La Teoresi al servizio di una “normale” vita felice

Secondo Martha Nussbaum:
“Chi scrive di filosofia come chi la insegna, può dirsi una persona felice e fortunata come poche altre” 1
Dal mio punto di vista non posso che essere d’accordo, avendo avuto modo di sperimentarmi nella scrittura filosofica durante questo triennio del corso di laurea in Filosofia, barcamenandomi tra un impegno lavorativo e l’altro.
La filosofia antica in generale, ed in particolare quella di Platone, sulla cui figura è concentrata questa relazione, tende a sostenere che la vita dell’uomo abbia come fine la felicità.
Lo leggiamo nell’Eutidemo (278 e):
“Non è vero che noi tutti in quanto uomini vogliamo star bene? O tale domanda è […] una di quelle che fanno ridere? Sì, è senza dubbio da sciocchi porre una simile domanda: chi tra gli uomini non vuole star bene? – ma nessuno, rispose Clinia. Esatto, dissi io, ma allora, posto che vogliamo star bene, in che modo potremo? “2
Nel Simposio, Diotima afferma:
“per il possesso del bene è felice chi è felice; né occorre chiedere oltre a quale scopo voglia esser felice chi vuole così: la risposta è definitiva” (205a) 3
L’etica di Platone è Eudaimonia: “vivere bene” è il fine di ogni azione umana. 4
1 Martha Nussbaum, Terapia del desiderio. Terapia e pratica dell’etica ellenistica. Vita e pensiero. Milano. 1998, pag.15
2 Le citazioni dei Dialoghi sono tratte da Platone, Opere, Laterza, Bari, 1966
3 G. Farinetti, Storia della felicità. Gli antichi e i moderni, Einaudi, Torino 2001, p. 34.
4 Sassi, M. M. Indagine su Socrate, persona, filosofo, cittadino, Einaudi, Torino 2015. p. 107

L’etimologia ci indica il significato. Essere felici è essere nati “sotto una buona stella”, avere gli dei dalla propria parte, essere in una condizione di “ben-essere”.
Non è facile, però, identificare immediatamente il “vero bene”, che, a tutta prima, potrebbe essere confuso con il piacere sensibile da parte di quella porzione dell’anima che risulta più legata al corpo. Compito, potremmo dire, allora, dell’ “anima” è quello di mettere ordine e armonia dentro di sé, trovare un ordine che le consenta di arrivare ad una condizione di saggezza tale da non sentirsi sopraffatta dai desideri materiali.
Tale condizione si identifica con la giustizia.
Nella Repubblica Platone cerca di trovare un equilibrio tra felicità derivante dalla conoscenza e piacere legato a ricchezza ed onori.
La causa di questo “potenziale” disequilibrio deriva dalla presenza, nella tripartizione dell’anima, di piaceri legati alle parti “inferiori” dell’anima stessa, quella irascibile e quella concupiscibile, che risentono delle funzioni corporee, che tenderebbero a prevalere sull’anima razionale e che, invece, è necessario non far prevalere. Mantenere l’equilibrio, però, secondo Platone non è facile, rappresenta un esercizio continuo ed una ricerca sempre rinnovata.
Platone sostiene che solo l’uomo “giusto” sia felice e questo accade per vari motivi:
“la giustizia in sé è il bene supremo per l’anima, di per se stessa” (Repubblica 612b),
“ai giusti toccherà, prima o poi, il favore degli dèi, mentre gli ingiusti saranno puniti”
(Repubblica, 612e – 613d),
e anche per il fatto che:
“le persone più colte, perseguendo la giustizia, riusciranno a comprendere e ottenere i piaceri puri per le proprie anime”
(Repubblica, 58l e).
Platone insiste nel sottolineare nei suoi dialoghi la superiorità dei beni dell’anima rispetto a quelli del corpo e l’importanza della giustizia per il raggiungimento della felicità.
In Alcibiade Primo, Socrate sostiene che si debba perseguire la felicità e che i beni dell’anima siano superiori a quelli del corpo. La giustizia reca felicità, mentre l’ingiustizia è fonte di infelicità per l’anima (Alcibiade Primo, 130a – 135c).
I piaceri sensibili sono nocivi, perché legano l’anima al corpo e le impediscono di elevarsi al mondo delle idee.
