Sperimentare il dolore è un fatto universale e, al tempo stesso,
così specifico e particolare che ogni tentativo che potremmo fare di descriverlo, ogni punto di vista che potremmo adottare per sfaccettarlo, finirebbe, inevitabilmente, per ingabbiarlo in singole parole, schemi, immagini, che lo renderebbero generico e superficiale, amputandone il senso.
La mia esperienza del dolore da medico ( e da paziente) era solo parziale, sebbene da psichiatra mi sia dovuta occupare e continui ad occuparmi, anche dei dolori dell’anima, prima dei miei studi di Filosofia. Questi studi mi hanno aiutato ad affinare l’intuito, ad osservare con maggiore attenzione non solo la fenomenologia del dolore, così come esso appare, ma anche ciò che esso cela.
Nonostante la psichiatria indaghi oltre ciò che appare, gli studi filosofici mi hanno insegnato a capire che, se è vero che corpo ed anima non percorrono binari paralleli ma intersecantisi e che, pertanto anche una malattia che nasca nel corpo, trovi un suo riflesso nella ψυχή, forse l’attenzione che io avevo dato a questo intreccio era solo parziale e scenari più profondi mi si sono disvelati compiendo gli studi filosofici.
Ripenso a come Aristotele, pur non medico, ed altri del suo tempo, riuscissero ad intuire patologie che oggi vengono diagnosticate in modo puntuale, ma questo grazie a strumentari accurati che lasciano poco o nessun margine all’errore umano perché spesso è la macchina ad essersi sostituita alla capacità medica.
E così, purtroppo, un buon esame obiettivo ( come, del resto, un buon esame psichico), è rimasto appannaggio di pochi.
Il medico, a volte, è diventato il conducente di un’auto che non conosce come dovrebbe.
Salvatore Natoli ha affermato che il dolore è al contempo «fatto personale, ma è anche evento cosmico» (Natoli S., L’esperienza del dolore, 1986, p. 8), un evento che ci trasforma, spesso giungendo fino alle nostre radici e minando la possibilità di una nuova fioritura dell’albero della vita. Il mondo, allora, può apparirci diverso, facciamo fatica nel percepire noi stessi, come una «vita che si riduce» ( ibidem p. 9 ).
Parlare del dolore, se del dolore sia possibile parlare, vuol dire, dunque, parlare di ciò che destabilizza e scuote l’esistenza, di ciò che non solo non può lasciarci indifferenti, ma di una entità che rischia di annullare l’esistenza stessa; parlare del dolore vuol dire cercare di spiegarlo, ma alcuni dolori non possono essere narrati tramite il linguaggio e quindi non possono neppure essere spiegati. Eppure continuiamo ad essere in perenne ricerca di quanto possa dare un senso al dolore. Da credenti o non credenti, dare un senso al dolore è necessario per continuare a vivere ed a lottare.
Da questo punto di vista non c’è alcuna differenza tra dolori che hanno origine nel corpo e dolori che hanno origine nella psiche o nella mente; entrambi, infatti, irrompendo nell’esistenza, interrompono un percorso di senso, creando una frattura non sempre sanabile tra come era prima che accadesse quel dolore e quanto succede dopo. In questo senso non c’è grossa distinzione tra dolori che affliggono il corpo e che, sotto specifiche condizioni di durata e intensità, divengono anche sofferenza psichica, come non c’è dolore dell’anima che non cerchi qualche forma di traduzione e di manifestazione nel corpo.
Per poter parlare del dolore o per cercare di farlo, è necessario andare al di là della percezione di esso attraverso i sensi, esterni od interni che siano, che ci permettono di riconoscere se un dolore sia provocato da un evento esterno od interno al nostro essere. Andare al di là dei sensi, vuol dire sconfinare nell’immaginario del dolore, nella comprensione che il “mio” dolore è unico ma condivisibile con dolori di “altri”. L’immaginario, in questo senso è quello di Gilles Deleuze (1972), nel saggio “Da che cosa si riconosce lo strutturalismo?”, (in Borca D. (a cura di), L’isola deserta e altri scritti, Torino, Einaudi,2007).
Anche nel pensiero di J.P. Sartre è fondamentale il concetto di immaginario come dimensione riflessiva del reale, seppure egli ne faccia un elemento della coscienza soggettiva (J. P. Sartre, L’imaginaire, 1940), mentre per Deleuze l’immaginario è per natura de-soggettivante, giacché si manifesta attraverso la struttura.
Nella condivisione dell’esperienza umana e nella reciprocità del patire, forse, si può iniziare a trovare un senso. Ma l’uomo riesce ad essere egoista anche nel dolore: “il mio dolore è unico”, “tu non puoi capire cosa io stia provando”, ci diciamo, e questa barriera alla condivisione rappresenta, spesso una barriera alla guarigione.
Facciamo fatica ad uscire dalla datità del singolo evento e a sperimentare la possibilità di una generalizzazione che potrebbe essere salvifica, se non altro in quanto eviterebbe la concentrazione esagerata in noi stessi.
Il dolore per essere compreso da chi non lo prova dovrebbe diventare fatto di cultura da condividere e non lamentazione del singolo fine a se stessa. E’ nella cultura che possono incontrarsi l’universalità e l’individualità.
Ritornando al tema dei dolori di origine fisica e di origine psicologica, penso a quelle manifestazioni di tipo depressivo che occorrono nelle sintomatologie dolorose croniche, mentre, reciprocamente, la presenza di sintomi dolorosi più o meno invalidanti è praticamente ubiquitaria nei pazienti depressi, fenomeno che può essere ricondotto al concetto di comorbidità, ossia di compresenza, nello stesso paziente di più patologie, in tempi sincronici o diacronici.
