Nella sua “Etica” Spinoza si occupa del tema degli “affetti”.
La parte terza, De origine et natura affectuum, si apre con una obiezione ai “si dice” della doxa (o della filosofia poco dotta):
“La maggior parte di coloro che hanno scritto sugli affetti e sul modo di vivere degli uomini, sembra che trattino non di cose naturali, che seguono le comuni leggi della natura, ma di cose che sono al di fuori della natura. Sembra anzi che concepiscano l’uomo nella natura come un impero nell’impero”.
L’attenzione di Spinoza è rivolta all’aspetto antropologico, o naturalistico: l’uomo è una specie, né superiore né inferiore alle altre e trova la sua stessa origine nella natura.
“La natura è ovunque una e identica, cioè le leggi e le regole della natura secondo le quali tutte le cose avvengono e si mutano da una forma in un’altra sono ovunque e sempre le stesse…” (Pref.Et.III.)
Spinoza spiega la sua idea sull’origine, la funzione e il compito degli affetti.
“Per Affetto intendo le affezioni del Corpo con le quali la potenza di agire dello stesso corpo è aumentata o diminuita, favorita o ostacolata e, simultaneamente, le idee di queste affezioni”.
Nella Proposizione VI si legge:
“Ogni cosa, per quanto è in sé, si sforza di perseverare nel suo essere”.
Tale sforzo, come essenza delle cose, è struttura comportamentale, il Conatus, che, quando attiene l’intelletto, la mente, si chiama Volontà, quando invece riguarda il corpo e la mente, è definito Appetito.
Quando l’appetito è cosciente di sé, abbiamo la Cupidità.
“ Noi non cerchiamo, vogliamo, appetiamo, né desideriamo qualcosa perché riteniamo che sia buona, ma, al contrario, che noi giudichiamo buona qualcosa perché la cerchiamo, la vogliamo, la appetiamo e la desideriamo.”
Dalla Cupidità si generano gli Affetti Primari, che altro non sono che uno stato d’animo successivo ad un passaggio verso una maggiore perfezione, la Gioia, oppure la caduta ad una condizione peggiore, la Tristezza.
Da questi Affetti Primari, si passa al concetto di Bene, a quello di Male ed agli Affetti derivati.
Il bene per Spinoza è ciò che giova alla conservazione, il male ciò che ostacola la conservazione.
“L’affetto che si dice Patema dell’animo è un’idea confusa, con la quale la Mente afferma una forza di esistere del suo Corpo o di qualche sua parte maggiore o minore che in precedenza e, data la quale, la stessa Mente è determinata a pensare questo piuttosto che quello”.
L’Amore, l’affetto su cui concentrerò in questa sede la mia attenzione, si può manifestare in gradi diversi, che vanno dall’amore privato all’amore che assume una dimensione sociale. Ma l’amore, anche quando privato, non può prescindere da una produzione attiva di relazioni.
Questo concetto è assolutamente conforme alla filosofia di Spinoza: c’è solo una sostanza e, dunque, non è possibile giudicare una forma di amore come più sostanziale di un’altra, così come non si può considerare un effetto come gerarchicamente inferiore alla causa che lo ha prodotto.
In qualche modo, se si seguisse questa strada, perderebbero di valore sia l’effetto che la sua causa.
Con questo Spinoza non vuole mostrare che un effetto sia espressione completa della sua causa, ma ne è tuttavia un segno.
Per Spinoza la causa è chiamata”immanente”, immanente al suo effetto.
Tuttavia, la causa non è identica al suo effetto: l’identità di causa ed effetto si ha solo per qualcosa che è causa di se stessa, causa sui.
Spinoza considera l’amore, questa capacità di costruire relazioni, come inalienabile, una capacità che non può esserci tolta, una capacità essenziale senza la quale la cosa non potrebbe esistere. L’amore non è astratto e considerato come un fine da raggiungere, cioè identificato con un oggetto a cui tendere.