La felicità che si può raggiungere tramite i piaceri corporei è indubbiamente possibile ma si caratterizza anche per essere transeunte, passeggera, instabile nel tempo, a differenza della felicità che si raggiunga attraverso il bene ideale che, invece, è duratura. Per tale motivo non è opportuno far dipendere la felicità dai piaceri corporei, poiché essi svaniscono una volta soddisfatti, riportando l’uomo allo stato del “desiderio”, come già sostenuto nel Gorgia (492d – 499c).
Il desiderio rappresenta un tormento per l’anima e per il corpo, perché anela ad essere soddisfatto, ma, una volta soddisfatto ripropone la sua insoddisfazione, più e più volte.
Nel Gorgia (493d-494e), tra l’altro, Callicle sostiene la tesi edonistica con Socrate che gli prospetta una alternativa tra uno stile di vita temperante che conduce alla felicità ed uno, invece, dedito alla dissolutezza.

La felicità, intesa nel senso più pieno del termine, è, invece, una condizione duratura alla quale si giunge anche tramite il dominio e la moderazione dei piaceri e dei desideri 5
Il concetto di “misura” è espresso nel Protagora, quando Socrate parla dell’importanza dell’arte della “misurazione”:
…anche voi avete riconosciuto che per difetto di scienza errano [gli ignoranti] nella scelta dei piaceri e dei dolori, cioè dei beni e dei mali, quelli che errano, e non solo per difetto di scienza, ma di quella particolare scienza che, sopra, avete riconosciuto essere l’arte della misura. Ebbene, anche voi sapete che un’azione errata per mancanza di scienza è dovuta ad ignoranza. E allora, lasciarsi sopraffare dal piacere è suprema ignoranza…
(Platone, Protagora, 357d-e).
La felicità nel senso più completo del termine è raggiungibile dall’uomo virtuoso, il solo che sa riconoscere ciò che è meglio per la propria anima.
Sembrerebbe che Platone abbia in avversione i beni esteriori, la ricchezza, la bellezza, la salute, ma, in realtà, egli non ritiene che essi siano da eliminare, ma che, piuttosto, debbano essere presenti quantitativamente moderati, in quanto qualitativamente inferiori ai beni dell’anima e alla virtù 6
Arianna Fermani sostiene che Platone ed Aristotele siano perfettamente consapevoli che i beni esteriori possano essere perseguiti ma non a scapito della ricerca del Bene e della virtù, poiché anche coloro che possiedono molti beni esteriori sono comunque infelici se non possiedono anche un’anima armonica e virtuosa e se non hanno conoscenza del vero Bene.
5 A. Fermani, Vita felice umana, in dialogo con Platone e Aristotele, edizioni SIMPLE, Macerata 2006. p.150
6 Cfr. A. Fermani, op. cit., p. 217.

Durante la vita materiale, ogni uomo dovrà dare la precedenza a quelli che Platone, nel Filebo, chiama i “piaceri puri”, ovvero i piaceri della ricerca filosofica (che giovano all’anima), e che sono da perseguirsi più di ogni altra cosa.
La vera vita, però, secondo Platone, comincia quando, con la morte del corpo nel quale l’anima si trova imprigionata, essa finalmente diventa libera.
La vita terrena sarebbe la preparazione alla vita ultramondana e la filosofia è “esercizio di morte”.
Questa prospettiva emerge soprattutto nel Fedone:
…finché ci teniamo la nostra carne e l’anima nostra è impastata di simile fango, non domineremo mai a sazietà ciò che desideriamo: e sappiamo che è il vero, questo (66b). […] Non c’è dubbio, Simmia: chi è coerentemente filosofo s’attrezza a morire. E la morte è quanto lo spaventa meno al mondo (67e).
La felicità, dunque, per Platone, consiste nella ricerca del vero bene e del vero bello.
Tuttavia, mentre nel mondo delle idee la felicità, una volta raggiunta la piena contemplazione, da parte dell’anima, del vero bene e del vero bello, è eterna, nel mondo sensibile è solo momentanea, a meno che essa non derivi dall’aver intrapreso un percorso di ricerca verso i “veri beni”, ossia quelli dell’anima, che non svaniscono mai.
