a che fare con il nostro modo di reagire a certi oggetti e di considerarli soddisfacenti o insoddisfacenti (si noti a tal proposito come allora nel suo esperimento, Kennick non faccia alcuna differenza tra predicati sensibili e predicati estetici).
Possiamo dunque concludere che NON TUTTI I GIUDIZI DEI SENSI SONO GIUDIZI ESTETICI.
Meno ovvia appare la proposizione inversa, e cioè che ci sono giudizi estetici che non sono giudizi del senso.
Per dimostrare che ci sono proprietà estetiche che non sono proprietà sensibili, abbiamo evitato di ricorrere alle proprietà intenzionali e a quelle relazionali: le proprietà intenzionali sono quelle proprietà che possono essere colte soltanto facendo riferimento alle intenzioni dell’autore, quelle relazionali sono tutte quelle proprietà che un’opera d’arte (ma anche un oggetto qualsiasi) possiede per i suoi rapporti con gli altri oggetti, con persone, con il proprio tempo o con opere del passato. Quanto le proprietà relazionali siano importanti nella nostra considerazione delle opere d’arte, e in generale nella nostra esperienza estetica, si può capire già dal fatto che alcuni degli aggettivi più comunemente usati nei giudizi estetici sono di questo tipo. E quanto più le proprietà direttamente sensibili di un’opera d’arte possano contare poco rispetto a quelle non sensibili è dimostrato,infine, da alcuni casi di opere che hanno i caratteri sensibili straordinariamente vicini, eppure vengono descritte e valutate con predicati (non sensibili) profondamente diversi, se non addirittura antitetici.
Predicati estetici e le loro basi fisiche.
Uno dei motivi che rendono poco chiara la distinzione tra proprietà estetiche e proprietà sensibili è rappresentato dal fatto che se risulta poco convincente pensare che le proprietà estetiche non siano altro che proprietà sensibili, pensare che le proprietà estetiche non abbiano rapporto con quelle sensibili risulta ancora più in contrasto con il senso comune: i dati sensibili, quelli che chiunque possieda la vista è in grado di vedere, non saranno dunque le proprietà estetiche, ma indubbiamente intrattengono con queste un rapporto inaggirabile.
Il problema sta nella definizione di questo rapporto.
Secondo la Tesi realista le proprietà estetiche sono indipendenti dal giudizio del soggetto
Per Frank Sibley le proprietà estetiche dipendono dalle proprietà non estetiche, ovvero i dati sensibili. Se variano le proprietà strutturali, variano anche le proprietà estetiche, quindi fra queste ultime e le prime c’è una relazione di dipendenza e covarianza, ma la relazione tra le une e le altre non può essere fissata in condizioni positive di applicazione, al massimo, solo in condizioni negative.
Da ciò si può concludere che il giudizio sulle proprietà estetiche dipende sempre da casi singoli e non è mai elevabile ad un giudizio su di una classe di oggetti (es. non esiste una classe di oggetti graziosi, o una classe di oggetti leziosi o sdolcinati).
Le proprietà estetiche possono essere definite proprietà terziarie, le quali non sono mente-dipendenti, ma richiedono per essere apprezzate, una capacità ulteriore rispetto a quella che consente di percepire le qualità secondarie ( Le proprietà primarie sono quelle indipendenti dalla mia percezione e sono riformulabili in maniera oggettiva, mentre le proprietà secondarie -es colore- sono relative alla mente che le percepisce).
Il rapporto tra le qualità terziarie e secondarie riassumibile nelle caratteristiche della non riducibilita, della dipendenza (le proprietà terziarie dipendono da quelle sensibili), e della covarianza (le proprietà estetiche variano al variare delle proprietà secondarie) viene spesso riassunto dicendo che le proprietà estetiche sopravvengono su quelle sensibili, ossia emergono da quelle non estetiche.
Che cosa rende estetici i predicati estetici?
Noi possiamo impiegare i termini estetici in riferimento a diversi manufatti, anche non dichiaratamente artistici, a paesaggi ed enti naturali, oltre che a poesie, pitture, films e lavori teatrali.
La proposta iniziale di Sibley è stata quella di considerare estetici quei termini che richiedono per essere utilizzati una facoltà speciale, ovvero il gusto, che va appunto oltre la semplice capacità di registrare i dati dei sensi e manifesta una capacità di discernimento superiore all’ordinario.
Questa tesi, ovvero che i predicati estetici sono quelli che richiedono gusto per essere applicati sembra cadere appieno nella circolarità: i predicati estetici sono quelli che richiedono gusto per essere impiegati, e il gusto è la capacità di impiegare i termini estetici. Altrettanto insoddisfacente risulta il tentativo di chi ha ridotto ad una semplice sottoclasse delle qualità estetiche le proprietà di gusto, emotive, affettive e comportamentali.
Allora, risulta più produttivo riflettere sulla presenza, all’interno dei predicati estetici, di predicati valutativi, ovvero i predicati che non hanno un uso non estetico come bello, brutto, elegante. Rispetto ai termini di pura approvazione o disapprovazione, descrivono valutando e valutano descrivendo, come risulta chiaro dal fatto che mentre i primi sono intercambiabili, cioè riferibili a qualsiasi oggetto o evento, i secondi non lo sono (non ogni opera d’arte può essere sublime o graziosa!).
In ogni caso, una caratteristica del lessico estetico sembra essere la capacità di conferire un aspetto valutativo ad una gamma di termini ampia, persino quando essi non sembrano aver nessuna disposizione particolare ad essere impiegati in questa accezione. La disponibilità ad essere usati valutativamente è al massimo una condizione necessaria, ma non sufficiente perché un termine sia riconosciuto come estetico, dato che vi sono altri termini valutativi che non hanno a che fare con l’estetica. Bisogna trovare un ulteriore criterio di identificazione. Per ora notiamo, accanto al suo impianto valutativo, un altro carattere del lessico estetico, la sua incontornabilità.
Il giudizio estetico è solitamente un giudizio comparativo, e lo è sempre in maniera implicita, dato che viene proferito sulla base di un confronto con opere paragonabili; nella scelta estetica, che è dunque solitamente un giudizio preferenziale, i criteri entrano quindi secondo principi che andranno definiti, e che non sono quelli che seguiamo quando si tratta di conoscere come è fatto qualcosa, come funziona e così via. Tra i criteri, che sono per lo più indicati dai predicati estetici, non rientra evidentemente proprio l’unico sul quale Kennick si sofferma, cioè la definizione dell’arte. L’esperimento di Kennick sembra dare per scontata una situazione che è stata vera nel passato quando era facile stabilire, a uno sguardo superficiale, se qualcosa era o non era arte, mentre è del tutto chimerica in un’epoca nella quale le opere d’arte sembrano fare di tutto per dissimulare il loro essere opere d’arte.
A questa situazione si è cercato di trovare una via di uscita fornendo un criterio di identificazione delle opere d’arte mediante una definizione dell’arte che fosse anche operativa, cioè che permettesse di decidere se qualcosa è arte o no. Rispetto alle definizioni tradizionali dell’arte come imitazione,espressione,conoscenza, le nuove definizioni apparivano più ambiziose, sobrie, dimesse. Le nuove definizioni prescindevano da qualsiasi valutazione dell’arte, mirando ad appurare semplicemente se qualcosa sia arte o no, indipendentemente dal valore dell’opera.
Come definire l’arte?
Quello della definizione dell’arte è sembrato il problema centrale di ogni estetica.
