Friederich Schelling affronta il tema del mito negli ultimi anni dei suoi studi. Questo accadde nell’ambito della sua più ampia ricerca filosofica ‘positiva’, in contrapposizione alla filosofia ‘negativa’ di Hegel.
Ciò che contrapponeva i due filosofi entrambi appartenenti alla corrente dell’idealismo tedesco, era la loro idea di approccio alla ‘realtà’: Schelling considerava il reale non come un’espressione della speculazione razionale , umana ma come il frutto di un atto creatore da parte di Dio: un’azione di pura volontà e puro volere che non racchiude in sé nessun elemento razionale, e per questo si definisce ‘positiva’,
Hegel, invece, sosteneva che la ragione debba rendersi utile per raggiungere una
sintesi tra tesi e antitesi. “Ciò che è razionale, è reale; ciò che è reale, è razionale”.
La filosofia positiva di Schelling intende trovare il fondamento metafisico
dell’essere che non è rintracciabile a priori nella speculazione filosofica, ovvero nel
ragionamento razionale ma deve rimandare principalmente all’esperienza.
Questa esperienza di tipo religioso, o meglio, spirituale è intesa come
un’esperienza della fede di tipo metafisico.
La filosofia positiva studierà gli eventi empirici alla luce della fede e la fede alla luce degli eventi empirici, trovando nei dati sensibili la manifestazione progressiva del divino. La filosofia positiva non è una semplice sintesi di un ragionamento fine
a se stesso ma diventa attività pratica, una vera e propria religione filosofica attiva
che mira a comprendere il senso attraverso l’esperienza dell’uomo, lo sviluppo
dell’uomo nel corso dei secoli, e per questo non può che non essere storica.
In netta contrapposizione con le nascenti ideologie relativiste insite nel pensiero
di Marx e Freud che da lì a poco diverranno centrali nella filosofia e cultura occidentale. Esse consideravano il mito come una creazione razionale
dell’uomo a cui attribuivano ognuno scopi e manifestazioni diversi.
Freud, riprendendo il mito di Edipo, sostenne l’ipotesi che il parricidio sarebbe stato il simbolo del monopolio del padre sulle donne dove poi il padre diventerebbe l’animale totemico da cannibalizzare come rito sacrificale con il conseguente senso di colpa. A differenza di Hegel che credeva che tra essere e
pensiero, ovvero tra realtà e ragione esistesse una forma di compenetrazione assoluta al ché l’uno non poteva escludere l’altro, Schelling, ancorato alla tradizione filosofica saldamente legata a Platone e Aristotele, rifletteva sul mito ma anche su un’intera ricerca filosofica: egli riteneva il mito e la rivelazione come entità aventi una propria realtà al di fuori del pensiero e della razionalità umani e una propria storicità, cioè un proprio ruolo e realtà e un evolversi e modificarsi nel corso del tempo.
La mitologia è un “fenomeno assolutamente eccezionale” ed è paragonabile alla
natura stessa, perché proviene dalla natura e fa parte della natura profonda (inconscia) sia dell’individuo che del popolo, dove per natura Schelling intende l’inconscio, ciò che è esistente per sé, al di fuori di ogni pensiero e razionalità umani che possiede una propria forma di vita (essenza) e un proprio valore rispetto all’io, ovvero rispetto alla coscienza razionale perché la natura è la “preistoria della conoscenza” E compito della filosofia è quello di descrivere come la natura si fa coscienza.
All’interno di questa visione della natura, Schelling non può considerare
il mito come una semplice favola nata nelle nebbie dei tempi che serviva all’uomo
per spiegare o giustificare le azioni della natura, o per scrutare la natura dell’uomo o della sua società ma diviene, si mostra come una realtà a se stante, un prodotto della creazione ‘positiva’ che sta alla base non solo dell’evoluzione della coscienza individuale, ma si pone come leva dell’evolversi della conoscenza di qualsiasi popolo ed è per questa sua caratteristica, saldamente inserita nel divenire storico.
“ Non siamo stati noi, ma è la mitologia che ci ha posto nella prospettiva da
cui la tratteremo. Da qui in poi dunque il contenuto di questa conferenza
non è la mitologia spiegata da noi, ma la mitologia che si spiega da se stessa
(…) Noi lasceremo alle rappresentazioni mitologiche il loro senso proprio,
poiché siamo in grado di comprenderle nella loro autenticità”.