L’amore per Spinoza è “conatus”, cioè sforzo, tentativo, tendenza:
“Lo sforzo (conatus) con cui ogni cosa cerca (conatur) di perseverare nel suo essere non è altro che l’essenza attuale (actualem essentiam) della cosa stessa” (prop. VII).
La tensione è lo spasmo per liberarsi, è desiderio di libertà.
E’ lo sforzo per continuare a esistere.
La definizione di amore in Etica, III, proposizione 13 (scolio) e definizione 6: “L’amore è Gioia concomitante con l’idea di una causa esterna”,
va di pari passo con la definizione di odio:
“Tristezza concomitante con l’idea di una causa esterna”.
L’amore e l’odio hanno per Spinoza qualcosa in comune. Entrambe hanno a che fare con una causa esterna e con l’idea di tale causa.
L’amore e l’odio sono, per la maggior parte delle persone, e il più delle volte, passioni, vale a dire sentimenti che non riusciamo a definire, o dei quali ignoriamo l’origine.
Oppure, le passioni sono fenomeni che possono causare altri fenomeni, ma che ci appaiono senza causa. Dunque, passioni come l’amore e l’odio ci appaiono come “misteri”.
Quando Spinoza parla di un individuo schiavo delle proprie passioni, intende che questo individuo tende a permanere nel suo stato di attività contro le pressioni di altri modi soggetti a passioni ed impiega tutte le proprie energie per permanersi nel suo stato di attività. Gli altri modi sono percepiti come minacce.
Le passioni disorientano l’attività di un modo nei confronti di altri modi, in quanto sono caratterizzate da una grande instabilità, a causa del grande consumo di energie necessario a mantenerle in vita.
Le passioni sono segni delle variazioni nell’attività dei modi, vanno sempre insieme a delle idee, ma non sono idee: sono piuttosto delle “transizioni”.
Nel caso dell’amore ci deve essere necessariamente l’idea del modo amato, ma come è possibile dare alle passioni, variazioni per eccellenza, una coerenza tale per cui si possa parlare di amore, odio, invidia, in quanto passioni?
Il punto di partenza potrebbe essere che gli elementi variabili esistono solo all’interno di un campo continuo, e non possono essere compresi in sé ma solo in quanto facenti parte del continuum stesso.
Ogni elemento in sé è un’astrazione, che sfugge ad ogni tentativo di isolamento, ma che tuttavia continua ad esistere in qualcos’altro, attraverso il quale può essere compreso.
Questa definizione si applica anche alle passioni: se considerassimo come la causa di una passione l’oggetto esterno al quale essa è diretta, non avremmo trovato la vera causa della passione. L’amore come passione si ridurrebbe in questo caso all’amare qualcuno o qualcosa perché questo qualcuno o qualcosa è amabile.
Questo significherebbe spiegare l’amore attraverso l’amore, come causa di sé.
Ma se l’amore fosse causato da se stesso, allora ci troveremmo davanti a un amore eterno.
Eppure l’interazione spesso violenta tra i modi ci mostra che l’amore è instabile e mutevole. La volontà del modo soggetto a passione verso l’oggetto amato è causato dal conatus: lo sforzo di permanere nella propria esistenza, una esistenza piacevole.
E’ certo che Spinoza non possa considerare il conatus come uno sforzo di mantenere un’esistenza triste. Eppure Spinoza (Etica, III, Prop. 13) considera il rischio della perdita del piacere come presente già dal momento in cui l’amore si manifesta. Se la paura diventa così un ingrediente della passione dell’amore, la passione diventa confusa e troppo complessa perché l’amante possa comprenderla. L’amante soffre per qualcosa causato non intenzionalmente da lui stesso, eppure continua nella sua tensione verso l’amore, che, anzi, diventa più forte proprio a causa della paura della perdita.
La storia d’amore, allora, può finire in una situazione in cui l’amante si considera una vittima delle circostanze, schiavo delle proprie passioni, ma che continua a compiere disperati tentativi per non perdere ciò che possiede.
A questo si collega anche, per Spinoza, il concetto di “libero arbitrio”.
La volontà è considerata libera, cioè capace di causare ma non di essere causata, solo fino a quando sopraggiunge la tristezza, e l’illusione del libero arbitrio svanisce.