Allora, l’uomo che vuole essere veramente e costantemente felice, dovrà imparare a conoscere quali siano i veri beni ai quali mirare, e dovrà riuscire a ottenere tali beni senza perderli mai di vista, esercitando la ricerca filosofica.
Il problema del saper riconoscere i “veri beni” e di riuscire ad ottenerli, agendo in modo efficace, è affrontato anche nell’Eutidemo.
Qui Socrate osserva che tutti desiderano stare bene (278e – 279d) e che per fare questo bisogna imparare a riconoscere quali beni valga la pena perseguire e come usarli (280b – 281e). Una volta fatto questo dobbiamo anche saper moderare i piaceri corporei, in modo che essi non prendano il sopravvento, determinando una ricaduta nel vortice del desiderio e del dolore.
Questa prospettiva di dominio dei piaceri, ma anche di necessaria “mescolanza” tra ciò che è bene per la propria anima e i piaceri materiali stessi, ai fini di una vita buona, è sottolineata anche nel Filebo.
In questo dialogo Platone afferma che, ai fini di una vita buona in un uomo dev’esserci presenza contemporanea di razionalità e di piaceri materiali dosati e dominati dalla componente razionale stessa (Filebo, 33d). L’uomo deve vivere una sorta di “vita mista”, indirizzata comunque alla ricerca del vero bene.
Tuttavia, secondo Platone, non tutti gli uomini sono in grado di intraprendere la ricerca del vero bene e dei “veri beni” senza avere una guida. I filosofi sono coloro che sono in grado di raggiungere autonomamente la conoscenza del vero bene e in grado di raggiungere la felicità. Essi, però, da quanto possiamo evincere dal mito della caverna, appaiono “combattuti” tra la “vita teoretica” e la “vita pratica”, nel senso che da un lato vorrebbero dedicarsi completamente alla ricerca filosofica, dall’altro comprendono che la piena realizzazione della loro stessa vita può avere luogo solo dedicandosi anche agli altri, costituendo per loro una guida verso la conoscenza del vero bene e della verità.
Il ruolo del filosofo, infatti, non può esaurirsi nella ricerca, ma si realizza anche all’interno della società, e dunque ai filosofi spetta dedicarsi alla filosofia, ma anche guidare lo Stato con responsabilità (Repubblica 540b).
Solo i filosofi a capo dello Stato ideale possono garantire a tutti i cittadini una vita felice. Essi, assicurando che la razionalità prevalga sulle passioni e governando la città con giustizia, possono indirizzare le anime di tutti gli uomini a una vita felice, per quanto possibile.
Per Platone è, dunque, molto importante l “ordine” non solo nella nostra anima ma anche nello Stato. L’uomo giusto e felice deve saper rendere giusto e felice anche lo Stato e lo Stato deve poter creare le condizioni fondamentali per la felicità collettiva.
E’ centrale, nella Repubblica, la convinzione che l’individuo preso singolarmente non potrà essere veramente felice senza la dimensione della polis.
Tutti gli uomini hanno diritto ad essere felici, ma questo non è un diritto individuale, come risulta in maniera evidente da questa formulazione:
Ora, noi crediamo di plasmare lo Stato felice non rendendo felici nello Stato alcuni pochi individui separatamente presi, ma l’insieme dello Stato.
(Platone, Repubblica, 420c).
Solo in uno Stato giusto nel suo insieme può regnare la felicità di tutti: in assenza di uno stato l’uomo comune non sarà felice perché gli mancherà una guida, e il filosofo non sarà felice perché perennemente costretto a “oscillare” tra la corruzione creata dalla società “non giusta” e il tentativo effimero di autodifendersi nell’isolamento. Solo uno Stato giusto, dunque, può garantire felicità agli uomini sia da un punto di vista personale che comunitario.
Nella Repubblica I filosofi governanti, per mantenere l’ordine, possono ricorrere ad un racconto menzognero sulle origini delle tre classi dello Stato:
…voi quanti siete cittadini dello Stato, siete tutti fratelli, ma la divinità, mentre vi plasmava, a quelli tra voi che hanno attitudine al governo mescolò, nella loro generazione dell’oro, e perciò altissimo è il loro pregio; agli ausiliari argento; ferro e bronzo agli agricoltori e agli altri artigiani.
(Platone, Repubblica, 415a).