All’origine di questo dibattito si trova il diffuso scetticismo che era subentrato nella filosofia influenzata dal pensiero di Wittgenstein circa la possibilità di fornire una definizione dell’arte sulla base di condizioni necessarie e sufficienti.
L’arte, si argomentava, possiede tra i suoi caratteri salienti quello di essere un concetto aperto, cioè continuamente incrementato dall’apparire di nuove opere,forme,tendenze.
Presumere di poterne afferrare l’essenza racchiudendola in un numero finito di proprietà significa tradire proprio quell’aspetto creativo e innovativo dell’arte che sembra costituirne il tratto più caratteristico. Nel tentativo di aggirare l’ostacolo così presentato, si è obiettato che non necessariamente l’aspetto comune delle opere d’arte deve essere una qualche caratteristica manifesta potendo trattarsi di una proprietà relazionale, non visibile.
Weitz aveva paragonato il concetto di arte alla nozione di gioco in Wittgenstein e aveva sostenuto che anche tra le opere d’arte,come tra i giochi, sussistono delle somiglianze di famiglia.
In pratica alle definizioni funzionali che definiscono l’arte sulla base dello scopo che essa vuole raggiungere,si sono venute sostituendo le definizioni procedurali, basate cioè sui procedimenti messi in opera per riconoscere a qualche oggetto la qualifica di artisticità.
Le teorie procedurali permetterebbero insomma di capire se qualcosa è arte indipendentemente dal suo valore. Un esempio di questo tipo di teoria è la teoria istituzionale dell’arte di George Dickie, all’interno del quale gioca un ruolo importante la nozione di “mondo dell’arte”: l’arte è da intendersi a) un artefatto,
b) un insieme delle proprietà del quale ha fatto sì che gli venisse conferito lo status di candidato al’apprezzamento da una o più persone che agiscono per conto di una determinata istituzione sociale.
“Mondo dell’arte” (espressione coniata da Danto) è innanzitutto un mondo di idee, pensieri e teorie sull’arte, un mondo senza teoria e senza divenire, dove tutto lascia pensare che una volta raggiunto lo status di artisticità non si possa più tornare indietro, e che il riconoscimento di un oggetto come opera d’arte non sia legato a condizioni variabili nel tempo.
Per contro, Levinson ha proposto una definizione storica-intenzionale dell’arte: ciò che consideriamo oggi come arte dipende da quel che abbiamo considerato arte in precedenza.
Perchè qualcosa sia arte, deve essere concepita come tale da chi l’ha prodotta.
Se il lavoro dell’artista che produce l’opera non comportasse un legame cosciente con almeno alcune delle opere d’arte precedentemente prodotte, non potremmo dire che quella che sta attualmente producendo è arte.
Secondo Dickie, se so che cos’è un mondo dell’arte, so già cos’è arte, e viceversa. Qualcosa è arte perché qualcun altro ci dice che lo è. Ma allora ciò che vorremmo sapere è proprio perchè lo fa, sulla base di quali convinzioni, di quali scelte.
La teoria istituzionale riesce ad essere così apparentemente priva di condizioni restrittive e valutative solo perché scarica il peso delle scelte e delle valutazioni ad altri.
Per Levinson, per sapere cosa è arte in un determinato tempo storico devo già sapere che cosa veniva considerato arte in un momento precedente.
Tuttavia, a differenza della teoria di Dickie, questa teoria riserva un ruolo centrale alle intenzioni con le quali un determinato oggetto è stato prodotto, e con ciò si avvolge in ulteriori problemi.
Altro problema è dato dal fatto che le opere d’arte sono state considerate in molti modi diversi, che spesso hanno poco a che vedere con la loro artisticità.
Levinson si vede allora costretto ad aggiungere che ciò che conta sono i modi di guardare “correttamente” ad un’opera d’arte, e la vaghezza di questa espressione ci ricorda vaghezza del termine “apprezzamento in Dickie”. Evidentemente non basta apprezzare qualcosa perchè la nostra considerazione sia corretta e diventi costitutiva dell’artisticità dell’oggetto in questione: deve trattarsi di un apprezzamento e di una considerazione che si rivolga soprattutto all’aspetto artistico dell’opera.
Fare esperienza dell’arte
Per sapere se qualcosa è o non è arte, bisogna fare esperienza dell’arte, e un giudizio di artisticità pronunciato senza fare esperienza dell’arte non è nulla di serio. I caratteri di questa esperienza si manifestano anche nell’incontro con opere meno complesse, che richiedono un coinvolgimento minore e con le quali possiamo fare un tratto di strada più breve.
Se ci chiediamo quali siano gli aspetti del nostro comportamento che vengono attivati dall’esperienza estetica, sembra inevitabile notare che di fronte all’opera d’arte mettiamo in atto attitudini conoscitive ed emotive.
L’antica teoria dell’imitazione legava l’attività imitativa alla conoscenza, alla soddisfazione che proviamo nel conoscere e nel riconoscere; Croce legava l’estetica alla conoscenza intuitiva
dell’individuale e ancora, per i teorici come Nelson Goodman, l’arte è essenzialmente un modo di vedere il mondo, anzi una delle forme attraverso le quali lo costruiamo. L’orientamento cognitivista, ossia quello che vede nell’arte una forma di conoscenza, è presente in tutte le epoche e nelle tendenze più diverse.
Quando l’idea dell’imitazione comincia a perdere terreno, nel corso del Settecento, e poi entra in crisi con il Romanticismo, non a caso è l’idea dell’arte come espressione e manifestazione di sentimenti a prendere il suo posto.
Per i romantici vale il paradigma espressivo dell’arte (Collingwood negli anni Trenta del Novecento ha elaborato una teoria dell’arte come espressione).
Negli ultimi anni abbiamo assistito al ritorno dell’estetica dell’empatia cioè di quella teoria elaborata nella seconda metà dell’Ottocento che tendeva a vedere nell’attività estetica un lavoro di proiezione degli stati d’animo interni nelle forme esterne a noi.
Ci si potrebbe chiedere se abbia certamente senso una distinzione così netta tra conoscenza ed emozioni, o se non si più giustificato e più aderente alla realtà notare che le nostre conoscenze sono sempre emotivamente connotate e che i nostri sentimenti hanno sempre alla base una conoscenza di stati di fatto.
Si può fare a meno dell’esperienza estetica?
Dicendo che l’esperienza estetica è insieme emotiva e cognitiva non sembra però che compiamo un grande passo in avanti: si può obiettare che tutte le nostre esperienze sono emotive o cognitive, e spesso le due cose insieme, e quindi non abbiamo trovato nulla che distingua l’esperienza estetica dalle altre esperienze.
Inoltre, si potrebbe incorrere nel rischio di identificare l’esperienza estetica con l’esperienza artistica e di non considerare il fatto che -per alcuni- l’esperienza estetica non abbia alcuna specificità e sarebbe connessa con l’avvento della società borghese moderna.
Questa obiezione all’identificabilità di un’esperienza estetica è stato formulato da alcuni studiosi marxisti come Eagleton, che vede nell’estetico una sorta di collante sociale, mediante il quale la nascente borghesia attenua il rigorismo del potere assoluto del sovrano e Bordieu, che ravvisa nell’estetico un segnale di differenziazione sociale che serve a marcare una diversità di accesso al capitale culturale.
