Nel “Trattato sulla natura umana” Hume colloca al centro dell’intero mondo delle relazioni la «simpatia». Questo principio, tramite l’immaginazione, ci permette di trasformare le passioni degli altri, che non possiamo mai percepire direttamente, in una nostra esperienza emotiva diretta. La simpatia è rappresentata come una capacità che posseggono tutti gli esseri umani ed ha una dimensione sociale. Nell’istinto di simpatia e di socievolezza Hume ripone il senso più genuino dell’esperienza etica e sociale. La società nasce dal sentimento di simpatia che gli uomini provano naturalmente gli uni per gli altri. Il suo scopo è quello di armonizzare gli interessi individuali con quelli collettivi. Per Hume la simpatia va studiata e ricostruita dall’osservazione di determinati fenomeni, non è un dato a priori ma viene indagata a posteriori e non è neppure data una volta per tutte, tanto è vero che gli uomini possono, variando le loro condizioni di vita, anche variare le loro capacità di simpatizzare. Questo si può spiegare in quanto la natura ha determinato una somiglianza tra gli uomini, grazie alla quale notiamo negli altri le stesse reazioni emotive che viviamo su noi stessi. Questo dato ha un corrispettivo scientifico nella presenza di un tipo particolare di neuroni che, in qualche modo, vanno a completare il nostro patrimonio neuronale.
Tali neuroni, evidenziati grazie a ricerche avvenute in ambito neurologico, prima nel cervello delle scimmie e poi in quello dell’uomo, sono chiamati “neuroni specchio”.
Il termine “completare” non rende l’idea dell’importanza di queste cellule: non si tratta infatti propriamente di un completamento, cioè di “un di più”, ma di una classe ben specializzata di cellule che sono in grado di compiere funzioni che, invece, altre cellule non sono in grado di svolgere. Queste cellule si caratterizzano per essere soggette a stimolazione non solo quando un soggetto compie una determinata azione ma anche quando è un altro a compierla dinnanzi a lui (Rizzolatti, 2006).
Questa ipotesi è stata portata da alcuni scienziati, come “prova” scientifica della esistenza dell’empatia.
Il ragionamento empatico sarebbe diverso rispetto a quello per analogia, in quanto decisamente più profondo e completo, dal momento che le strutture neuronali coinvolte quando noi sperimentiamo determinate sensazioni ed emozioni sembrano essere le stesse che si attivano quando attribuiamo a qualcun altro quelle “stesse” sensazioni ed emozioni, consentendoci di cogliere il vissuto altrui anche a distanza.
Infatti, la singolarità di questo meccanismo speculare sembra attivarsi anche quando non siamo in condizione di assistere direttamente all’azione compiuta dall’altro, ma ne percepiamo solo dei segnali o, addirittura, la semplice descrizione a voce che ci viene data ( Tettamanti e al., 2005).
Secondo Vittorio Gallese, uno degli scienziati pionieri nella scoperta dei neuroni specchio, alla base dell’empatia ci sarebbe un processo di “simulazione incarnata” (Gallese, 2005), cioè un meccanismo di natura essenzialmente motoria, molto antico dal punto di vista dell’evoluzione umana, caratterizzato da neuroni che agirebbero prima di ogni elaborazione più propriamente cognitiva.
Questo meccanismo non è conscio, ed instaura un legame diretto tra agente e osservatore: l’osservazione dell’azione altrui induce la simulazione della stessa. Quando qualcuno esprime col proprio volto una data emozione, questa mi induce a comprendere il significato emotivo di quell’espressione.
La condivisione dello stesso stato corporeo tra osservatore e osservato consente questa forma diretta di comprensione, che potremmo definire “empatica”.
I neuroni mirror agiscono “a prescindere” dal fatto che il soggetto sia colui che osserva la scena o colui che viene osservato (Gallese, 2005).
