Il termine “lutto” sta ad indicare, in termini generali, ogni situazione di perdita significativa, come dover rinunciare ad un obiettivo importante da un punto di vista personale; la perdita del lavoro; la perdita delle proprie progettualità per una disabilità acquisita o un problema di salute importante o, ancora, la fine di una relazione.
Ma in questa sede voglio analizzare le complesse reazioni psicologiche che coinvolgono la sfera emotiva, cognitiva, comportamentale/relazionale, che riguardano una particolare situazione di perdita, ossia l’irreversibilità della perdita di una persona amata.
Tale irreversibilità è tanto più complicata quanto più, nel momento in cui renda inevitabile accostarsi al proprio mondo interno, lo trovi spoglio e carente di rappresentazioni significative del sé. Vale a dire, quanto meno si è riusciti a costruire per sé, tanto più risulta difficile ricostruirsi a partire dalla perdita irrimediabile di chi si ama.
ll lutto, indubbiamente per tutti, apre le porte a dimensioni di dolore e sofferenza: la morte è l’esperienza più carica di sofferenza ed, in particolare, la morte di una persona amata, ci pone nella condizione di doverci confrontare con il senso del “non” definitivo, della ineluttabilità e della irreversibilità di tale esperienza. L’altro, il defunto, non è onnipotente come si pensava, non ha più capacità generativa di affetti, non è immortale, come pensano i bambini, che non hanno una concezione della morte come evento definitivo: per loro la morte è un fenomeno transitorio, è quella di un attore che muore in un telefilm per diventare protagonista di un altro telefilm. Vi è, nell’esperienza del lutto, la perdita del senso, di ogni senso, e la dimensione dell’angoscia dovuta alla perdita dilaga nel proprio sé. Questa sensazione di perdita nei lutti “semplici” è transitoria, poco per volta si riprende in mano la propria dimensione esistenziale, si recupera il proprio sé che era scompaginato da questo dolore, ma non frammentato a causa di esso. La perdita di senso è solo temporanea.
Dal lutto, in ogni caso, si esce “diversi” da prima, e proprio per questo assume un’importanza fondamentale la dimensione del “prima”.
Il lutto è stato teorizzato da parte di molti studiosi.
Ad esempio, Bowlby J. (2000), ha ipotizzato la successione di alcune fasi:
1. Fase del torpore, della negazione, della protesta e del rifiuto: è la fase che segue immediatamente la morte della persona cara. Ai sentimenti di forte disperazione, di angoscia, ansia, s’intrecciano emozioni di incredulità, di irrealtà, di negazione dell’accaduto, quasi come se il confronto con il dato di realtà fosse emotivamente insopportabile al punto da dover porre la mente nella condizione di negare o quanto meno distanziare, perché la sofferenza è eccessiva.
Ciò accade soprattutto nelle condizioni di morte inattese ed inaspettate.
2. Fase dello struggimento e della rabbia: in questa fase, anche con il passare dei giorni successivi alla morte, il dolore diventa più intenso e disorientante, in relazione anche con la conclusione presumibilmente della ritualità accompagnatoria alla morte (il rito funebre) e l’inevitabile ritorno alla realtà di tutti i giorni. Il confronto con una realtà che evidentemente s’impone prepotente come diversa, dolorosamente diversa da prima, anche negli oggetti che appartengono alla persona scomparsa, crea uno stato di sconforto e di rabbia. Rabbia verso il destino, le circostanze esterne, piuttosto che verso chi ci ha lasciato o verso sé stessi per non essere stati capaci o presenti nel momento dell’accaduto.
3. Fase della disperazione e depressione: è la fase in cui tutto perde di senso, dove ogni cosa, ogni oggettualità è fuori posto, dove ogni gesto e ritorno alla quotidianità è difficoltoso. La “memoria” della persona scomparsa la fa da padrona riempiendo di tristezza e l’accaduto. È la fase importante del ritiro in sé stessi che inizia nel momento in cui la persona accetta di lasciarsi pervadere dal dolore.
4. Fase della accettazione e riorganizzazione: è la fase in cui la persona ricomincia a dare un senso alla propria vita, non solo dovendo tornare ad investire sulla gestualità quotidiana (quella lavorativa, ad esempio), ma soprattutto riuscendo a dare un posto ed una collocazione alla persona scomparsa (interiorizzazione) dentro di sé. È in questo momento che sorge la nostalgia, un’emozione fondamentale, in quanto dimostra che il processo di riparazione del lutto è in atto o in evoluzione. La persona morta ora non suscita più un impatto emotivo dirompente, ma emozioni di tristezza, di dolore, nello spazio mentale che le può essere concesso, per pensarla nei termini di ciò che è stata ed ha rappresentato personalmente, ciò che avrebbe potuto essere e ciò che sarà. La persona morta diventa parte del proprio mondo interno ed ora si è pronti a lasciarla “andare” all’interno di uno spazio confinato di ricordo nostalgico.
Questo modello teorico, peraltro ineccepibile da un punto di vista strutturale, presenta il limite, a mio avviso, di una matematica linearità, che non sempre avviene nel quotidiano di noi esseri “umani”. Possono, infatti, subentrare intoppi, blocchi, “fissazioni” in qualcuna delle fasi. E questo dipende molto dal nostro punto di partenza, dalla presenza o meno in noi di una personalità strutturata, e da condizioni socio-economiche, come la necessità di tornare a svolgere un lavoro ( se si aveva un lavoro), la capacità di fare affidamento sui restanti membri della famiglia ( laddove ci siano altri membri, o laddove si abbia la capacità di riconoscerli come tali).
Cosa accade quando uno ( o più) di questi fattori manca? Si continua a crogiolarsi ossessivamente nel proprio dolore che, invece di affievolirsi e trovare una ragione nell’inevitabilità del senso di una vita “a termine”, diventa sempre più dilagante ed irreparabile. Un dolore che sembra diventare sempre più acuto come agli inizi, invece che sordo e meno dolente.
Ecco che la patologia del lutto sta nella fissità su una fase piuttosto che l’altra (Stroebe e Shut, 1999, 2001).
Altrove appare determinante la discriminante “tempo”: 6-12 mesi, come vuole il DSM 5 (2013), ma anche questa, a mio avviso, presenta il limite di una temporalità che assume connotazioni assolutamente soggettive.
Nel lutto “patologico” il tempo è cristallizzato nell’attimo della morte e non fluisce come accade nello scorrere della vita. Il tempo non è di per sé una variabile agente ma diventa, soprattutto in questi casi, solo una variabile “contenitiva” di “cose fatte o non fatte”.
Si rinuncia a vivere, rimanendo fissi all’istante della perdita. Perdita della quale si può continuare a colpevolizzarsi, come se fosse stato possibile fare di più per evitarla. Distruggere il sé nell’inutile tentativo di salvare l’altro che non si è mai considerato sufficientemente separato da sé, come in quei rapporti genitori-figli, in cui il processo di separazione-individuazione non sia mai stato completato.
Questo può avvenire anche nei casi in cui la persona amata fosse già gravemente ammalata e, quindi, in linea di massima, la morte fosse un evento annunciato. Non sempre un lutto anticipato ( quando “complicato”), rende la fase successiva meno dolorosa da un punto di vista emotivo.
Inevitabilmente, però, com’è di immediata comprensione, una morte improvvisa, traumatica, dovuta ad un incidente o ad un suicidio, rendono il lutto più difficile.
La possibilità di condividere il lutto con persone dotate di maggiori risorse emotive può certamente rendere la sofferenza più accettabile.
Ma il lutto patologico, è bene ricordarlo, non può prescindere da un trattamento specialistico appropriato.