Aristotele ritiene che il bene sia “ciò a cui tutto tende” e che l’agire umano abbia come fine ultimo il raggiungimento del bene “sommo”.
Ma cosa è il bene sommo?
Nel primo libro dell’Etica Nicomachea Aristotele prende le distanze dalla posizione di Platone, secondo la quale esisterebbe il “bene in sé”, come qualcosa di estrinseco all’uomo, dotato di una propria consistenza ontologica, del quale è possibile avere conoscenza certa, sicura e definitiva.
Questa per lo Stagirita non è accettabile: il bene, così come l’essere, è predicabile in modi tanto differenti da non poter essere sintetizzato in un unico ente stabile. Se un uomo lavora come carpentiere, è difficile pensare che potrà trarre giovamento dalla contemplazione dell’Idea del bene, mentre per lui il bene sarà costruire le case.
La scienza in grado di raggiungere la conoscenza del bene è la Politica, la scienza architettonica per eccellenza, la scienza a cui tutte le altre, anche le più ricercate come la strategia o la retorica, sono subordinate.
Oggetto della Politica non è un qualcosa di astratto ed immutabile, come per la Matematica, ma è di natura fluttuante e, pertanto, non bisogna operare con una precisione assoluta: si può abbandonare la logica in favore della retorica.
Ma in cosa consiste il bene assoluto? Per la maggior parte degli uomini il bene sommo è la felicità.
Ma, ancora, in cosa consiste la felicità?
Vengono analizzate (e criticate) alcune posizioni a riguardo: l’identificazione del bene con il piacere, l’Edonismo, proprio del popolo rozzo che conduce alla schiavitù del corpo; l’identificazione del bene con l’onore, tipico degli uomini politici, che è superficiale e rende dipendenti dall’essere onorati, mentre il vero bene deve poter essere trovato nella propria singolarità; l’identificazione del bene con la ricchezza è una grossolana confusione tra strumento e fine: la ricchezza può essere un mezzo che favorisce il raggiungimento del bene ma di per sé stessa non può essere un fine.
Quindi, il bene ( e la felicità) è relativo al soggetto al quale si predica: appare, allora, necessario isolare una caratteristica propria ed unica dell’uomo, non posseduta dagli altri esseri della terra, e comune ad ogni uomo. Questa è la razionalità: la felicità risiederebbe nell’esercizio della parte razionale dell’anima.
Quando un uomo si può ritenere felice?
Un aiuto ce lo fornisce il termine greco corrispondente a felicità, EUDAIMONIA, letteralmente “avere un demone buono”, cioè una “vita buona”. Se essere felici significa avere condotto “una vita buona” risulta evidente che non si può dare un giudizio definitivo sulla felicità di qualcuno, fino a che egli non giunga a morte, ovvero fino a che la sua vita non sia compiuta.
E nel frattempo? Nel corso della nostra vita ci potranno essere momenti relativamente buoni-favorevoli e momenti, al contrario, cattivi-sfavorevoli. Quello che conta è la nostra “magnanimità”, ossia la disposizione d’animo di fronte alle cangianti situazioni del vivere.
Chi è magnanimo è felice.
La felicità, però, non può e non deve essere lodata. La lode è la maniera che noi abbiamo di compiacerci di fronte al raggiungimento di un bene relativo: una vittoria, un successo, una intuizione scientifica.
Invece, la felicità è qualcosa di assoluto, principio e fine di ogni nostra azione; come tale, similmente agli dèi, deve essere fatta oggetto di onore e “declinata” in molti modi.