Ancora, i Cultural Studies ritengono che il discorso estetico è sempre un esercizio del potere culturale, che copre interessi concreti di egemonia, in campo sociale, di genere, o nei rapporti tra culture diverse. A questa negazione dell’esperienza estetica si potrebbe rispondere a vario modo: ad esempio si può osservare che essa risulta incapace di spiegare il perché esistano termini estetici nell’uso quotidiano. L’approccio alle opere d’arte in molti saggi riconducibili ai Cultural Studies si risolve in generalità sociologiche, tanto che non si capisce più perché dovremmo chiedere all’opera d’arte quello che potremmo ottenere un maniera più chiara e diretta attraverso l’indagine sociale o quella antropologica.
Infine, tutti questi orientamenti danno per sicuro proprio quello che dovrebbe essere dimostrato, ossia che l’esperienza estetica si manifesta soltanto quando se ne comincia a dare la teoria, lasciando aperto il problema di come giustificare quei comportamenti che ci appaiono retrospettivamente estetici anche se prodotti da società e culture che non possedevano una teoria estetica.
Il primo tipo di obiezione, quello che accetta che si parli solo di artisticità e non di esteticità, appare più ristretto, ma non meno insidioso: in effetti, a partire dagli anni Sessanta l’estetico è ristretto solo alla sfera dell’arte, venendo meno dunque la necessità di formulare che fosse da intendersi “esperienza estetica”.
L’esperienza estetica era stata tradizionalmente descritta in termini di distanziamento dall’oggetto: già Kant aveva descritto l’atteggiamento di chi emette un giudizio estetico in termini di “disinteresse”, chiarendo che con questo termini si deve intendere che il nostro piacere è indifferente rispetto all’esistenza o inesistenza dell’oggetto.
Sia Dickie che Danto rifiutano il concetto di “distanziamento estetico” e “disinteresse” e, in particolare, Dickie afferma che porsi ìì atteggiamento estetico significa soltanto guardare con attenzione un’opera d’arte, mentre per Danto apprezzare un’opera d’arte noi dobbiamo già a sapere che quell’oggetto è un’opera d’arte, e questo non lo sappiamo dall’esperienza che compiamo di fronte all’oggetto, ma dalla teoria e dalla storia dell’arte. Tuttavia, si potrebbe obiettare che rinunziando alla nozione di esperienza estetica la teoria dell’arte si impoverisce e finisce per avvitarsi sempre più su se stessa e, dunque, sembrerebbe che l’unica via percorribile è quella di dare conto dell’arte in termini puramente istituzionali, come avviene in Dickie, e di farne quindi una attività sociale con i suoi luoghi deputati e i suoi attori riconosciuti, oppure di considerarla la palestra per le elucubrazioni di pochi teorici, come accade in Danto.
In generale,la nostra valutazione delle opere d’arte sembra prescindere totalmente dal loro contenuto di conoscenza (per quanto sia indubbiamente possibile ottenere vari tipi di conoscenza dalle opere d’arte, noi solitamente non ascriviamo maggior valore ad un’opera perché ci fornisce maggiori conoscenze o conoscenze più accurate), e del resto anche quando pensiamo di apprendere qualcosa da un’opera d’arte non siamo mai sicuri, solo sulla base dell’opera, che ciò che abbiamo appreso è vero o significativo. Abbiamo sempre bisogno che ci venga confermato da qualche fonte esterna. Come credere allora che nelle opere d’arte compiamo un’esperienza conoscitiva? Di fronte a queste difficoltà, alcune volte si è tentata la scappatoia di dire che nelle opere d’arte si conosce qualcosa, un qualcosa relativo all’opera d’arte stessa. Anche il legame necessario tra esperienza estetica ed emozioni può essere messo in dubbio da più punti di vista: innanzitutto si può osservare che moltissime cose ci possono far provare emozioni, spesso più forti di quelle che ci provoca l’opera d’arte, senza essere affatto arte, inoltre il coinvolgimento emotivo non sempre rende più efficace e più profondo il mio coinvolgimento nell’opera, anzi spesso mi impedisce di provare attenzione per altri aspetti di essa.
Allora converrebbe staccarsi da una descrizione dell’esperienza estetica in termini di contenuti,e orientarsi verso una sua caratterizzazione in termini fenomenologici. Non insistere insomma su ciò che incontriamo nell’esperienza estetica, ma soffermarsi piuttosto sul modo in cui essa si manifesta, anche per evitare il rischio di far slittare sull’esperienza i caratteri dell’oggetto estetico, in particolar modo dell’opera d’arte.
Gerard Genette ha insistito sul fatto che il tratto unificante di ogni condotta estetica è l’attenzione portata sugli aspetti dell’oggetto, e Jean Marie Schaeffer ha sottolineato con energia i tratti che avvicinano la relazione estetica a quella cognitiva. Entrambi devono riconoscere che l’attenzione è solo una condizione necessaria della condotta estetica, non ancora una condizione sufficiente.
Per entrambi, perché si costituisca la condotta estetica, all’attenzione si deve unire l'”apprezzamento”.
Questo carattere dell’esperienza estetica, ossia il fatto che implichi necessariamente un apprezzamento e sia avvertita attraverso una forma di soddisfacimento, è stato riconosciuto dai teorici rinascimentali della tragedia, che identificavano nel piacere il fine della poesia, e, tra gli altri, da Kant che nella Critica del Giudizio analizza i caratteri che contraddistinguono il giudizio estetico attraverso quelli del soddisfacimento che procura il bello.
L’esperienza estetica come raddoppiamento dell’esperienza
L’esperienza estetica è una sorta di reduplicazione, di raddoppiamento dell’esperienza che solitamente compiamo, e che in questa duplicazione i caratteri dell’esperienza vengono al tempo stesso attenuati e intensificati: attenuati in quanto l’esperienza estetica si stacca dagli scopi immediati, sembra darsi gratuitamente, in assenza di fini identificabili da perseguire, intensificata in quanto proprio questo orientamento su se stessa fa emergere con particolare forza la natura dell’esperienza che compiamo. L’esteticità non è fatta di una stoffa diversa dall’esperienza comune, ma è una diversa organizzazione e finalizzazione di questa esperienza.
Estetica come filosofia dell’esperienza
Il carattere dell’estetica come libera organizzazione dell’esperienza è stato adombrato anche dai frequentissimi collegamenti che si incontrano lungo la storia dell’estetica tra arte e immaginazione o fantasia. In particolare, è nel Rinascimento che questa associazione diventa ricorrente, come dimostra la tripartizione delle facoltà fatta da Francesco Bacone, e che mette in relazione la memoria con la storia, la religione con la filosofia e appunto l’immaginazione con la poesia. Un collegamento simile, che accentua il nesso tra immaginazione e memoria lo troviamo in Vico, il quale propone anche l’idea di una organizzazione fantastica e non intellettiva dell’intera nostra esperienza, tale da abbracciare tutti i campi del conoscere (idea di una sapienza poetica).