La narratività, in questo senso, come principio
di organizzazione del mondo, cerca di esprimere l’esperienza del dolore attraverso la costruzione di “mondi”: in essi, infatti, l’evento doloroso cerca una propria dignità esplicandosi in quell’uomo. Il dolore fisico, d’altro canto, sembra essere all’origine di una condizione di sofferenza quando interrompe un vissuto, ossia quando compromette ogni tipo di relazione tra soggetto e mondo.
Proprio su questo principio si costruiscono quelli che Natoli chiama luoghi Comuni ( ibidem, pag.12) nei quali, nel rinviarsi di individuale e universale, gli uomini si scambiano le loro esperienze, sottraendole dal silenzio. In questo modo l’individuo
che soffre non si abbandona alla sua sofferenza in modo arrendevole, ma riesce ad organizzare la sua esperienza, e allo stesso tempo si serve di ciò che la cultura gli offre per ricostruire la coerenza del proprio vissuto.
Riti e credenze, religioni e filosofie costituiscono, secondo Natoli, un vocabolario grazie al quale l’uomo riesce a parlare del dolore.
La cultura riesce a rappresentare “immagini”, che diventano segni che, a loro volta, riconducono ai sintomi attraverso cui si palesa il dolore e che non rappresentano solo motivo di sofferenza ma anche traccia per arrivare alla propria individualità.
E’ incredibile come, nonostante Edelman, eminente neuro scienziato, abbia individuato nella narratività, ossia nella capacità di connettere temporalmente eventi, una capacità specificamente umana, non tutti gli uomini riescano ad esprimere con il linguaggio, sia esso dialogato che corporeo, il proprio dolore e non tutte le forme di dolore possano essere espresse, come se nelle sue varie declinazioni, il dolore conservasse quella caratteristica di indicibilità che lo rende indescrivibile, ma mai senza un senso. Sicuramente più difficile da trovare.
Per Lèvinas, il dolore si oppone alla coscienza pur essendo esso stesso un contenuto di coscienza, ovvero un dato (Lévinas Emmanuel (entretien avec), “Une éthique de la souffrance”, in van Kaenel, 1994, pp. 127-137). In realtà, ad un primo livello di coscienza, quella percettiva, i dati sensibili vengono interpretati dando luogo alla percezione del dolore, mentre ad un secondo livello di coscienza può costituirsi un’interpretazione narrativa dell’esperienza la quale però, ove si presenti in forma dolorosa, lascia sussistere la possibilità di una divaricazione tra il senso dei nostri vissuti e l’esperienza del dolore in quanto tale.
Certo la narratività può essere una strategia di gestione del dolore fisico, il che non rende il dolore meno intenso, ma lo rende più sopportabile e dunque meno sofferto.
A questo punto, bisogna necessariamente approfondire questa differenza tra provare dolore e soffrirne.
Ricoeur distingue tra dolore e sofferenza sulla base di due semiologie( Cfr. Ricoeur Paul, “La souffrance n’est pas la douleur”, in van Kaenel 1994, pp. 59-69).
Il dolore sembra avere più a che fare con affezioni localizzate nel corpo, mentre il termine sofferenza pare essere riservato a delle affezioni che riguardano il linguaggio, il rapporto con sé, il rapporto con altri. La relazione dolore/sofferenza ha delle fondamenta nella distinzione corpo/psiche, ma questi due poli non vanno di certo considerati come oppositivi.
Ancora una volta ci soccorre il linguaggio: il termine sofferenza viene dal termine latino sufferentia, utilizzato con il significato di pazienza, da suffere, sufferenti ovvero paziente.
La traduzione di sofferente (colui che soffre, nel senso di colui che sopporta), viene utilizzata per designare coloro che si sottopongono a trattamenti medici, coloro ai quali è stata diagnosticata una patologia da curare.
Dunque, soffrire nel suo significato originario significa sopportare, creandosi un binomio tra colui che sopporta e ciò che è sopportato, anche se quanto sopportato è sgradito a chi sopporta, seppure la sua presenza è indipendente dalla sua volontà.
Allora, nel linguaggio comune il dolore può essere “sopportabile”, ma quando supera certi livelli esso “fa soffrire”. In questa sopportazione rientrano i criteri della temporaneità: sopporto qualcosa che so che prima o poi passa, ma la sopportazione diviene sofferenza ( ed insofferenza) quando i limiti temporali diventano indefiniti: pensiamo ai dolori fisici ad andamento cronico, ai dolori oncologici, quando si sa che esiteranno nella morte, in cui sì c’è la fine della sofferenza, ma l’impossibilità di una rinascita. Penso alle depressioni croniche, in cui il vissuto è quello di un dolore psichico continuo che si avverte senza via di uscita. Allora l’individuo può lottare, cercando di resistere alla azione disgregante del dolore, ma vi soccombe. Diverso è il caso dei dolori da chemioterapia, o a seguito di interventi chirurgici, in cui il dolore è presente ma associato alla speranza di un miglioramento del quadro clinico, se non ad una completa guarigione.
Ad ogni modo, non dimentichiamo, infine, quanto sia importante riconoscere il dolore come senso protettivo da danno di altra origine: gli individui privati geneticamente della capacità di percepire il dolore, perché compromessi nella nocicezione, possono andare incontro a seri problemi, sottovalutando pericoli reali e affrontandoli in modo temerario, reputandoli per loro senza danno.