Il modo si trova quindi a vivere in un mondo che appare alternativamente dominato dal libero arbitrio o completamente abbandonato a incontri casuali e nel quale ogni possibilità di volere è cancellata.
Il concetto di libero arbitrio è poco affidabile: siamo tentati ad abbandonare la nostra adesione al libero arbitrio non appena abbiamo l’inevitabile esperienza di incontri negativi con modi più potenti.
Il concetto di libero arbitrio è instabile e non può funzionare al di fuori delle passioni.
La soluzione che trova Spinoza è che la sostanza è una, mentre il libero arbitrio è qualcosa che esiste solo talvolta.
Una sostanza unica significa che non esistono due mondi, uno della gioia e l’altro della tristezza, ma qualsiasi tristezza, solitudine e miseria deve essere affrontata e superata in questo mondo.
Non esiste un altro mondo senza dolore e sofferenza: se esistesse sarebbe un mondo eternamente privo di passioni.
Per Spinoza l’unica possibilità per vincere le passioni è superare la temporalità all’interno di questo mondo e trasformare le passioni in affetti attivi.
L’amore è ciò che permette di costituire questa condizione trovando elementi di eternità nel continuum della temporalità.
L’amore è una passione e l’amante è il suo schiavo. Ciò appare tanto più evidente quando si considera che esso può trasformarsi in odio.
In quanto effetto di un eccessivo sforzo per il mantenimento del piacere dell’amore, la transizione da amore a odio non è intenzionale. Nessuno vorrebbe odiare. La non-intenzionalità di questa transizione può però derivare dall’intenzione dell’amante di mantenere a sé il modo amato. La ragione di ciò è che per l’amante il miglior modo di trattenere a sé l’amato è prevenire che cada in possesso di altri modi.
L’amante possessivo vuole il proprio amato solo per sé.
Ma lo sforzo di mantenere l’esistenza della gioia, inevitabilmente, secondo Spinoza, produrrà tristezza: prolungare l’esistenza del modo amato, la gioia, senza capirne la natura e la relazione intrinseca con altri modi. Il risultato è un consumo improduttivo di energia, che il modo, nel suo isolamento, percepirà come tristezza. Dunque, la tristezza sarebbe il risultato di un mantenimento “entropico” della gioia.
Sebbene le passioni siano i segni di un’attività variabile e concomitanti con idee inadeguate, esse non producono idee. Non si pensa inadeguatamente perché si è soggetti a passione. Al contrario, si è soggetti a passione perché si pensa inadeguatamente. La passione accompagna pensieri inadeguati, ma non li causa. Allora occorre capire la causa razionale di ogni passione ed utilizzare una passione per innescare nuove composizioni della stessa, o per trovare nuove passioni che possano garantire un’attività più stabile e duratura.
Dunque, anche quando si odia c’è attività e questo dualismo domina il mondo, le nostre anime e i nostri corpi. Il dualismo, però, non è sostanziale: un’ontologia del male e dell’odio non può esistere, anche se è una minaccia alla quale siamo quotidianamente soggetti.
Per Spinoza non può esistere una totale passività o assenza di attività. Ogni passione contiene un elemento di attività. Per questo motivo non può esistere una volontà di attività, perché ciò significherebbe partire da un punto iniziale di non-attività dal quale divenire attivi.
Ogni passione si trova sempre in medias res: c’è sempre qualcosa di già attivo che causa passioni simultanee. Ogni modo è immerso nell’essere, e nessun modo è causa della propria esistenza, né di conseguenza della propria attività. In questa situazione essere causa di sé implicherebbe una creazione ex nihilo, un passaggio dal non-essere all’essere, che per Spinoza è impossibile. Di conseguenza, il dualismo attività-passività non può esistere, semplicemente perché uno dei termini non esiste per sé.