In Vico troviamo anche l’idea di un’organizzazione dell’esperienza di tipo estetico: una vera comprensione della funzione complessiva dell’esteticità richiede che sia sviluppato quel concetto di esperienza che è caratteristico della filosofia moderna, e che mette al centro il rapporto del soggetto con il mondo. Solo quando questo concetto moderno di esperienza si è formato, può acquistare senso pieno l’idea che l’esperienza estetica si spieghi, in rapporto con essa, come una forma di anticipazione e duplicazione dell’esperienza che, pur non fornendo conoscenze effettive, partecipa integralmente al nostro modo di stare nel mondo e di organizzarlo. Soprattutto per questo ha la sua verità la convinzione che l’estetica sia una scienza moderna. Un’adeguata riflessione sull’esperienza estetica può prendere forma solo là dove essa può essere pensata in relazione alla nozione di esperienza in genere. Non per caso questo accade in particolare con Kant che spiega l’attività estetica come un libero gioco di facoltà; ad essere implicate sono in particolare le facoltà che sono proprie della nostra conoscenza,cioè l’immaginazione e l’intelletto. Esse nella conoscenza estetica non si legano in vista di una conoscenza determinata, ma agiscono liberamente, fornendo una specie di esercizio svincolato da scopi determinati.
Anche nell’estetica del Novecento l’idea che l’esperienza estetica si comprenda veramente solo in rapporto con l’esperienza in genere è stata avanzata più volte da vari pensatori, come il filosofo Dewey che pensa all’esperienza estetica come il compimento o la condizione di ogni esperienza. Ogni volta che i significati contenuti in modo debole e frammentario nelle comuni esperienze appaiono chiarificati e concentrati, ogni volta che un’esperienza è effettivamente completa, saremmo di fronte a un’esperienza estetica.
Arte ed evoluzione della specie
Esistono degli universali estetici? Qualcosa che unisca i fenomeni estetici che appaiono cosi diversi nelle loro manifestazioni di superficie?
Molti ritengono che questo tipo di indagini possa essere sconfessato sul nascere dalla constatazione che l’arte è un fenomeno presente soltanto in alcune società, e per di più solo in alcune epoche storiche, e che è connesso con un grado avanzato di progresso culturale e civile. Chi la pensa così di solito insiste sul fatto che prima del Settecento non esisteva quel concetto unitario di arte. In questo modo la funzione della teoria estetica diventa decisiva: è l’estetica come disciplina moderna che rende in ultima analisi possibile parlare di arte. Lo stesso tipo di ragionamento viene spesso applicato su scala geografica anziché cronologico-storica. Sembra molto pù produttivo rovesciare il punto di vista, e notare come comportamenti che noi possiamo, ovviamente dal nostro punto di vista, qualificare come estetici, sono presenti in moltissime, anzi in tutte le culture che conosciamo. Non esiste popolazione che non produca una qualche forma di espressione estetica: canti,danze, narrazioni epiche, racconti leggendari, decorazioni del proprio corpo. Se tutte le culture esibiscono comportamenti che sono spiegabili in termini estetici, evidentemente, questi comportamenti si sono prodotti nel corso dell’evoluzione, e sono sopravvissuti, anzi si sono moltiplicati in modo esponenziale, perchè hanno dimostrato di essere vantaggiosi dal punto di vista della sopravvivenza.
Esiste un’estetica animale?
Molti ritengono che alcuni aspetti dei comportamenti sociali, politici e morali degli uomini possano essere spiegati tenendo conto della loro origine presso animali non umani. Da qui sorge spontanea la domanda se esistano comportamenti estetici presso gli animali. Uno dei primi scienziati ad occuparsene fu Darwin che, nell'”origine dell’uomo” nota come un potente fattore dell’evoluzione sia costituito dalla selezione sessuale: secondo lo scienziato le scelte sessuali sono guidate in parecchi casi da criteri di tipo “estetico”: piumaggi variopinti, capacità di cantare o danzare, costruzione di nidi colorati, sono tutti fenomeni che hanno per Darwin un’origine estetica e che vengono messi in parallelo con l’impulso dell’uomo ad adornare il proprio corpo e con il fenomeno della moda. La bellezza si rivela così un fattore potentissimo dell’evoluzione più efficiente ancora del successo in battaglia. Questi temi darwiniani hanno visto un’interessante ripresa di interesse negli ultimi decenni, ma con una significativa divergenza di orientamento tra scienziati e filosofi: presso i primi prevale una lettura riduzionistica, che non ritiene affatto necessario supporre un “gusto” e una preferenza estetica come spiegazione delle scelte sessuali. La spiegazione estetica viene sostituita da una spiegazione funzionale e gli aspetti che consideriamo estetici sono in realtà degli indicatori di fitness, di buona forma fisica e di buone capacità riproduttive. I filosofi sono coloro che si sono mantenuti più vicini alle posizioni di Darwin, basti pensare a Welsch: anche se fosse vero che lo scopo ultimo dell’apprezzamento degli ornamenti animali è costituito dalla fitness, resta il fatto che tale apprezzamento,si dirige, in prima istanza, alla bellezza in quanto tale, ossia all’aspetto esteriore degli ornamenti.
Origine dell’arte
I comportamenti presuntamente estetici degli animali non umani sembrerebbero ristretti al solo momento del corteggiamento e dell’accoppiamento, e verrebbero meno negli altri periodi della vita dell’animale. Inoltre, gli animali non umani nei quali si osservano i comportamenti estetici sono infatti esseri molto lontani,nella scala evolutiva, dell’uomo (uccelli, insetti). E’ probabile allora, che per trovare il radicamento antropologico dell’attività estetica si debba guardare in altre direzioni, non verso le funzioni “inferiori”, biologiche”, ma verso quelle superiori, cognitive.
Non basta che un’attività sia individuata come fonte di piacere per considerarla estetica, bisogna distinguere la natura dell’apprezzamento e del piacere che ne deriva.
Sembra si possa notare che la fioritura di manufatti estetici sia proprio una delle caratteristiche che individuano la diversa abilità dell’ Homo sapiens rispetto ai gruppi precedenti. Va poi tenuto presente che tutto lascia pensare che la produzione di manufatti durevoli non possa che essere uno dei campi in cui si è dispiegata l’attività estetica degli inizi; inoltre, non è esclusa la possibilità che il sorgere delle capacità linguistiche dell’uomo e la presenza di attività estetiche, siano fenomeni interrelati. In questo quadro l’idea dell’attività estetica come supplemento di esperienza sembra acquistare un senso più preciso.
Capacità metaoperative, possesso del linguaggio e presenza di attività estetiche si ricollegano tutte all’attitudine di produrre metarappresentazioni, ossia rappresentazioni di oggetti e stati non attualmente presenti nella percezione. Diventa allora possibile comprendere cosa significa “supplemento di esperienza”:l’attività estetica si presenta come un supplemento, cioè qualcosa che non appare legato immediatamente agli scopi dell’agire – e in questo senso appare “gratuito” e “immotivato”- e questo supplemento risulta essenziale perché libera uno spazio di elaborazione che permette di prefigurare scenari possibili come quello di utilizzazione indiretta dello strumento o il riferimento del segno a una classe di referenti possibili. Risulta riduttivo legare l’attività estetica alla sola percezione: non è l’affinamento delle capacità sensoriali in quanto tali a costituire il tratto proprio dell’attività estetica, ma piuttosto la creazione di una sorta di raddoppiamento del dato sensoriale.
Se l’esperienza nasce e si conclude sul piano percettivo, non abbiamo ancora un’esperienza estetica. Là dove è all’opera una dimensione immaginativa, la prefigurazione di situazioni possibili, l’elaborazione di scenari alternativi, lì abbiamo già un embrione di attività estetica.
Si può discutere dei gusti?