Questa menzogna, chiamata “racconto fenicio”, potrebbe essere utile per convincere gli appartenenti alle classi inferiori a lasciarsi guidare dai filosofi e potrebbe essere un’operazione necessaria per porre le fondamenta dello Stato ideale.
Platone chiarisce che non ci si può “improvvisare” guida, ma coloro che guidano lo Stato devono essere educati e la loro educazione deve essere indirizzata tanto all’amministrazione dello Stato stesso quanto alla ricerca filosofica del vero bene.
Questo comporta un percorso di vita che inizia sin da bambini, con l’esercizio fisico (ginnastica), l’educazione all’arte della mousiké (le arti presiedute dalle Muse), con la letteratura, la poesia, la musica, il canto, il teatro e la danza, tutte arti che rappresentano una sorta di “palestra”, perché i bambini imparino a riconoscere e separare il bello dal brutto e ad essere armonici e virtuosi (Repubblica, II, 376e – 383c).
Gli uomini dotati di maggiori capacità intellettuali saranno scelti per diventare filosofi-governanti, gli altri, invece, diventeranno custodi, ossia diventeranno i soldati che proteggono lo Stato (Repubblica, III, 413e – 417b).
La successiva fase dell’educazione dei filosofi corrisponde al “quadrivium” della tarda antichità e del Medio Evo, un percorso educativo in cui si prediligono l’aritmetica (non solo come unità numerica), ma anche concetti come “unicità” e “molteplicità”, la geometria (non utilizzata per scopi pratici, ma per avere la conoscenza di ciò che è necessario e eterno), alla astronomia (intesa non come conoscenza empirica del movimento degli astri, ma delle leggi del movimento regolare di tutti i corpi dotati di “profondità”), e alla armonia (si occupa dei rapporti musicali). (Repubblica, VII, 525a – 530a).
Le fasi culminanti dell’educazione dei filosofi sono la filosofia “vera e propria” e la dialettica, indispensabili per riconoscere l’ essenza di ogni cosa e il vero Bene (Repubblica, VII, 531e – 538d).
Platone, inoltre, nella Repubblica, ribadisce più volte che così come i filosofi devono essere educati al comando, i guardiani devono essere educati al combattimento e all’obbedienza ai filosofi, e i produttori (i cittadini comuni) devono essere educati al rispetto delle leggi e alla obbedienza ai filosofi.
L’educazione, dunque, è fondamentale, poiché solo grazie ad essa si potranno evitare i pericoli che potrebbero derivare da un’eccessiva ricchezza e da un’eccessiva povertà.
E’ grazie all’educazione che i giovani potranno imparare a convivere gli uni con gli altri all’interno dello Stato, in una condizione di armonia.
In sintesi, l’anima dell’uomo, per Platone, è tripartita (parte razionale, parte irascibile e parte concupiscibile), e la virtù consiste nel dominio della parte razionale dell’anima sulla parte concupiscibile grazie all’aiuto della parte irascibile, e nell’armonia tra di esse che sorge quando tutte e tre le parti collaborano nella ricerca della conoscenza del vero bene, del vero bello e della verità (che però possono essere raggiunti appieno solo dai filosofi e che sono il principio di tutto, sia del mondo intelligibile che di quello sensibile, e sono l’oggetto più elevato della conoscenza). L’anima di ogni individuo, d’altronde, riuscirà ad ottenere tale armonia solo in un contesto ugualmente armonico quale quello offerto dalla città. Così si genera la giustizia e la felicità sia collettiva che individuale. La vera felicità o felicità “assoluta”, per Platone può essere raggiunta solo dopo la morte, quando l’anima del giusto, liberatasi dal fardello del corpo che la imprigiona, potrà accedere alla piena contemplazione del vero bene e del vero bello, quale premio dell’armonia e della presenza di una condotta di vita virtuosa. Tale felicità è quella eterna.
La felicità nel mondo sensibile, tuttavia, può essere raggiunta e mantenuta stabilmente da coloro che riescano a conoscere e a possedere i “veri beni” legati al bene dell’anima e alla ricerca, filosofica.