Il mito, fenomeno ancora “inspiegato” della storia umana, non rappresenta un
manifestarsi di una favola allegorica che irrimediabilmente serva o tenti di servire a
condurre ad altro, né rappresenterebbe una speculazione filosofica avente un
determinato scopo o azione, ma “la sua interpretazione è tautegorica” cioè “considera il mito come una formazione autonoma”. Gli dèi, proprio per il fatto di possedere la forma degli dèi, sono reali, viventi ed esistenti e la loro raffigurazione come entità reali è contenuta ovviamente nella mitologia per cui il mito, gli dèi e la creazione stessa, i principi originari e archetipi sono intesi in senso letterale e mai simbolico, gli dèi sono nient’altro che quello che significano e la loro formazione nella coscienza dei popoli è storica, dunque reale: la teogonia è reale.
La loro realtà è concepibile con l’intelletto, è dunque intellegibile ed è impressa nella coscienza, essi sono i “momenti reali attraverso cui la coscienza genera sé stessa e la propria storia”.
L’elemento cardine comune a tutte le mitologie (e a molte filosofie) di tutti i
popoli è l’evento della caduta, ovvero la fine dell’ età dell’oro (che ad es. nel
cristianesimo è rappresentata con la cacciata del paradiso); questo evento non
coinvolge solo un uomo o un popolo ma l’intero suo destino ovvero “l’intera
natura”.
Il mondo, nella sua interezza e totalità, mostra costantemente, seppur
celando qualche bellezza, una profonda nostalgia ontologica, dove tra i turbini delle forze caotiche e irrazionali tutto è rivolto irrimediabilmente verso un senso
melanconico insito nel principio della caduta. Questa tragedia cosmica diviene ed è reale non solo nella natura ma nell’uomo stesso e nella sua coscienza perciò è in essa reale e intellegibile.
Schelling riporta come per il cristianesimo fu la legge ad aver rappresentato la causa del peccato e, solo a seguito della legge il peccato iniziò a vivere e a deviare l’essere originario. La legge (Nemesi) sarebbe la causa della caduta dove infatti i termini νόμος (legge) che νέμεσις (Nemesis) sono collegati sia etimologicamente che come suono “ Nemesi non è altro che la forza di quella suprema legge cosmica che mette tutto in moto, che non vuole che alcunché resti celato, che spinge tutto ciò che è celato ad uscire allo scoperto. Pindaro chiama Nemesi l’ambivalente, colei che ha una doppia volontà”.
Nemesi è colei che per prima causa un movimento verso l’alterità insita in tutti
gli esseri e mostra per prima alla volontà quella forza (la potenza) che vuole spingerla al di fuori dell’essere. Nemesi è anche l’eterno serpente che da sempre l’uomo cova dentro di sé e infatti tutti i riti dell’antichità i serpenti connettono l’uomo a tutto ciò che fa riferimento a questo passaggio misterioso.
Nemesi si mostra pertanto alla coscienza umana, ovvero alla coscienza archetipica,
come quella forza che non tollera l’accidentalità e che permette alla possibilità di
offrirsi alla coscienza; tuttavia questa possibilità è solo un inganno, anzi è il “primo
inganno” perché l’alterità raggiunta ha mostrato irrimediabilmente la distanza dal
“poter–essere” con l’essere contingente o originario.
A seguito di questo distacco la coscienza non sarà mai più consapevole del suo evolversi e questo avvenimento rappresenterebbe l’“inizio sovrastorico”della mitologia, mentre l’inizio storico avverrà in un momento successivo. Questo trapasso della coscienza è fortemente presente nel mito di Persefone:
“Persefone non è altro che la possibilità di esser-altro, che tuttavia non si è
affatto mostrata volutamente, e neppure si sa come contrapposta, ossia come
femminile, (…) essa è in stato di innocenza (…). Quindi il femminile, ma
che ancora non si contrappone al maschile, ancora non si pone come
femminile, per questo è lo stato verginale”.
La verginità di Persefone è dunque la coscienza archetipica nel suo stato
originario che, così come Persefone prima della caduta, anch’essa vive in una rocca
inaccessibile senza correre nessun pericolo, protetta e riparata (similmente Adamo ed Eva vivevano riparati e protetti da Dio nel giardino chiuso e ben delimitato
dell’Eden). Tuttavia la potenza del poter essere altro (Nemesi) che da sempre era
presente in Persefone pur se essa non se ne rendeva conto per cui quando gli appare questa forza si mostra come una seduzione improvvisa e sorprendente, come un proserpere (il nome romano di Persefone è Proserpina), un movimento inatteso silenzioso e imprevisto e il nome latino rinvia anche al serpente serpens. In questo passaggio viene dimostrato come “la mitologia spinge le sue radici ultime, come mostra appunto la dottrina di Persefone fino alla coscienza umana archetipa”.
A seguito della caduta, il dio unico che viveva in armonia con la coscienza
archetipica e ad essa ne era simile, non viene distrutto o eliminato dalla coscienza ma subisce un rovesciamento che darà inizio alla mitologia del dio esclusivo che è il dio rovesciato cioè la potenza B (il falso Dio) che dominò a lungo l’essere umano.
