Il concetto di angoscia in Kierkegaard come struttura dell’esistenza umana

Søren Kierkegaard pubblica sotto lo pseudonimo di Vigilius Haufniensis, “Il concetto dell’angoscia” nel 1844 riprendendo un tema che era già presente in “Timore e tremore”, ossia quello della nozione di possibilità.
Tutti noi siamo, in vari modi ed in varie fasi della nostra vita, sottoposti ad essa, ma appare evidente che ogni possibile soluzione ci conduce verso più percorsi che ci appaiono per lo più ignoti. E l’ignoto, si sa, crea angoscia ed allora ogni scelta può creare angoscia. Se è vero che tutto è possibile, una volta compiuta la scelta non c’è possibilità di ritorno nella condizione di ” innocenza” originaria. Paradossalmente scegliere, in questo senso, non è essere del tutto liberi: lo è nella fase della scelta, nel mentre la compiamo, ma una volta fatta, la scelta ci incatena ad un nuovo destino, se non è possibile ritornare sui nostri passi.
Il “prima” della scelta provoca uno stato di tensione, di lotta interiore, quella lotta che Kierkegaard aveva vissuto combattendo con se stesso nel momento in cui doveva decidere se sposare o non sposare Regina Olsen.
Forse la situazione ideale poteva essere quella all’origine dei tempi, quando l’uomo viveva nell’ignoranza. Allora sembrava esserci pace e quiete perchè l’uomo era determinato psichicamente solo dalla sua natura. Ma è anche vero che nello stato di ignoranza, non c’è niente con cui confrontarsi, e, quindi, comunque questo genera angoscia.
In questo senso l’animale, non dotato di spirito, non può essere sottoposto all’angoscia e quindi sarebbe fortunato.
Nell’uomo, invece, questo stato sarebbe presente già nei bambini mentre li vediamo ricercare l’avventuroso e il misterioso. La disperazione è, allora, tipica della condizione umana.
L’angoscia è iniziata sin dai tempi di Adamo,al quale Dio dice di non mangiare il frutto della conoscenza del bene e del male, ma Adamo non era in grado di comprendere la differenza tra bene e male ed il divieto gli fa apparire chiara la possibilità della sua libertà.
La libertà ha un prezzo ed il prezzo è l’angoscia. La sua ignoranza perdura anche quando gli viene detto da Dio che dovrà morire visto che ha commesso il peccato: ancora una volta ignora, non sa che cosa voglia dire morire.
L’angoscia viene ad essere per lui motivo dominante sia nei confronti del
divieto (per qualcosa di cui non conosce i confini), sia nei confronti della pena (che giungerà una volta operata la scelta di quel qualcosa di cui non conosce i confini).
Se Adamo avesse avuto la nozione di ciò che era bene e ciò che era male, la sua scelta sarebbe stata cosciente, ma non conoscendo i limiti fra bene e male, vive in uno stato d’ignoranza che crea angoscia nei confronti del divieto ed anche nei confronti della pena, che rinnova l’angoscia nel presente.
L’angoscia è dunque la situazione psicologica che precede la scelta, che accompagna la scelta, che non dà pace.
La redenzione per i successori di Adamo è una possibilità, ma come tale non è ancora, e il singolo potrà dire di aver superato l’angoscia solo quando questa redenzione sarà colta. Questo potrà avvenire solo con un salto qualitativo, quel salto che si compie al di là dello stadio estetico e di quello etico, nello stadio religioso.
La categoria su cui Kierkegaard costruisce la sua filosofia, dunque, è quella della possibilità, intesa in polemica con la filosofia della necessità di Hegel.
La filosofia di Hegel è una filosofia della necessità, con il suo carattere essenzialmente logico: lo stesso succedersi dialettico dei concetti presenta un automatismo determinato dal meccanismo della contraddizione e dell’Aufhebung.
La nozione kierkegaardiana di libertà è “altro” proprio perché si fonda sulla nozione di possibilità, di scelta, di rischio. La libertà, la scelta, il rischio, ma anche il fallimento, la perdizione, la disperazione, sono dietro l’angolo.
Kierkegaard definisce la possibilità “come la più pesante di tutte le categorie”, in quanto “nella possibilità tutto è ugualmente possibile”: ed è proprio questa “onnipotenza della possibilità” ciò che genera un universale sentimento di angoscia.
L’angoscia è la connotazione emotivo-esistenziale della possibilità; è quella situazione emotiva che si prova di fronte a un nulla che può diventare tutto.
L’angoscia è paralizzante e generatrice di inquietudine ma differisce dalla paura che si riferisce sempre ad un oggetto determinato. L’angoscia non ha un oggetto determinato ed è strettamente connessa alla libertà dell’uomo e alla scelta che egli deve, in ogni caso, compiere, non potendo permanere nell’indeterminatezza senza limiti. Se, allora, tutto è possibile, occorre fare appello al nostro senso di responsabilità, occorre sapere usare bene tali spazi di libertà e di scelta che essa ci spalanca. Se tutto è possibile, però, la nostra condizione e la nostra sorte sono estremamente vacillanti, possono sempre mutare e rovesciarsi improvvisamente, ci manca un saldo terreno sotto i piedi. Al punto che, oppressi dal peso di una responsabilità che non sappiamo reggere, di un’angoscia e di una libertà che sono sproporzionate rispetto alla nostra finitezza, siamo portati ad implorare una necessità superiore a cui affidarci. Si potrebbe trovare rifugio in Dio ma, in quanto liberi, possiamo anche scegliere altro, scegliere di vivere lontano da Lui, scelta che ci dirige verso il peccato e dal peccato originale scaturisce la disperazione. La disperazione è la “malattia mortale”, “un eterno morire senza morire”, “è l’assenza della speranza di poter vivere”, “il vivere la morte dell’io”. L’io non riesce a risolvere la problematicità del suo rapporto con l’infinito.
Se l’angoscia, dunque, nasce dal timore del peccato, la disperazione è l’esperienza del peccato stesso.

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