Se utilizzassimo il dualismo attività-passività non approderemmo solo a una conoscenza inadeguata della passività, ma anche dell’attività stessa. Per Spinoza non può esistere un’attività come una controparte della passività. L’attività è possibile solo se esiste qualcosa di già attivo in precedenza, e un aumento di attività è possibile solo sulla base di una condivisione di attività già esistenti. La condivisione di attività produce una loro intensificazione, mentre la loro separazione ne produce un deficit.
Questo, al contrario del classico modello dualistico di attività e passività, forma e materia, che troviamo in Aristotele, laddove l’attività del pensiero si sviluppa a discapito di una materia passiva.
Per Aristotele le forme sono attive proprio perché la materia è passiva. Questo significa che la passività della materia non è reale ma prodotta, immaginata dalla mente. La materia non è passiva in sé, ma attraverso qualcos’altro. La sua passività non è l’opposto delle forme pensate, ma è la loro proiezione.
Quindi il dualismo tra forma e materia, attività e passività, si riduce a un ens rationis.
Secondo il dualismo attività-passività, la comunanza dei modi non è radicata sul piano della loro attività, della loro potenza comune, ma deriva da un livello trascendente.
Nel modello aristotelico di forma e sostanza non c’è nulla nel modo in sé che possa condurlo verso l’attività, e di conseguenza a una comunanza con altri modi.
La generalità delle forme aristoteliche deve avere una preminenza sulla passività immaginata degli individui. Non c’è possibilità di costruire qualcosa in comune tra essi, e questo dualismo è individuabile nella definizione di amore di Descartes. Nonostante la sua critica alla tradizione scolastica aristotelica, Descartes manterrà il dualismo tra il libero arbitrio di una mente attiva e la passività del corpo.
Descartes nell’art. LXXIX delle Passions de l’âme, vede l’amore come “une émotion de l’âme, causée par le mouvement des esprits, qui l’incite à se joindre de volonté aux objets qui paraissent lui être convenables”.
Secondo Descartes, allora, il fulcro dell’amore è che l’amante vuole congiungersi con l’amato.
In Etica, II, Def. 6, expl., parlando dell’amore, invece, Spinoza critica gli autori che vendono l’amore essenzialmente come la volizione dell’amante a unirsi con l’amato. Dal suo punto di vista, autori come Descartes non riescono a cogliere l’aspetto in medias res dell’amore.
Questo è solamente un effetto dell’amore, ma la ragione di questa volizione è il cambiamento attivo che l’idea dell’amato causa nel modo amante. La potenza esistenziale dell’amante è aumentata. Qualcosa è cambiato nel mondo, ma questo cambiamento non è avvenuto solamente nell’amante. Si ama qualcuno per il piacere che questo modo ci dà. Volere l’unione con quel modo significa semplicemente essere soddisfatti di tale piacere, e il modo amante tende a permanere nella soddisfazione dell’effetto piacevole della propria azione.
La volontà di unione è il segno simultaneo di questa tendenza nel conatus. Ma proprio perché l’effetto è simultaneo alla sua causa, e la coscienza del modo è la coscienza dei suoi effetti (e mai delle sue cause), è impossibile per il modo soggetto a passione conoscere la causa di quest’ultima. Il primato della causa non può essere concepito come un primato cronologico, perché nel tempo la causa e l’effetto sono simultanei. Quindi, deve essere considerato atemporale, al di fuori della durata, sub specie aeternitatis. La causa della volontà dell’amante di unirsi all’amato è sempre presente, e questa causa non è altro che il conatus, l’essenza stessa del modo che fa sì che esso voglia congiungersi con il modo amato. Il conatus del modo è costantemente attivo, e questa costanza rende impossibile ogni idea di transizione dalla passività all’attività. Non possono esserci oggetti specifici che innescano o annullano l’attività del modo. All’interno di questo continuum non si può che amare, data la costante attività del modo.
L’amore non è che l’intensificazione di un’attività già in corso.
Per questo diciamo che l’amore è in medias res, e non può essere l’inizio di una attività eccezionale causata da un modo unico o quantomeno ammirevole scelto tra tutti gli altri modi.