La storia dell’estetica ci conferma la centralità del problema della diversità dei gusti e dei giudizi, perché quando nasce l’estetica moderna, nel Settecento, gran parte del dibattito verte proprio attorno alla questione dell’universalità dei giudizi estetici; al di là di ciò ancora una volta notiamo come la valutazione e l’apprezzamento sono fenomeni essenziali nella strutturazione del campo estetico, e che per esempio è del tutto impossibile dar conto dei fenomeni artistici in una chiave asettica e avalutativa. è la natura stessa dell’esperienza estetica che porta a capire perché le cose debbano stare così.
Abbiamo visto che tale esperienza si configura come un supplemento,una duplicazione dell’esperienza consueta: le forze che normalmente impieghiamo per conoscere il mondo e per reagire emotivamente ad esso sono all’opera nell’esperienza estetica,ma non per produrre conoscenza effettiva, e non per farci provare sentimenti veri, ma piuttosto per tenersi in esercizio e per provare soluzioni possibili. L’unica garanzia del suo buon funzionamento può essere fornita dal fatto che ne siamo soddisfatti, che sentiamo che le cose hanno funzionato. l’apprezzamento o la delusione diventano l’unica unità di misura dell’esperienza compiuta. A tal proposito alcuni hanno affermato che l’esperienza estetica, e in modo eminente l’opera d’arte, è “compiuta in se stessa”, è “autotelica”.
Un altro modo in cui si è espressa la consapevolezza che l’esperienza estetica può commisurata solo alla soddisfazione o alla insoddisfazione che ci produce è stato discorrere del suo carattere disinteressato (espressione coniata da Kant): il piacere che dà il bello è un piacere senza interesse, dove interesse è detto il piacere che proviamo per l’esistenza di un oggetto. Nella formulazione kantiana scorgiamo un eco evidente del carattere immaginativo dell’esperienza estetica. Dire che il giudizio estetico è disinteressato non vuol dire che nell’esperienza estetica non conosciamo nulla e non proviamo nulla: vuol dire che l’apprezzamento non si rivolge a quel che impariamo o a quel che proviamo, ma si rivolge al modo in cui le nostre esperienze sono state organizzate, decidendo se tale organizzazione è in sè soddisfacente.
Per molti secoli, dall’antichità al Medioevo al Rinascimento, ha dominato una teoria didattica e praticistica dell’arte, che faceva dell’arte stessa una semplice ausilio alla comunicazione di contenuti conoscitivi o di precetti morali. Parallelamente, la convinzione dominante era che esistessero criteri oggettivi e incontrovertibili della bellezza; questi criteri identificavano la bellezza nella presenza di determinati rapporti proporzionali. La spiegazione dell’apprezzamento estetico in termini di numero, ordine e misura presentava due caratteri estremamente significativi. Era una spiegazione oggettivistica, cioè faceva della bellezza una proprietà dell’oggetto, indipendente dal soggetto che la contemplava; ed era una spiegazione intellettualistica, cioè rendeva la bellezza una proprietà afferrabile con l’intelletto e la ragione.
Ridurre la bellezza ad elemento afferrabile con l’intelletto ed esprimibile matematicamente sottraeva ogni specificità all’esperienza estetica.
Tra la fine del Quattrocento e inizio del Cinquecento si assiste (in Italia e Spagna) al sorgere di una nozione chiave dell’estetica, quella del gusto ,che viene presto a indicare una capacità di scelta, una espressione di preferenza che si affianca al giudizio. L’aspetto essenziale che viene a esprimersi nel concetto di gusto è proprio il fatto che ci troviamo dinanzi a una scelta che non si basa su principi intellettuali,non segue regole prefissate,ma decide di volta in volta e apparentemente senza ragioni dichiarabili. Il gusto estetico è altra cosa dal gusto del palato, dal quale per altro prende il nome. Al gusto del palato manca appunto quella capacità di duplicarsi, di dare vita ad una dimensione immaginativa, che è essenziale per il costituirsi di un esperienza estetica. Chi riduce l’estetica ad una teoria della percezione sensibile in fondo ripudia tutto il faticoso lavoro concettuale che si è venuto coagulando attorno alla nozione di gusto. Oltre alla nozione di gusto, altri termini hanno contribuito al riconoscimento dell’autonomia della sfera estetica, tra cui il termine “grazia”,che viene a indicare quegli aspetti della bellezza che non sono riducibili a proporzioni e numeri, che non possono essere tradotti in rapporti intellettuali e “sentimento”, con cui si esprime il rapporto che il soggetto instaura con la propria situazione di vita, si esprime non il sentire qualcosa ma il sentirsi in un determinato modo. Il termine sentimento accompagna il sorgere dell’estetica moderna, svolgendo un ruolo centrale però anche negli sviluppi dell’etica, cioè non a caso nei due ambiti in cui abbiamo a che fare con valutazioni e normatività. La buona riuscita dell’organizzazione dell’esperienza che ha luogo nell’attività estetica, non potendo trovare legittimazione sul piano dell’intelletto ricorre ad una legittimazione del sentimento, al sentire che le cose vanno bene in questo o quel modo.
In questo caso il sentimento ha poco o nulla a che fare con i sentimenti che vengono rappresentati e comunicati dalle opere d’arte, e ancor meno con i sensi attraverso i quali entriamo in contatto con esse.
Soggettività, oggettività, intersoggettività del giudizio estetico.
Nell’esperienza estetica il rapporto con il soggetto che esperisce diventa determinante nel senso che ciò che conta è il soddisfacimento che essa produce o manca di produrre. Quel che importa è il modo in cui il soggetto si trova nell’esperienza, il fatto che vi si senta a proprio agio o meno, che la senta funzionare in maniera appagante o che invece l’avverta inceppata, interrotta, procedente a fatica.
Rispetto alle concezioni oggettivistiche premoderne secondo cui la bellezza era una qualità dell’oggetto, adesso la chiave della bellezza non sta più nella cosa, ma nel rapporto del soggetto con la cosa, o nel rapporto del soggetto con se stesso, innescato dal rapporto con l’oggetto esterno.
Nel corso del Settecento nasce poi il problema del “gusto”, della contesa volta a stabilire se esista la possibilità di dirimere tra i gusti e di fissare un gusto perfetto, nascono nuovi approcci all’estetica, sempre più orientati verso il sentimento e sempre meno fondati sulla ragione (ad esempio, per Hume il giudizio dipende dal soggetto e non dalle qualità della cosa ed è stato proprio lui a coniare il detto “beauty is in the eye of the beholder”, per Kant il giudizio estetico è soggettivo, nel senso che per decidere se una cosa è bella o no “noi non riferiamo la rappresentazione dell’oggetto mediante l’intelletto, in vista della conoscenza, ma mediante l’immaginazione la riferiamo al soggetto, e al suo sentimento di piacere o dispiacere”. Il bello piace senza concetto, senza che vi sia la possibilità di fissarne intellettualmente le regole. E tuttavia il bello piace universalmente. Tuttavia non afferma propriamente che il giudizio di gusto è universale, bensì universalizzabile, porta con sè un’aspirazione alla universalità.
Quando pronuncio un giudizio di gusto io non mi rassegno a che esso rimanga valido solo per me,ma godo nel vedere che è condiviso dagli altri. E ciò accade perchè il gusto è una sorta di SENSO COMUNE, cioè un senso che abbiamo in comune con gli altri uomini in quanto fondato sulle stesse facoltà conoscitive che tutti condividiamo.
