Giudizia ed Equità in Aristotele

La società contemporanea vive nel timore costante del giudizio. Tra i fattori che hanno contribuito a questo predominio del controllo di sé e degli altri a discapito della libertà individuale, si evidenzia, soprattutto la prevaricazione di uno sull’altro.
Viviamo in una realtà che ci richiama continuamente ai nostri doveri, sempre pronta a giudicare quanto viene detto, quanto viene fatto, analizzando nel dettaglio ogni passaggio del nostro operato. Lo spazio lasciato alla possibilità di errore è divenuto un elemento più disumano che umano. Bisogna essere sempre più prestanti, performanti, sempre all’altezza. Non sono ammesse le defaillances.
Il verbo “giudicare” reca con sé un che di definitivo, presuppone una certa distanza dall’oggetto preso in esame.
Giudicare è il verbo che descrive al meglio la condotta dell’uomo tipo di oggi: se io sono dominato dal il timore, dalla paura che l’altro possa prevaricarmi, usarmi, ho bisogno di ricorrere a mezzi implacabili che tutelino i miei spazi, le mie libertà, le mie ragioni. Il mondo si trasforma in un “tribunale”, in cui ogni sentimento va rimesso in riga, ogni richiesta non correttamente formalizzata viene condannata, ogni desiderio deve fare i conti col diritto dell’altro, e non con la sua comprensione.
Alla vicinanza empatica del riconoscimento si preferisce il distacco che appiattisce l’identità dell’altro, mettendo sotto silenzio o comunque ponendo in secondo piano i desideri dell’altro. L’altro diventa una serie di diritti e doveri da rispettare.
Questo perché, in un mondo dominato dal sospetto, non ci si può concedere il lusso di aprirsi alla persona che si ha di fronte, bisogna tenere alta la guardia e diventare “maestri” del sospetto per stare pronti ad evitare ogni attacco e per riuscire a ricadere sempre in piedi. Il possibile danno verso di noi è sempre in agguato e la vita deve essere una difesa continua.
In questo cosa rappresenta la Giustizia?
Essa deve declinarsi nei termini di garanzia del rispetto del proprio compito. Sono giusto se conosco le regole, le leggi, faccio il mio dovere, rispetto i diritti degli altri, do ad ognuno quello che merita.
Forse sarebbe semplice rispettare una giustizia così precostituita, ma non tutti sono concordi nel definire la giustizia come un insieme di norme da rispettare ed applicare.
Fiduciosa nella bontà della politica e della vita pubblica, la società classica, greca prima, romana poi, ci ha lasciato ampie riflessioni sul ruolo e lo statuto della giustizia.
Uno dei contributi più studiati ed, effettivamente, più fecondi e ben assemblati è l’Etica Nicomachea di Aristotele, una raccolta delle lezioni del filosofo, in dieci libri, uno per tematica, in modo da riassumere tutti gli insegnamenti relativi al discorso morale.
Il libro V parla proprio della giustizia.
Secondo l’opinione comune la giustizia sarebbe uno stato abituale che si oppone all’ingiustizia come illecito e come disonesto. Questa virtù è la più elevata, in quanto si realizza in rapporto con gli altri (non posso essere giusto da solo); ci sono vari tipi di giustizia, quella che ripartisce i beni tra i membri delle comunità, quella che tutela le relazioni sociali, quella che legittima il contraccambio. Il giusto, in qualche modo, corrisponde all’uguale, un rapporto a quattro termini tra due persone e due cose, al termine del quale una proporzione geometrica decide quanto delle due cose spetta alle due persone.
Aristotele, poi, riflette sul livello di giustizia o ingiustizia delle azioni e dei soggetti, a partire dal grado di volontarietà delle azioni compiute.
Nelle ultime pagine del libro viene chiamata in causa l’equità.
Non si dà una definizione precisa di questo nuovo elemento, piuttosto si ragiona sul rapporto che intercorre tra giustizia ed equità:
