Per ognuno di noi ed in ogni epoca storica, il dolore ha assunto sembianze e significati diversi. E motivazioni diverse, Come se si dovesse necessariamente trovare una giustificazione al dolore.
Soffrire fa parte dell’essere umano, ma a volte assume sembianze disumane. Non esisterebbe colpa da dover espiare, per quei dolori laceranti dell’anima che lasciano annichiliti. La perdita di un figlio, di un genitore, di qualcuno che amiamo ci lascia increduli, attoniti, sbigottiti, con quella sensazione di incapacità di andare oltre, di suparare, di sopravvivere. E a volte pensiamo di voler seguire colui che abbiamo perso, nella speranza di poterlo ritrovare da qualche parte.
Poi desistiamo, per coraggio, a volte, per viltà, altre volte.
Nella Grecia antica il dolore era condizione originaria dell’uomo. Era inevitabile che egli ne facesse esperienza, ma era anche la via per la catarsi, la purificazione. Il tragico era il rimedio al dolore stesso.
Nella religione cristiana il dolore assumeva un senso, quello del dover espiare, attraverso la sofferenza, il peccato originale e questo stesso senso era consolatorio, qualunque fosse la “croce” da portare, anche perchè era stato il Cristo per primo a portarla.
Ma il dolore ha anche valore “paideutico”: soffrire insegna, e lo vediamo nel nostro quotidiano: banalmente dall’evitare il dolore fisico se la fiamma di una candela ci ha già bruciato una volta, evitiamo di avvicinarci una seconda volta, meno banalmente, forse, evitiamo situazioni che ci hanno provocato una sofferenza emozionale. Se è possibile evitarle.
Il linguaggio del sofferente può essere differente: c’è chi urla al cielo, come se chi lo sente più forte avesse la capacità di consolarlo di più. C’è chi se lo tiene dentro, silente, quasi a difenderlo dalle intrusioni altrui. So che il mio, in questo momento, è imparagonabile agli altri dolori che ho menzionato, ma lo dico lo stesso. E’ pur sempre un dolore.
Ecco, io ho scelto questo momento di silenzio assoluto per fare ritorno nel mio studio, quello di Boves che ho lasciato, dopo averci vissuto per quasi 15 anni, in cui ho passato la maggior parte del mio tempo ed in compagnia delle persone che si sono legate a me,con lacrime e sorrisi ( loro e miei), molte delle quali hanno deciso di seguirmi altrove, a Cuneo. Uno studio in cui tengo ancora molte delle mie cose, quasi vi dovessi tornare.
Per me il dolore è silenzio. Catartico è scriverne.
E oggi per me questo è dolore.