Come conclusione di questo mio elaborato, mi è vento spontaneo un parallelismo con il mio lavoro quotidiano di psichiatra, e con il mio confronto con la sofferenza mentale, con quadri clinici di depressione, che nei nostri manuali di classificazione occupano spazi ben precisi e delineati, grazie a criteri diagnostici definiti, ma anche con una patologia emergente che non è ancora ben classificata, ma che pure mi sta capitando di incontrare sempre più spesso, la “ Cherofobia”, ossia la paura di essere felici.
In un mondo, quello odierno, in cui si è bombardati da mille stimoli e in cui si diventati “oggetto”, più che “protagonisti” di occasioni di felicità, sembra che questo sentimento spaventi, che si tema, piuttosto che ci si auguri, di sperimentare nella vita cose belle. La felicità sembrerebbe diventata fonte di ansia, piuttosto che di gioia, quindi meglio evitarla o cercare di cogliere dei momenti felici, ma in modo assolutamente transitorio, non duraturo. Si tende, quindi, ad evitare possibili situazioni fonte di gioia o, comunque, se le si vivono, a volte, a nascondere la gioia che si sperimenta, anche a se stessi, non godendone a pieno.
Si evitano, di conseguenza, cambiamenti che potrebbero portare ad un miglioramento delle proprie condizioni, come se le emozioni positive fossero diventate troppo complicate da gestire. Non si tratterebbe di veri e propri stati depressivi, anche se è facile intuire che la cherofobia, se reiterata nel tempo, potrebbe condurre comunque allo sviluppo di una depressione secondaria.
Le cause del disturbo sono state ricondotte a manifestazioni successive di possibili eventi traumatici vissuti in età infantile, in cui ad un momento di felicità potrebbe aver avuto seguito una punizione, che il bambino ha associato a quella felicità, fino ad arrivare nel tempo a negarsi la gioia per evitare un possibile, successivo dolore.
Questo comporta, alla lunga, il vivere una vita al riparo, per quanto possibile, dalla sofferenza, ma anche piatta, senza stimoli e senza gioia.
A livello terapeutico ho potuto constatare l’efficacia di una relazione di tipo dialogico, psicoterapeutico, in situazioni in cui un trattamento farmacologico può, eventualmente, solo fornire un aiuto, inevitabilmente parziale, al cambiamento.

Bibliografia consultata
PLATONE: Alcibiade Primo, traduzione a cura di Giovanni Reale, Bompiani, Milano 2015.
Apologia di Socrate, traduzione a cura di Ezio Savino, Mondadori, Milano 2008.
Critone, a cura di Ezio Savino, Mondadori, Milano 2008.
Eutidemo, a cura di Giovanni Reale, Bompiani, Milano 2015.
Eutifrone, a cura di Giovanni Reale, Bompiani, Milano 2001.
Fedone, a cura di Ezio Savino, Mondadori, Milano 2008.
Fedro, a cura di Monica Tondelli, Mondadori, Milano 2010.
Filebo, a cura di Maurizio Migliori, Bompiani, Milano 2000.
Gorgia, a cura di Francesco Adorno, Laterza, Roma-Bari 2015.
Leggi, a cura di Franco Ferrari e Silvia Poli, BUR, Milano 2005.
Menone, a cura di Francesco Adorno, Laterza, Roma-Bari 2004.
Parmenide, a cura di Giuseppe Cambiano, Laterza, Roma-Bari 2003.
Protagora, a cura di Francesco Adorno, Laterza, Roma-Bari 2015.
Repubblica, a cura di Franco Sartori, Laterza, Roma-Bari 2009.
Simposio, a cura di Carlo Diano, Marsilio Editori, Venezia 2006.
Teeteto, a cura di Valgimigli Manara, Laterza, Roma-Bari 2006.
Timeo, traduzione a cura di Francesco Fronterotta, BUR, Milano 2003.

Farinetti G., Storia della felicità. Gli antichi e i moderni, Einaudi, Torino 2001
Fermani A., Vita felice umana, in dialogo con Platone e Aristotele, edizioni SIMPLE, Macerata 2006
Migliori M., Il Disordine ordinato. La filosofia dialettica di Platone. Vol. II Dall’anima alla prassi etica e politica, Morcelliana, Brescia, 2013
Nussbaum M., Terapia del desiderio. Terapia e pratica dell’etica ellenistica. Vita e pensiero. Milano. 1998
Sassi, M. M. Indagine su Socrate, persona, filosofo, cittadino, Einaudi, Torino 2015

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