“In effetti l’equità, pur essendo migliore rispetto ad un certo tipo di giusto, è giusta, e non è “migliore” del giusto nel senso che appartiene ad un altro genere rispetto ad esso. Quindi ciò che è giusto e ciò che è equo sono la stessa cosa e, pur costituendo entrambe realtà eccellenti, l’equità è superiore” (1).
Cos’è che rende l’equità un discorso legato alla giustizia e, per alcuni aspetti, qualcosa di superiore alla giustizia stessa?
Il ragionamento va condotto in questi termini: se c’è qualcosa che supera la giustizia, significa che c’è qualcosa di superiore al rispettare le leggi; non basta fare il nostro dovere, dobbiamo e possiamo fare di più.
Cosa rende l’equità superiore alla giustizia?
“Ogni legge è universale, ma su certe questioni non è possibile pronunciarsi correttamente in forma universale. […] Quindi, quando la legge si pronuncia in generale, e successivamente accade qualcosa che va contro l’universale, è legittimo colmare la lacuna, qualora il legislatore abbia tralasciato il caso e abbia sbagliato, parlando in generale. […] Perciò l’equità è giusta, ed è migliore di un certo tipo di giusto, anche se non del giusto in assoluto, ma del giusto che è difettoso per il fatto di essere stato formulato in generale. E la natura dell’equità è proprio quella di correggere la legge laddove essa, a causa della sua formulazione universale, è difettosa” (2).
La giustizia mette nero su bianco delle norme valide e riconosciute da tutti, quindi sembra essere un fattore forte ma, in realtà è debole, in quanto il suo discorso generale a volte può essere insufficiente a giudicare il caso particolare, oppure altre volte può portare ad una valutazione sbagliata in una determinata situazione
“Non tutto può avvenire secondo la legge, cioè […] in certi casi non è possibile stabilire una legge, e così c’è bisogno di un decreto particolare. Infatti la norma di ciò che è indefinito è essa stessa indefinita”(3)
Aristotele vuole darci un messaggio molto chiaro: la legge è imprescindibile nella risoluzione delle contese, ma proprio la rigidità derivante dalla sua universalità rischia di farla spezzare in alcune situazioni particolari. Sono questi i casi in cui è bene correggere la legge con la flessibilità dell’equità, che guarda sia alla legge sia al caso specifico che ha di fronte, una sorta di “giustizia dal volto umano” che Arianna Fermani identifica nella figura di Emone ( 4), figlio di Creonte e futuro sposo di Antigone, che ha provato a mediare tra l’ostilità dei due contendenti, ma è morto suicida.
Sapere cosa è giusto in generale è bello ed utile, ma non basta, bisogna riuscire anche a comportarsi equamente in ogni situazione.
Il modello proposto da Aristotele mette alla prova molte generazioni di pensatori, fino ad interrogare anche filosofi recenti sul tema della giustizia, come Paul Ricoeur ( 1913 – 2005), per il quale, però, in qualche modo, il vero compito della giustizia è la ricostruzione della relazione tra la vittima e il carnefice. La giustizia passerebbe quindi in secondo piano rispetto agli “attori” della storia, chi ha compiuto del male e chi lo ha subito. Allora, riabilitare la vittima, che ha sicuramente perso qualcosa, ma riabilitare anche il carnefice che, pensando di poter guadagnare qualcosa perpetrando un torto, si scopre invece ancora più povero di prima.
Solo il rapporto, il confronto, la vicinanza tra le due parti, entrambe lese può restituire la stima, ad ognuna di esse, che serve ad andare avanti. E qui entra in gioco il perdono.
Ma questa è un’altra storia.

Riferimenti bibliografici
1. A. FERMANI, Le tre etiche, Bompiani, Milano 2008, pp. 675-677.
2. Ivi, p. 677
3. Ivi, p. 677.
4. cfr. A. FERMANI, La virtù di Emone, in Aevum Antiquum, 2009

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