Quello che mi pare importante puntualizzare è che i neuroscienziati attribuiscono la comprensione umana delle azioni altrui alla capacità (fisiologica e cognitiva) di individuare nell’altro delle somiglianze con il nostro modo di essere che rendono la sua alterità qualcosa di “familiare”. L’empatia si fonderebbe così sulla capacità di riconoscere nell’alterità qualcosa di simile e di instaurare, in virtù di questa somiglianza, un contatto possibile. Appare intuibile, quindi che, quanto più l’altro è avvertito “vicino” a noi per comunanza affettiva o per interessi molto vicini ai nostri, tanto più il meccanismo dell’empatia ci riesce semplice da attuare. Husserl, ad esempio, sostiene che ogni volta che si percepisce il corpo dell’altro come un corpo somigliante al proprio, si riesce a mettere in atto senza l’aiuto di un ragionamento una trasposizione analogica che ci consente di attribuire ad un corpo che occupa un luogo nello spazio diverso dal mio, delle percezioni, dei pensieri, degli stati d’animo simili a quelli che si avrebbero trovandosi al suo posto, senza farne esperienza diretta. Questo è possibile nella misura in cui io mi costituisco come autentico corpo vivente (Leib), per cui, afferma il fenomenologo, «se non avessi corpo vivente, se non mi fossero dati il mio corpo vivente […], allora io non potrei “vedere” nessun altro corpo vivente, nessun altro uomo» (Husserl, 1973, XIII, p. 267).
In fenomenologia l’empatia è un vissuto che implica il riconoscimento non soltanto di una somiglianza esteriore tra il mio corpo fisico e quello dell’altro, ma soprattutto di un’analogia più profonda che diventa visibile solo se io faccio esperienza di me stesso in quanto corpo vivente.
L’empatia, allora, da una parte corrisponde al muoversi intenzionale della coscienza in direzione dell’altro, nel desiderio più o meno consapevole di conoscerne i vissuti in modo pieno, quasi penetrando nella sua stessa coscienza, dall’altra, invece, si rivela come un’azione in un certo senso impossibile, poiché quella coscienza estranea resta per principio qualcosa di inaccessibile, altrimenti, se l’io e l’altro potessero avere intuizione piena dei rispettivi vissuti, le loro coscienze finirebbero per confondersi in una sola, senza limiti distintivi. Inoltre, l’empatia è anche un tipo di esperienza che ci permette di cogliere aspetti di noi stessi che non verrebbero alla luce altrimenti, e che quindi è essenziale anche per la costituzione della soggettività, che si avvale della relazione intersoggettiva quale suo presupposto trascendentale.
A mio avviso, non riusciamo a comprendere fino in fondo come mai la conoscenza empatica dell’altro porrebbe in primo piano le somiglianze e le analogie, piuttosto che la distinzione e le differenze, e perché l’identità avrebbe un potere così forte rispetto all’alterità.
Quello che mi pare importante puntualizzare è che la biologia e la neurologia studiano, certamente, il comportamento del cervello innanzi ad una scelta, ma non sono in grado da sole di spiegare né la natura del bene e del male in generale, né perché una determinata azione sia stata considerata da un individuo, un’azione buona oppure cattiva. Un’ etica fondata sulle emozioni e sulla possibilità della immedesimazione empatica mi fa ripensare al mio lavoro di psichiatra-psicoterapeuta, del quale ne rappresenta un costrutto inseparabile. E’ impossibile, infatti, ripensare a questo tipo di relazione in assenza di un sentimento di empatia: come sarebbe possibile una cura, in genere di tipo medico, ma in particolare di tipo psicologico, senza compartecipare ai vissuti dell’altro, pur rimanendo se stessi?
Come potremmo, allora, ipotizzare una possibilità di cura, quella auspicata da chi propone le innovative terapie digitali, senza la vicinanza empatica con il paziente, senza il contatto umano, che potrebbero essere bypassati dal software di un pc.? Perchè il problema reale potrebbe essere quello che il paziente non considererà questa una terapia accessoria e complementare, ma, comodamente, forse, la prioritaria. Troppo spesso siamo vediamo pazienti che applicano il “fai da te” in ogni ambito terapeutico. Sarà questo il futuro della psichiatria? Evitare, comodamente per il medico, il contatto umano?
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