Nella prop. 13 Etica, III, l’amore è gioia concomitante con l’idea di una causa esterna. Secondo Spinoza non può esserci un affetto come la gioia, se non c’è un’idea dell’oggetto amato. Si è in qualche modo attivi se si ama, e, come sempre, non si può fare a meno di pensare, cioè di produrre idee, in questo caso l’idea di qualcosa amato. La gioia è il segno che indica l’intensificazione di queste relazioni, l’incremento nella comunione tra modi. L’idea è concomitante con il fatto di essere affetti da questo oggetto e segnala le tracce, gli effetti che il corpo amato lascia sul corpo amante. Dunque, un corpo deve avere la capacità di essere affetto, di entrare in relazione reale con gli altri e di avere la possibilità di intensificare tale relazione.
L’idea che si ha dell’oggetto amato un’idea di ciò che si ha in comune con quell’oggetto. O meglio: ogni idea che si ha non è mai relativa ad un solo oggetto, ma a questo oggetto e tutte le altre idee avute in passato. Ogni idea che si ha si riferisce a un concatenamento di vari gradi di attività in comune con altri oggetti.16
La comunanza nell’amore ha una qualità inconscia o meglio, ontologica.
Allora, anche le forme meno intense e povere di amore possono intensificarsi, al positivo, per via della comunanza senza la quale non potrebbero nemmeno esistere. Al negativo, però, questo “divenire ” può portare anche a forme di corruzione.
Il divenire è necessario, ma la sua direzione non lo è mai.
In altri termini, non possiamo sapere in anticipo cosa possiamo, nel bene e nel male, fino a che non lo facciamo.
In Spinoza l’amore ha anche un altro livello, se viene concepito come un affetto, e non più come una passione. Questo è l’amore per Dio che Spinoza discute nella parte V dell’Etica.
L’amore per Dio si differenzia profondamente dalle altre forme di amore, perchè non può tramutarsi in odio.
A tutta prima, allora, saremmo portati a pensare che esiste un dualismo tra amore umano e divino.
In questo caso Dio dovrebbe essere trascendente, e gli umani dovrebbero essere sostanze individuali e separate da Dio.
L’amore per Dio è l’amore per la potenza immanente della vita, della vita che produce vita e costruisce il mondo.
L’amore per Dio non è quindi un amore supremo per qualcosa di trascendente, posto al di sopra dei modi singolari.
I modi per Spinoza sono i modi di Dio. Per questo egli afferma nella prop. 24, Etica V, che:
“quanto più conosciamo le cose singolari, tanto più conosciamo Dio.”
Dio è causa di se stesso, e allo stesso tempo dell’esistenza e dell’essenza dei singoli modi.
Qui è, ancora una volta, individuabile l’allontanamento di Spinoza dalla definizione cartesiana di amore. Descartes aveva posto l’accento sulla centralità della volontà dell’amante di unirsi con gli oggetti “qui paraissent lui être convenables.”
Descartes usa la volontà come un termine non definibile.
Spinoza direbbe che Descartes non ci fornisce la ragione sufficiente della volontà, così come egli non ce la fornisce per l’essenza di Dio.
La volontà ha per Descartes un significato che è dato per scontato e che esiste al di là della sua definizione. La volontà in Descartes, come l’idea di Dio, rimane non intelligibile. Piuttosto che costruire idee attorno a questi concetti, egli si accontenta di accettare questi nomi così come vengono impiegati nell’uso comune.
Per Spinoza una definizione è più di un nome da attribuire alla cosa, e deve fornire la causa effettiva dell’idea che ci si prefigge di definire.
L’idea diventa il prodotto stesso della sua definizione. In un certo senso, è come se l’idea si definisse da sé, è “adeguata”. Un’idea adeguata non ha causa al di fuori dell’ambito della sua definizione. È una espressione completa della forma, dell’attributo del pensiero.
La definizione dell’amore per Spinoza previene l’insorgere del dualismo tra amore come passione e amore supremo di Dio: la definizione di amore si applica sia all’amore passionale, sia all’amore per Dio. Nella definizione di amore è possibile discernere la stessa causa sia per l’amore come passione, sia per l’amore di Dio, sebbene la relazione tra causa ed effetto differisca nei due casi, nei termini dell’intensità della loro stessa espressione. Il conatus, l’attività di un modo nel mantenere la propria esistenza, è la forza motrice di ogni relazione amorosa come passione. Ma Spinoza ci dice anche che il conatus di un modo è un grado intimo dell’attività effettiva della sostanza.