Il passaggio dalla potenza A alla B (nella coscienza) è il passaggio dal maschile
al femminile . Questo passaggio dal maschile al femminile, o anche dalla spiritualità alla materialità della divinità (dal dio del cosmo – es. Urano, signore celeste- alla dea madre, dea della fecondità, della forza generatrice, del “farsi altro”
–regina celeste), inoltre coincide con la fine della religione dello ‘zabismo’, cioè quella religione astrale di tutti gli uomini ancora non divisi in popoli e dunque coincide con il farsi popolo (o del farsi storia), infatti la dea madre sarà presente in tutti quei popoli che per primi si affacciarono alla storia
“Erodoto (…) fa derivare questo culto di Urania proprio dai più antichi
popoli storici, ossia da quelli che dapprima si distaccarono dall’unità
dell’umanità originaria, gli Assiri, gli Arabi, i Persiani.” e ancora: “Urania è il punto di svolta tra il tempo astorico e il tempo storico della mitologia”.
Urano dunque diventa Urania (perché viene castrato da Crono) e da questo
momento avviene un passaggio fondamentale dal dio unico del cielo (zabismo) alla dea madre materiale, dea della fecondità, dea generatrice che si materializza
nell’elemento ‘acqua’. L’elemento acqua è presente sia nella mitologia greca (Afrodite che emerge dal mare) che nelle mitologie “asiatiche” (dea siriana Derceto, metà uomo e metà pesce).
A seguito della femminilizzazione di Urano in Urania, e proprio a causa di questa sua nuova caratteristica materiale e generatrice, fa la sua comparsa la potenza A2, che Schelling, riprendendo la Teogonia di Erodoto fa coincidere con Dioniso, il dio sconosciuto agli Assiri, il dio straniero che viene da lontano. Egli è il secondo dio, è il dio in divenire, il dio veniente.
Dioniso è il dio “liberatore” del primo principio relativo all’alterità insita nell’uomo, egli raggiunge la coscienza dapprima in sordina, manifestandosi non subito come divinità per poi esporsi liberamente ad essa nel conflitto tra il principio liberatore e quello resistente dove il dio unico immobile Urano ora diviene il materiale Crono.
Contemporaneamente ad Urania dunque fa la sua comparsa Dioniso A2 , il dio
“liberatore” del principio di alterità a cui segue un’epoca di conflitto tra il dio
liberatore e il principio resistente dove il dio unico immobile ora è materiale, è Crono e non è più Urano (dio del cielo) Urania dunque è presente solo in quanto
“continuamente pone o genera l’altro dio, e quindi in quanto madre non può
essere concepita neppure un istante senza di questo, è anche il dio è presente
solo in quanto è continuamente generato e posto in lei. Urania non è
semplicemente Urania ma è colei che ha celato dentro di sé (in gestazione)
Dioniso.”
Questo passaggio è fondamentale perché la comparsa di un secondo dio
corrisponde alla comparsa dei popoli propriamente detti e dunque coincide anche con la nascita della storia e dell’inarrestabile processo mitologico.
Ciò mostra che per Schelling, la mitologia non può essere intesa come un’invenzione poetica o allegorica dei singoli ma è nata in seno al suo popolo, anzi più propriamente sia il popolo che la mitologia hanno una medesima origine. Contemporaneamente alla nascita dei popoli storici sorgono, per la coscienza, gli dèi concreti e corporei perché la lotta tra A2 e B crea un’infinita differenziazione, un’infinità pluralità di risultati e la storia degli dei (ovvero la mitologia) andrà a coincidere con la storia dei popoli e con la nascita della differenziazione linguistica.
La genesi che unisce la mitologia con il suo popolo spinse Schelling a
domandarsi se esista un popolo senza mito o un popolo senza linguaggio. La
distruzione della torre di Babele dunque rappresenterebbe il simbolo della mutata
coscienza umana che non permetteva più di comprendersi con lo stesso linguaggio e per questo gli uomini “si divisero in gruppi che parlavano in modo nuovo, autenticamente mitico”.
Ogni popolo ha dunque sviluppato diversi livelli di coscienza spirituale relativa
allo sviluppo ed evolversi di essa nella mitologia. La mitologia egiziana è definita
“compiuta” perché in essa le tre potenze di cui è formata l’unitotalità (1+2+3 o
A1+A2+A3) hanno raggiunto, a seguito di una frammentazione, la piena totalità; per cui gli egiziani Osiride-Tifone sarebbero i corrispettivi di Crono e Dioniso. La
frammentazione dell’unità è rappresentata dallo smembramento del corpo di Osiride, dalle cui membra frammentate e disperse sorgeranno la pluralità e la molteplicità (degli dèi formali) mentre l’unicità continuerà a sussistere nella divinità di Oro, il dio demiurgico che riuscirà a ricomporre l’unità frammentata di Osiride ricomponendola. Oro rappresenta per la coscienza questo passaggio verso la ricomposizione dell’unità spirituale di tipo monoteistica a seguito della frammentazione delle potenze rappresentata dallo smembramento di Osiride, evento quest’ultimo che ha causato il politeismo.
