Queste riflessioni nascono dalla mia ormai “vecchia” esperienza in Psichiatria/ Psicologia e dal mio nuovo approccio all’Antropologia Filosofica.
O, meglio, forse non è esatto parlare di “nuovo” approccio, sarebbe come dire nuovo approccio all’essere umano, che, invece, prima per la mia formazione medica e poi per quella psichiatrica, ho avuto modo di studiare ed approfondire già da tempo.
Convinta, fin da subito, che non è possibile scindere il “corpo” dalla “mente”, ma che essi costituiscono un binomio inseparabile e questo ho potuto verificarlo tanto nella “normalità” della persona, quanto in tante delle psicopatologie di cui mi occupo ed in cui la componente somatica ha, comunque, un grosso peso nella salute psicologica.
Soprattutto nelle malattie psicosomatiche non è possibile curare il corpo tralasciando la mente e viceversa, proprio perché la “trascuratezza” terapeutica dell’una parte porterebbe ad una inevitabile ricaduta dell’altra, per quanto con cura possa essere stata trattata.
In particolare nello studio di questa parte dell’Antropologia mi ha affascinato il tema del Riso e del
Pianto in Plessner che mi ha richiamato alla memoria Freud ed il suo “Un ricordo d’infanzia di
Leonardo da Vinci”, letto qualche tempo fa.
Plessner ( Wiesbaden 4/9/1892 – Gottinga 12/6/1985), che, con Scheler e Gehlen, è uno dei
fondatori dell’antropologia filosofica contemporanea, ritiene che l’uomo si caratterizzi non solo per la
sua capacità di esprimersi col linguaggio e di compiere procedimenti astrattivi e razionalizzanti, ma
anche per la sua capacità di piangere (Weinen) e di ridere (Lachen).
Il riso e il pianto sono espressioni emotive tipiche dell’essere umano, ma non sono solo
manifestazioni affettive ed emotive e per coglierne la natura più intima, occorre indagare sul rapporto
che l’uomo ha con se stesso e con il suo corpo.
Scoppiare a piangere o a ridere rappresenta una sorta di frattura nell’equilibrio psico-fisico dell’uomo,
una perdita di controllo di sé che, in quei frangenti non riesce più ad esprimersi come fa
abitualmente, ad affrontare di petto l’ondata emotiva che lo travolge.
Tanto nel pianto quanto nel riso, si ha una frattura tra corpo e mente, con un’improvvisa perdita del
dominio di sé. Potremmo dire che, mentre nell’esplosione fulminea del riso si interrompe il rapporto
tra l’io e il suo corpo, lasciando a quest’ultimo la libertà di replicare, nel graduale abbandono al
pianto, è l’uomo stesso a rinunciare a tale rapporto, lasciandosi trascinare dall’emotività.
L’uomo “è” un corpo ma “ha” anche un corpo.
Riso e pianto, inoltre, non sempre rappresentano stati emotivi, rispettivamente, di gioia o di dolore.
Esistono dei fenomeni paradossi, per cui ci si potrebbe trovare a piangere di gioia o a scoppiare a
ridere per mascherare tristezza o disagio.
Riduzionismo è pensare che chi ride sia felice e chi piange sia, invece, triste.
Nella concezione di Plessner il sorriso rappresenta, a differenza del riso, una forma espressiva di
massima mediazione con l’altro da sé, tipica di un essere eccentrico, che non può mai essere
definito una volta per tutte.
L’essere umano, infatti per Plessner è aperto al mondo, ma è situato sempre prima o dopo lo
vediamo.
In “Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci”, Freud cerca di spiegare il fascino espresso dal sorriso
della Gioconda; le ipotesi plausibili, per Freud, potrebbero essere ricondotte alla storia familiare di
Leonardo, al ricordo della madre assente, alla sua sessualità repressa e sublimata nell’arte.
È possibile che Leonardo fosse affascinato dal sorriso di Monna Lisa perché destava in lui qualcosa
che era rimasto a lungo sopito nella sua mente, e che, in qualche modo il sorriso di Monna Lisa gli
rimembrava, simbolicamente, quello della madre, tanto che questo sorriso riusciva a colmare il vuoto
dell’assenza ed a pacificarlo anche con se stesso.
Nonostante queste ipotesi, Freud, asserisce di non essere riuscito, al termine, a chiarire
la creatività dell’artista, e che, quindi, la creazione artistica non è accessibile alle spiegazioni
psicoanalitiche.
L’arte, allora, è creazione di presenza in assenza dell’oggetto d’amore.
Nell’arte, piacere, desideri e realtà sembrano coincidere e ritrovarsi.
Il fenomeno del riso può suggerire un insegnamento a livello antropologico, poiché in esso si mostra
e insieme si cela il mistero dell’essere umano, la sua unicità: egli è l’unico essere vivente capace di
sorridere e di esprimere molteplici e differenti modalità di riso.
Ridere, allora, non è un semplice gesto banale, che mette in modo una serie di muscoli ( zigomatici
ed il diaframma, oltre ai muscoli deputati alla respirazione nel tratto più alto, quelli laringei…non a
caso quando ridiamo ci manca il fiato) e di pieghe della pelle: in esso si concentra l’intera persona
in tutta la sua complessa modalità di spirito e di corpo.
Ma, il sorriso che accomuna filosofia e psicologia, rimanda anche alla dimensione del “mistero”, più
del riso. Il sorriso ha una dimensione sociale, più del riso. Il sorriso è comunicazione con l’altro, ma è
anche mettere le distanze dall’altro, è espressione di intelligenza.
Imparare, quindi, tanto dalla Antropologia quanto dalla Psicologia / Psicoanalisi ad essere “seri” nella
ricerca ma anche a non prendersi mai troppo sul serio nella vita….
S. Freud, Un ricordo d’infanzia in Opere 1905-1921, cit. pp. 392-393; 397
H. Plessner, Il riso e il pianto Una ricerca sui limiti del comportamento umano, Bompiani, Milano 2000