Così, ponendo cioè la causa dell’amore come passione nell’effettiva attività della sostanza, Spinoza è in grado di costruire il punto in comune tra l’amore di Dio e l’amore come passione, mentre per Descartes l’amore come passione e l’amore per Dio non hanno nulla in comune. La volontà di unirsi con l’amato, il nocciolo dell’amore cartesiano, si basa su un’unione “qui e ora”. La volontà ha il suo possibile eccesso e la sua stabilità immaginaria proprio in virtù della sua temporalità. La volontà deve operare come una coscienza istantanea, senza sapere cosa succederà all’oggetto amato in un altro istante nel tempo. Questo non significa che il tempo necessariamente può sopraffare gli esseri umani, ma che siamo sopraffatti dal tempo in quanto prodotto della nostra immaginazione nel momento in cui siamo schiavi delle passioni.
Nel caso dell’amore di Dio non abbiamo più un “qui e ora”, non abbiamo bisogno di volontà né coscienza per sopravvivere alla successione senza fine di istanti, né siamo più soggetti a passioni soggette a durata.
L’amore per Dio è eterno e per questo non è una passione. Non solo non è possibile odiare Dio, ma non è possibile volersene separare. Solo gli oggetti umani possono essere voluti, ma a costo di divenire segni di un conatus che opera istantaneamente nel tempo.
Se comprendiamo che è il conatus, e non la volontà, che sta alla base anche dell’amore in quanto passione, allora è possibile una transizione dall’amore e all’amore di Dio.
L’amore come passione, per via della sua causa, è variabile. È l’effetto di una causa che non è identica a esso. Questa non-identità è proprio la ragione della variabilità del modo nel tempo, della sua durata. Poichè la passione è il risultato di un’attività variabile, tale variazione può condurre la passione a tramutarsi in un affetto. L’amore come passione può divenire amore per Dio.
Dato il loro modo di essere causate, le passioni possono divenire altre passioni, o divenire affetti attivi, e questo divenire avviene in maniere a noi sconosciute. Non esiste un destino per le passioni, un circuito chiuso e invariabile dell’amore umano, proprio per il fatto che questo amore condivide la propria causa con l’amore di Dio.
Se ripensiamo alla scena del balcone di Romeo e Giulietta essa è l’archetipo dell’amore romantico. Ma è proprio in questa scena che Shakespeare ci mostra l’amore di Dio. Che significa amarsi per Romeo e Giulietta? Significa costruire un proprio mondo, cioè la molteplicità di relazioni che si formano tra Giulietta e il suo essere, nel momento in cui queste sono affette dalle relazioni istituite da Romeo, e come quest’ultime sono affette a loro volta da Giulietta.
Il loro amore è una relazione tra relazioni. L’amore intensifica la potenza, già presente nei due amanti, di vivere il mondo trasformandolo. Gli amanti attivano a vicenda la loro attività, costituendo una nuova singolarità come un nuovo modo attivo, al punto che, nell’apice di questo incontro gioioso, gli amanti rinunciano alla loro identità
Cosa sono, allora, Romeo e Giulietta? Essi non sono solo una coppia, una somma di individui. La figura dell’individuo, o meglio, dell’individuo come sostanza, non è più utile all’organizzazione del loro amore. Condividendo il loro amore, Romeo e Giulietta attivano la loro attività, amano il loro amore. E, dunque, l’individuo è un contenitore troppo stretto per questo amore, e l’unica maniera che rimane loro per amarsi è l’amore dell’amore che Spinoza descrive nella quinta parte dell’Etica..
Michel Foucault ci consiglia di non dimenticarci di inventare le vostre vite. Ed allora per noi che un altro mondo è possibile, purché esso sia colmo d’amore.
brava un bel lavoro
Grazie!