Ieri, in una uggiosa giornata di Novembre, ho intravisto il sole. Era la mia prima lezione dal vivo di Filosofia, dopo aver conseguito la Laurea triennale il 23 Ottobre scorso. E’ stata un’emozione. Tra i banchi, con gli studenti ventenni, con i professori dell’Università di Torino, con quanti, amanti della filosofia antica, si erano riuniti lì, nell’Aula 35 di Palazzo Nuovo per ascoltare Maurizio Migliori e Arianna Fermani, miei docenti all’Università di Macerata.
Non potevo perdere quell’evento. E sono qui a scriverlo, mentre i due professori ci hanno deliziato con una parte poco conosciuta della filosofia platonica, quella delle dottrine non scritte. Perchè Platone ha deciso di scrivere ma anche di non scrivere? Nel suo intento di fare filosofia e di stimolare al pensare e non all’imparare, il non scritto si prestava brillantemente a questo: ciò che rimane scritto può essere imparato e si ripete uguale a se stesso. Ciò che non è scritto stimola al pensare. Lo scritto, secondo Platone, sarebbe il fratello più debole, seppure importante, della comunicazione orale. Allora lo scritto è meno importante? Dipende. E’ importante se diventa un “gioco”, ma un gioco serio. E’ così che diventa stimolante ( protrettico) per pensare, è così che si fa filosofia, non si impara la filosofia. E’ importante perchè rimane, perchè viene tramandato, perchè ci avvicina al pensiero del filosofo, ma poi deve rappresentare uno stimolo per noi e non una adesione totale al suo pensiero. Non apprendimento, ma esercizio tramite un gioco di allusioni. Un maestro che rivela la soluzione di un problema, compie due errori, il primo è quello di parlare di filosofia, non di fare filosofia, ed il secondo è quello di non stimolare il pensiero dell’allievo, perchè la soluzione è già preconfezionata. Le dottrine non scritte, allora, gettano un faro che illumina lo scritto.
Nel Fedro e nella Lettera VII ( della quale a lungo si è dibattuta l’autenticità), Platone sostiene che la scrittura non accresca la vera sapienza degli uomini, bensì accresca l’apparenza del sapere (ossia l’opinione); non rafforza la memoria, ma offre solo un mezzo per richiamare alla memoria cose che già si sanno.
Lo scritto, inoltre, è inanimato e non è capace di parlare in modo attivo: è incapace di aiutarsi a difendersi da solo contro le critiche, ma richiede sempre l’intervento attivo del suo autore, a differenza del discorso orale.
Le dottrine non scritte hanno assunto un’importanza rilevante a partire dalla fine degli anni cinquanta del secolo scorso, quando due studiosi dell’università tedesca di Tubinga, Konrad Gaiser e Hans Kramer e, successivamente, Giovanni Reale e Maurizio Migliori (per cui si parla della “scuola di Tubinga/ Milano/ Macerata”) le posero a base di un nuovo modo di interpretare Platone, ritrovando nell’ insegnamento orale di Platone il nucleo centrale del suo pensiero.
Le testimonianze sul Platone orale, illustrano, allora, una complessa dottrina metafisica dei principi, che doveva servire come completamento e perfezionamento della dottrina delle idee esposta nei Dialoghi, e all’interno della quale la teoria delle idee costituisce soltanto una parte.
Questa dottrina è in primo luogo una ricerca delle cause simile a quella condotta dai presocratici, e tendente a ritrovare i principi e gli elementi delle cose. Tale ricerca, per il modo di pensare caratteristico dei greci, si configura come un processo che parte dal molteplice per raggiungere l’unità.
I principi primi sono l’Uno (principio dell’unità) e il “grande-e-piccolo “, o “Diade indefinita“ (principio della molteplicità).
La Diade non è, ovviamente, il numero due, così come l’Uno nel senso di Principio non è il numero uno, mentre ambedue questi Principi hanno statura metafisica.
La Diade è concepita come modalità di grande-e-piccolo nel senso che è infinita grandezza e infinita piccolezza, in quanto è tendenza all’infinitamente grande e all’infinitamente piccolo.
Essa è una molteplicità indeterminata e indefinita che, fungendo come substrato all’azione dell’Uno, produce la molteplicità delle cose in tutte le sue forme.
L’Uno non avrebbe efficacia produttiva senza la Diade, anche se risulta gerarchicamente superiore alla Diade. Si ha quindi non un dualismo, ma un bipolarismo, in quanto un Principio esige l’altro in maniera strutturale.
Subito dopo i due Principi supremi, c’è il piano delle Idee e altri enti ideali e infine il mondo delle cose sensibili.
Alla fine del mio triennio di studi posso dire di aver cercato non di imparare la filosofia, ma di imparare a pensare.
La questione è ancora aperta.