Nel corso dell’Ottocento e della prima metà de Novecento c’è un cambiamento di prospettiva. L’estetica si pensa come filosofia dell’arte, in riferimento alla grande produzione artistica del passato: il Romanticismo scalza sì il primato della visione classicistica, ossia il privilegio accordato all’arte dell’antichità, ma in un certo senso si può dire che esso crei una nuova classicità del moderno, erigendo al rango di capolavori esemplari anche le grandi opere delle letterature europee e medioevali. Si smette di chiedersi se il giudizio estetico sia soggettivo o oggettivo, universale o singolare.
Nella seconda metà del Novecento:l’obsolescenza dell’avanguardia e la diffusione dell’arte di massa, mettono in questione l’esistenza di valori al di là di ogni dubbio, di modelli indiscutibili. Parallelamente, la voga di Cultural Studies e degli studi post – coloniali mette in dubbio il primato delle letterature e delle tradizioni artistiche che costituiscono i consueti oggetti di studio.
Sul piano teorico si affaccia una soluzione completamente relativistica alla domanda sulla universalità del gusto: studiosi come Genette e Schaeffer hanno sostenuto il carattere soggettivo delle scelte estetiche, e l’impossibilità di stabilire dei criteri condivisi del gusto. Questa soluzione lascia insoluti una serie di problemi:
-se veramente tutti i giudizi si equivalgono, come spiegare il formarsi di tradizioni artistiche?
– se ogni giudizio vale l’altro, come giustifichiamo l’attenzione che dedichiamo a certe opere a detrimento di altre?
Quando ci concentriamo solo sulla diversità dei gusti, finiamo per oscurare una verità almeno altrettanto palese, e cioè che il gusto non è solo il campo in cui le soggettività si scontrano, ma è almeno altrettanto quello dove esse si incontrano. Il gusto e l’esperienza estetica sono fatti eminentemente sociali.. L’esperienza estetica sembra rivestire un ruolo molto significativo nella costruzione dello spazio sociale, proprio perchè serve a mettere in comunicazione e a confrontare le soggettività, a togliere le asperità del solipsismo, a far scoprire inclinazioni e aspirazioni comuni.
Tra i due poli della soggettività assoluta e della oggettività, l’esperienza estetica si colloca nel campo della INTERSOGGETTIVITA’: proprio perchè non ci sono regole intellettuali in campo estetico, è necessario un continuo confronto fra i singoli individui, che metta in gioco la loro costituzione sensoriale. Era questo il significato più profondo dell’idea kantiana del gusto come senso comune: non tanto un senso che abbiamo in comune, cosa che trasformerebbe l’esigenza di universalità del giudizio estetico in una petizione di principio, ma un senso che siamo chiamati a costruire in comune con gli altri, incontrandoci con loro, rinunciando agli aspetti irriducibili del nostro modo di sentire e di pensare e aprendoci al modo di sentire e pensare degli altri. E niente meglio dell’opera d’arte sembra rendere possibile questo scambio.
Dall’apprezzamento al giudizio. La critica artistica
Il provare apprezzamento e l’esprimerlo devono essere tenuti distinti: si può avvertire un’esperienza estetica come soddisfacente, senza che questo nostro sentire si trasformi in un argomentazione, o in un’asserzione (mi piace, è bello).
L’apprezzamento estetico ricorda la meraviglia , proprio perché inizialmente sembra soltanto arrestare la nostra attenzione, catturarla di colpo, senza che siamo in grado di spiegare per quale motivo. Nel caso del piacere estetico però la meraviglia prosegue in quella sorta di stabilizzazione dell’atteggiamento meravigliato che è l’ammirazione, e soprattutto avvia un processo di riflessione sull’apprezzamento che abbiamo provato al fine di chiarircene la natura i motivi.
Questo processo è di grande importanza perché mette capo al vero e proprio giudizio estetico che ha la forma di un giudizio logico, ma in realtà esprime il mio apprezzamento per un certo oggetto, indica che ho compiuto un’esperienza estetica soddisfacente. Nemmeno il giudizio dunque, dà voce alle ragioni del mio apprezzamento, si limita a registrarlo e comunicarlo.
Lo sforzo di argomentare i motivi del mio giudizio è ancora ulteriore, e si può dire che solo con questo passo successivo comincia propriamente la critica. In realtà però, neppure nella critica il giudizio in quanto tale svolge quella funzione centrale che molte volte si è stati portati a riconoscergli. Il giudizio infatti è sostanzialmente una semplice formulazione dell’apprezzamento: esso è insieme fondamentale e accessorio nel procedimento della critica.
Fondamentale perché senza l’apprezzamento l’esperienza estetica propriamente non si costituisce, e quindi ogni discorso su di un’opera d’arte deve per forza muovere dal riconoscimento del fatto che ha avuto luogo un’esperienza estetica, che per essere compiutamente espressa ha bisogno del giudizio. Non c’è propriamente comprensione di un’opera d’arte senza la sua valutazione.. Al tempo stesso il giudizio è accessorio, nel senso che quel che differenzia la critica dall’esperienza estetica comune non è il proferimento del giudizio, ma la sua motivazione e argomentazione. Quando confrontiamo due giudizi discordanti, stiamo già disponendoci in un’attitudine critica, e la critica vera e propria non è altro che l’esercizio sistematico e controllato del confronto e dell’argomentazione.
Poichè l’esperienza estetica non si organizza in vista di un fine conoscitivo o pratico, non posso indicare una o più regole dall’applicazione o non applicazione delle quali discenderebbe la qualità estetica. Non posso dare dimostrazioni in estetica, come ne darei in campo scientifico. Posso dare argomentazioni che possono indicare la correlazione tra la mia valutazione e gli aspetti non – estetici dell’opera. La critica non usa le armi della necessità logica, ma quelle della persuasione: il suo terreno non è quello della scienza, bensì quello della retorica (“teoria dell’argomentazione persuasiva”). Il critico non impone nulla, non pretende il consenso, cerca di guadagnarselo. Discutere i diversi giudizi è importante perché aiuta a confrontare le opinioni, a cercare punti di contatto. Fu Kant a riconoscere lo statuto della critica nella parte della Critica del Giudizio in cui espone la Dialettica del giudizio estetico, sotto forma di contrasto tra i principi che orientano la critica (questo contrasto si esprime sotto forma di antinomia tra la tesi e l’antitesi).
La tesi afferma che il giudizio non si fonda sopra concetti, perché altrimenti si potrebbe disputare sul gusto, cioè decidere di esso mediante prove irrefutabili; l’antitesi sostiene che il gusto deve fondarsi sopra concetti perché altrimenti del gusto non si potrebbe nemmeno contendere cioè non si potrebbe pensare di poter giungere ad ottenere l’approvazione altrui. La soluzione di Kant consiste nel far leva sul diverso significato che può assumere la parola concetto nella prima e seconda proposizione: per lui nel giudizio estetico non si può decidere mediante dimostrazioni, ma ciò non significa che nel gusto non si possa contendere. Tutto si gioca sulla differenza tra disputare e contendere. Le due nozioni si accordano in questo, che sia nell’una che nell’altra si cerca di produrre l’accordo dei giudizi ponendoli l’uno a riscontro dell’altro. La critica non ha solo il compito di esprimere un verdetto di artisticità, ma è soprattutto un aiuto alla comprensione dell’opera, la creazione di uno spazio comune di scambio e confronto di esperienze. La critica in senso moderno è nata nel Settecento.