Se la mitologia egizia risulta compiuta, differentemente la religione induista non
sembra essersi evoluta in questo senso. Per giustificare il proprio metodo di indagine filosofica relativa alla mitologia inteso come un evolversi nella coscienza delle tre potenze divine, delle loro lotte e frammentazioni fino alla ritrovata unità, Schelling non può far altro che constatare una certa differenza tra i sistemi “compiuti” egiziano e greco con quello induista.
Criticando la ‘moda’ del suo tempo che considerava l’India la patria originaria
non solo dei sistemi religiosi, filosofici e mitologici europei ma degli Europei stessi
se non di tutta la specie umana, Schelling non ritiene l’India né la patria originaria, né intravede nella sua storia l’inizio di ogni sistema religioso o filosofico poi
frammentatosi e diversificatosi nel corso del tempo e nei luoghi. Gli “Indiani”, al pari dei più antichi popoli storici non sono intesi come antecedenti ad altri popoli ma, insieme ad essi, facevano tutti parte di un’umanità generale risalente a una “preistoria comune”.
Il vero snodo problematico relativo alla mitologia induista poneva Schelling
dinanzi a un sistema religioso vastissimo che, secondo il suo metodo filosofico,
risultava alquanto ambiguo perché avrebbe sofferto di un ritardo relativo ai livelli
raggiunti dalla coscienza spirituale.
La prima potenza indiana è riconosciuta in Brahmā (colui che rappresenta
l’inizio, la fonte; il suo è il mondo della purezza, della luce e della verità), la seconda potenza è Śiva (ovvero Tifone-Dioniso; la sua è la religione dell’apparenza e dell’illusione), la terza è Viṣṇu (colui dove tutto finisce; il suo è il mondo delle
tenebre). Tuttavia le tre potenze non raggiungono mai un vero ricongiungimento o
ricomposizione nella unitotalità e ciò significa che la mitologia indiana si evolve solo fino al momento della dissoluzione e disgregazione dell’unità e di conseguenza anche la coscienza spirituale risulta inevitabilmente in uno stato di frammentazione.
Questa situazione rappresenterebbe “l’estrema forma di politeismo”dove le tre
divinità (potenze) non sarebbero altro che quegli dèi formali residuati dal dio reale
distrutto, del “disfatto Brahmā”.
Il sistema mitologico induista delineato da Schelling risulta quindi composto da
tre elementi: (più un quarto che però è inteso come elemento estraneo) ovvero
1)elementi di preistoria mitologica risalenti al periodo precedente alla diversificazione degli esseri umani in popoli (dunque in lingue e mitologie)
2)dèi formali Brahmā, Śiva e ntesi come le tre potenze insite nell’unità
3)dèi materiali come fenomeno del trapasso di Brahmā, sono dèi frammentati e subordinati, ognuno diverso dall’altro e rappresentano il politeismo “materiale” come espresso nella Bhagavadgītā.
Il quarto elemento estraneo che, secondo la speculazione filosofica di Schelling,
rende la mitologia induista nettamente differente da quella greca e egiziana sarebbe caratterizzato dalle incarnazioni di Viṣṇu, che però qui vengono intese come eventi artificiosi e “bizzarri” che in realtà servirono primariamente per decantare in poesia la storia vittoriosa del visnuismo in India e sono probabilmente una derivazione della filosofia buddista dove l’incarnazione è elemento essenziale. Kṛṣṇa è la suprema glorificazione storica di questo evento.
A questo punto il filosofo non poteva sottrarsi all’analisi delle evidenti
somiglianze tra gli eventi legati in particolar modo alla nascita e morte di Kṛṣṇa con quelli narrati nei Vangelo
Le somiglianze tra Kṛṣṇa e il Cristo sarebbero dunque dovute a
un’estrapolazione o una revisione di quelle vicende evangeliche riportate
successivamente nei testi sacri induisti posteriori al Vangelo, così come accadde
similmente con la trasposizione di elementi della mitologia greca in quella induista.
Un ulteriore elemento fondamentale che porta a differenziare nettamente la
mitologia induista da quella greca ed egiziana è insito nella dottrina mistica dei Veda che risulta voler dare una lettura rivolta quasi esclusivamente all’atto religioso pratico e non teorico del “sistema ultimo” nella riconciliazione e riunificazione con Dio, con l’unità, un atto che tenta di ricomporre l’intera coscienza nell’anima universale in una beatitudine della vera unione con Dio.