L’equivoco della bellezza
La bellezza non è affatto un concetto centrale dell’estetica, anzi la bellezza è un valore sostanzialmente extra – estetico. Quando diciamo “bello” vogliamo dire che c’è qualcosa che produce un’esperienza estetica, ma usare “bello” in questa accezione significa usarlo come epiteto esclusivamente valutativo, e non riconoscergli alcun valore descrittivo. Dicendo che un’opera d’arte è “bella” intendo soltanto dire che è riuscita, e non affermo nulla sul suo aspetto, i suoi caratteri, il genere d’arte che è. L’ambiguità del termine “bello” risiede nel fatto che esso,accanto a questo significato puramente valutativo, ne possiede uno descrittivo. A tal proposito, bello come valore descrittivo si riferisce a caratteristiche di piacevolezza, amabilità e gradevolezza.
Bellezza in senso descrittivo, è un valore extra – estetico, qualcosa che ha soltanto un rapporto di tangenza con l’attività estetica vera e propria, ed è un valore che non può trapassare dalla realtà extra estetica dove vive alla realtà estetica, per esempio al mondo dell’arte; naturalmente questo non significa che l’arte non possa prendere ad oggetto cose che sono “belle” in senso extra estetico ( di fatto esiste un’amplissima tradizione di arte che ha scelto di privilegiare ciò che è bello in senso extra- estetico). L’equivoco così pervicace sul senso della parola bello, si deve anche alla predominanza che per lunghissimo tempo ha avuto nell’arte occidentale il paradigma classico, relativamente soprattutto alle arti figurative: la scultura greca ha consacrato un trionfo dei corpi belli, che ha condizionato a fondo l’immagine di ciò che è artistico.
Tutti coloro i quali non riescono a staccarsi dall’idea che l’arte sia legata a doppio filo alla bellezza extra estetica dovrebbero però riflettere sul fatto che se avessero ragione loro, il contrario dovrebbe funzionare (cioè rappresentare corpi belli o situazioni graziose dovrebbe portare sempre al successo artistico) mentre abbiamo visto che ciò non avviene.
Se la bellezza nel senso della riuscita estetica si basa sull’efficienza di una specifica organizzazione dell’esperienza, un’efficienza che deve essere di volta in volta verificata e che può essere raggiunta nei modi più diversi, la bellezza in senso extra estetico dovrà fondarsi su qualcosa d’altro. La bellezza in senso extra estetico è definita da quei criteri di proporzione, ordine, misura che trasferiti all’arte si dimostrano insussistenti, ma che hanno il loro campo di applicazione deputato nella bellezza considerata in senso extra estetico, per esempio nella bellezza del corpo umano, per la quale esistono regole che sono quelle seguite nei corsi di bellezza.
Estetica come teoria della bellezza e il suo superamento moderno
L’arte ha sempre fatto posto alla rappresentazione del brutto, del disarmonico, del deforme e questo anche nell’antichità (vedi letteratura, tragedia, commedia e le stesse arti figurative greche-vd arpie, fauni, Medusa-). Tuttavia, anche se l’arte offre uno sterminato campionario di rappresentazioni ben lontane dalla bellezza, l’estetica ha impiegato molto tempo per dare legittimazione teorica a tutto questo. In linea generale, si potrebbe dire che prima del Settecento, quello che per noi ora è “estetica”, allora era “teoria della bellezza”.
Nonostante il peso riconosciuto all’arte classica nella fissazione dello stereotipo dell’arte bella, la teoria antica non vede un rapporto privilegiato tra ARTE e BELLEZZA
Da un lato il bello per la società greca, è un valore che si avvicina più al bene che all’arte, riguarda i comportamenti e le azioni assai più che i prodotti artistici, dall’altro esso è un’idea che viene al di la di ogni sua incarnazione terrena, e alla quale si può ascendere mediante un esercizio di progressiva spiritualizzazione.
Buona parte della riflessione successiva sull’arte sarà occupata dalla traslazione della teoria della bellezza alla teoria dell’arte, e alla loro saldatura. Il processo si avvia già con la dottrina del BELLO IDEALE, cioè di quella teoria che vede nell’arte lo sforzo di rappresentare una realtà più bella e più perfetta di quella che possiamo osservare in natura, perché emendata e resa esente da difetti sulla base di un modello non ricavato dalla realtà, ma contemplato con gli occhi della mente.
Un passo essenziale nella congiunzione di teoria della bellezza e teoria dell’arte sarà poi compiuto, nel III sec. da Plotino nelle sue Enneadi: le arti non imitano le cose visibili, ma si elevano alle forze ideali, dalle quali la stessa natura deriva.
Sarà il classicismo rinascimentale a saldare ARTE e BELLEZZA, e “Belle arti” finirà per diventare dapprima un sintagma obbligato poi un pleonasmo
Per molto tempo l’estetica ha continuato a comprendersi come una teoria della bellezza, e non si contano le opere di estetica nei titoli delle quali spicca il termine bello, ancora nel 700 e 800 (con Winckelmann, Karl F Solger, Crousaz).
E’solo a partire dalla fine dell’800. e inizio 900 che le parole BELLO e BELLEZZA tendono a sparire dai titoli delle opere di estetica. L’indebolimento della categoria del bello, che poi va di pari passo con il riconoscimento del carattere semplicemente descrittivo che può avere, è stato un processo lungo che ha portato ad affermarsi, accanto a quello di bellezza, di arte e diverse categorie estetiche, cioè di altri modi di caratterizzare la riuscita dell’esperienza estetica descrivendola.
Tutte le categorie che considerano essenziale per il costituirsi di un’esperienza estetica una forma di soddisfazione, di gradimento, di compiacimento si espongono all’obiezione che molte opere d’arte non sembrano mirare affatto a compiacere il fruitore, ma piuttosto a disturbarlo, a inquietarlo, provocandogli uno shock.
L’errore della neuroestetica
In particolare è stata l’avanguardia novecentesca a togliere il terreno sotto i piedi ad ogni teoria della bellezza, perché essa ha fatto del rifiuto del bello, della ricerca dello shock, dello schiaffo al gusto pubblico, il proprio baluardo.
Per cinquant’anni nessuno ha più parlato di bellezza.
È solo negli ultimi decenni che il termine ha fatto capolino nelle nuove teorie, anche se il tentativo di restituirle un primato e, a maggior ragione, l’esclusività in riferimento all’esperienza estetica è destinato a fallire (spesso l’appello alla bellezza rivela la nostalgia per le accezioni pre – moderne del termine, per i tempi in cui bellezza e bontà erano nozioni congiunte,oppure, nasconde l’avversione per l’arte contemporanea).
Negli ultimi anni è nato un nuovo approccio che si occupa di problemi di estetica, la neuroestetica che copre diversi campi, tra cui ricerche sugli effetti delle lesioni cerebrali sull’attività. Relativa di pittori e letterati, ricerche di psicologia della percezione, indagini sul rapporto tra emozioni empatia e neuroni a specchio. In generale gli studi di neuroestetica mostrano come nell’esperienza estetica concorrano molte aree cerebrali interagenti tra loro, non solo cioè aree cerebrali demandate a funzioni direttamente percettive, ma anche aree della corteccia frontale, e sistema limbico, cioè quello che preside alle emozioni. Tutto ciò sembra confermare che quella estetica non è un’esperienza di natura diversa dall’esperienza comune, ma piuttosto una diversa finalizzazione e organizzazione della stessa. I più conosciuti esponenti della neuroestetica sembrano intendere come compito fondamentale della neuroestetica quello di fondare, al livello neurologico, alcuni principi tradizionali della bellezza.
Tra questi effetti contraddittori si ricordino la lista degli universali estetici e il fatto che, in riferimento all’oggetto della disciplina, gli stessi neuroscienziati sono in disaccordo tra loro). In generale sembra che la neuroestetica consideri come proprio compito quello di fissare delle norme circostanziate di bellezza e di riuscita artistica, ma così facendo per un verso incontra principi tradizionalissimi, e che già si sono dimostrati incapaci di fondare una normatività estetica veramente universale, per un altro non riesce a dar conto della variabilità storica delle norme del gusto, se non trincerandosi dietro generalità prive di qualsiasi presa.
Opere e cose
È ben noto a tutti l’idea che le opere d’arte siano in prima istanza cose (Hegel, Heidegger -“L’origine dell’opera d’arte”-), tuttavia questo paradigma sembra funzionare plausibilmente per certi oggetti e non per altri: le opere, sebbene sia evidente che sonoveicolate da un supporto materiale, hanno proprietà che non possono dipendere dalla loro cosalità.
Le proprietà rappresentative e espressive dell’opera non possono dipendere dal fatto che l’opera è una cosa, bisogna rifarsi alle intenzioni dell’artista che ha prodotto l’opera. A tal proposito alcuni hanno avanzato l’idea che l’opera consista in un immagine interna, presente nella mente dell’artista e del fruitore dell’opera (vd Estetica di Croce: l’opera è compiuta nella mente dell’artista, e la sua traduzione in suoni, colori, forme, è solo una estrinsecazione materiale che serve a scopi comunicativi). La tesi del carattere immaginativo dell’opera è presente anche in autori come Sartre, per il quale l’opera d’arte è l’immagine e non la materia nella quale viene fissata. Tuttavia questa teoria appare poco persuasiva:
sembra fare dell’arte un’esperienza individuale, in quanto non si capisce come il fruitore possa essere certo di aver riprodotto l’immagine che era stata dell’artista.
La teoria dell’arte come oggetto ideale sembra trascurare totalmente la portata del mezzo attraverso cui l’arte si esprime
Sia la teoria che fa dell’opera d’arte una semplice cosa, sia la teoria che ne fa un oggetto soltanto mentale, rendono ragione del fatto che la maggior parte delle estetiche si colloca nel mezzo tra questi due estremi: la veduta largamente prevalente è che l’opera d’arte ha, certo,un sostrato materiale, ma su questo sostrato impianta tutta una serie di aspetti che non possono ridursi al lato per cui l’opera è una cosa. L’opera e la cosa non coincidono perché l’opera è più della cosa, sono entità incorporate in qualcosa di fisico, ma hanno una natura culturale,sociale,intenzionale.
Ontologia dell’arte
Per Ontologia si deve intendere lo studio dei modi di esistenza dei vari oggetti che incontriamo nel mondo (materiali, ideali, sociali). In particolare, negli ultimi anni si è diffuso il discorso sui modi di esistenza delle opere d’arte (nelle estetiche di orientamento analitico per esempio si è finito di parlare di un Ontological Turn). Uno degli aspetti discussi dall’attuale ontologia dell’arte è il problema se le opere d’arte esistono come oggetti materiali, ideali o come via di mezzo tra i due: per esempio, se guardiamo a come le opere d’arte si presentano alla nostra esperienza, Goodman ha proposto una distinzione tra arti autografiche (arti nelle quali le falsificazioni attraverso copie sono possibili, per esempio la pittura o la scultura da intaglio) e arti allografiche (opere nelle quali una copia non è un falso, ma un nuovo esemplare, es letteratura o musica). Si potrebbe pensare che questa distinzione coincida con quella tra arti che hanno una notazione e arti che ne sono prive; in realtà Goodman non ascrive mai importanza decisiva alla presenza di una notazione , e ritiene che l’aspetto veramente decisivo sia la storia della produzione di una determinata opera d’arte: per essere definita autografica un’opera d’arte dovrà essere tale che la storia della sua produzione, cioè le circostanze, i materiali, i metodi con cui è stata composta sono rilevanti per la sua identità, sarà invece allo grafica se la sua identità non dipende affatto da questi aspetti, ma solo dalla eguaglianza di compitazione ( il fatto che un’opera letteraria contenga tutte le lettere dell’originale, uno spartito, tutte le note scritte dall’autore). La distinzione tra arti autografiche e arti allografiche non coincide dunque con quella tra arti che sono singole e arti che sono multiple. Per esprimere la differenza tra arti che producono multipli e arti che producono esemplari unici Wollheim ha introdotto la distinzione tra opere che sono individui e opere che sono tipi. Nelle opere che sono tipi i singoli esemplari o le singole esecuzioni delle opere sono chiamati da Wollheim occorrenze: lo opere in cui vige il rapporto tipo/occorrenza non sono, manifestamente oggetti materiali, ma questo rapporto viene pensato proprio per risolvere una serie di difficoltà che si presentano se il rapporto tra opera in se è sua realizzazione viene ricondotto ad altri paradigmi, per esempio viene pensato come rapporto tra una classe e i suoi membri o come quello tra un universale e le sue istanze. Wolterstorff ha espresso il rapporto tipo e occorrenza descrivendo i tipi come norme-specie, accentuando il loro carattere normativo e non semplicemente descrittivo e insistendo sull’analogia con le specie naturali (come un orso bruno è un orso bruno solo se è un esemplare ben formato della specie, un’opera è un’occorrenza della norma-specie solo se ne incarna tutti i requisiti essenziali)
Estetica senza ontologia
In generale si può notare come i tentativi di superare il dualismo ontologico che sembra affliggere irrimediabilmente il mondo dell’arte ( da una parte le opere singole, gli originali irripetibili, il rispetto quasi feticistico per le più minute caratteristiche materiali, dall’altro l’infinita moltiplicabilità, l’intercambiabilità di ogni esemplare) porti quasi sempre a soluzioni poco persuasive. L’intero edificio dell’ontologia dell’arte contemporanea per riconoscere se una cosa è o non è arte fa affidamento sul presupposto della avalutabilità (fino ad ora abbiamo visto che per riconoscere qualcosa come un’opera d’arte è necessario un giudizio di valore, giudizio che equivale alla constatazione che l’oggetto che abbiamo davanti ha prodotto un’esperienza estetica), e dunque prescinde totalmente dal riconoscimento del valore dell’opera d’arte. Quando diciamo che l’ontologia si tiene lontana dal giudizio di valore, intendiamo che essa non mette in rilievo nessun aspetto che sia specifico delle opere d’arte, ma incontra le opere d’arte all’interno di categorie ontologiche che si rivolgono ad oggetti che possono essere anche del tutto diversi dall’arte.
Tutte le distinzioni messe in piedi dall’ontologia si riferiscono a cose che con l’arte non hanno nulla a che fare, come la distinzione tra autografico e allografico: molte cose sono autografiche senza essere per nulla opere d’arte.
La differenza tra mere cose e opere, l’ontologia non riesce mai a darcela.
L’ontologia dell’opera d’arte è una ontologia degli artefatti, non delle opere d’arte.
Si tratta allora di riconoscere il primato dell’esperienza sull’opera.
Non può esserci arte se non c’è esperienza dell’arte.
Etica ed Estetica, allora, non sono un tutt’uno: opere eccellenti possono avere contenuti morali biasimevoli od assenti, ma, comunque, è possibile, in ultima analisi, costruire un ponte tra i due campi di esperienza.
E la scelta dell’arte che compiamo, dipende, in stretta misura, da quello che siamo.