Roselyne Rey nel suo Histoire de la doleur, Paris, La Découverte, 1993, ha cercato di tracciare una storia del dolore, ovvero una storia dei modi in cui è stata interpretata nelle diverse epoche
culturali la sofferenza. Dai suoi studi appare che la relazione dell’uomo con il dolore non sia indipendente da quello che è la sua fede e dal contesto filosofico in cui egli vive. Conosciamo bene la differenza tra il dolore fisico e quello psicologico, anche se non sempre sono distinguibili tra di loro, o meglio, se l’origine primaria è distinguibile, il correlato successivo e le intersezioni tra fisico e psicologico prima o poi si apprezzano inevitabilmente.
Si deve andare indietro, molto indietro nel tempo per cercare di capire il rapporto tra uomo e dolore, fino a raggiungere la civiltà greca, e cercare come esso venga descritto nei testi dell’antichità: l’Iliade, l’Odissea e il Corpus Ippocratico.
Lo studio della Rey si concentra sulle forme linguistiche: i vocaboli che vengono usati in riferimento al dolore non possono essere distinti in base ad una contrapposizione tra fisico e morale.
Nei testi epici, ad esempio, così come nella tragedia, la rappresentazione del dolore è espressione dell’episteme del mondo classico, ed essa detiene il compito di mettere in scena la brutalità del fato.
La cognizione del dolore nella cultura greca era parte della vita di tutti i giorni: l’eroe non doveva avene paura.
Il dolore fisico è un fatto del tutto naturale in una visione
del mondo in cui la natura è la legge che nessun progetto umano può infrangere. Allora, secondo questa visione, la questione sul senso della sofferenza non si pone. Eppure, assistiamo all’affermarsi ed allo svilupparsi della medicina come tecnica per porre rimedio al dolore, per il quale non dovrebbe esserci rimedio.
Michel Foucault in La cura di sé, ha evidenziato un paradosso nello sviluppo dell’arte medica nell’ambito della cultura greca:
«dato che s’iscrive, per lo meno in parte, all’interno di una morale in base alla quale la morte, la malattia o anche la sofferenza fisica non costituiscono autentici mali, e per la quale è meglio consacrarsi alla propria anima che dedicarsi alla cura del corpo»
(Foucault M., 1984, p. 60).
Eppure per la cultura greca i dolori del corpo e le sofferenze dell’anima sono in comunicazione tra di loro:
«le cattive abitudini dell’anima possono comportare delle miserie fisiche, mentre gli eccessi del corpo rivelano e alimentano i difetti dell’anima» (Ibid., p. 60).
La medicina, nel mondo greco, non si proponeva di trovare spiegazioni, ma di cercare dei rimedi per il corpo che, se ammalato, rappresentava un impedimento ad occuparsi della “cura dell’anima”.
La medicina è arte e scienza al tempo stesso, ma è soprattutto techné: rimedio al dolore presente.
Cura dell’anima e cura del corpo, allora, sono attività collegate.
La medicina è, come la filosofia, espressione della ragione che nel riflettere l’ordine naturale del cosmo può escogitare dei rimedi, elaborare degli strumenti per raggiungere il fine massimo che è la conoscenza di sé. La medicina aveva il compito di
difendere l’anima dalla fragilità del corpo. È questo il punto di contatto che spiega l’attenzione rivolta ai mali, ai disturbi e alle sofferenze fisiche.
Nei testi ippocratici il compito del medico è quello di alleviare il dolore, ma non di dare una spiegazione a colui che soffre. E’ la Filosofia ad avere il compito di esplicitare ciò che il dolore comporta.
Nel Corpus Ippocratico si mette in luce il tentativo di ridurre l’infinita varietà dell’esperienza dolorosa attraverso la catalogazione dei sintomi, con lo scopo di scindere il dolore dalla sua carica emotiva per descriverlo come uno squilibrio del
corpo, come un disturbo.
Alterazioni del corpo e moti dell’anima vengono
considerati entrambi come forme di passività (pathos) e da questo punto di vista il dolore assume, per il medico Ippocratico, dei significati specifici: è un fenomeno importante perché gli permette di vedere, grazie al ragionamento e alle conoscenze
che egli possiede sul corpo, ciò che altrimenti rimarrebbe celato da esso; esso è uno dei segni a partire da cui il medico può fare ipotesi sulla malattia per elaborare una prognosi. Il corpo per i greci non è affatto separato dall’anima, ma rappresenta ciò che le consente di manifestarsi. L’anima, attraverso il dolore del corpo si manifesta, ma non completamente: una parte rimane invisibile ed è questo il motivo che rende necessaria una speciale relazione tra medico e paziente, per giungere alla diagnosi.
Non tutti i pazienti hanno la capacità di descrivere il proprio dolore, ma il modo in cui il malato è capace di esprimere ciò che sente, fornisce al medico importanti informazioni per capire la malattia, perché è solo la descrizione che può dire qualcosa
sull’origine del male. In una medicina in cui la malattia è vista come processo che turba gli equilibri naturali del corpo, il dolore ne è la sua manifestazione tangibile, ne è il segno, e l’obiettivo principale del medico non è solo la diagnosi ma soprattutto la
prognosi.
L’essenza della teckné, della tecnica, è quella di cercare di rendere l’uomo autonomo dalla tirannia della natura.
La medicina Ippocratica si propone come tecnica per porre rimedio sia al dolore fisico che ai moti dell’anima; essa interpreta il dolore vissuto e il modo in cui viene raccontato non tanto come un semplice fenomeno, ma come un sintomo, il quale mostra la malattia.
Il dolore è il fenomeno a partire dal quale il medico indaga, per arrivare alla malattia. Questo metodo di conoscenza parte dal fenomeno (hékaston) per poi trasformarlo in segno (semeion) mediante un’inferenza logico-concettuale (loghismòs) ed è ciò che consente di prevedere e intervenire sui singoli casi clinici.
Già nel Corpus Ippocratico troviamo netta la distinzione tra segno (semeion) e sintomo (tekmerion): segno è quel dato clinico che ha un significato precipuo, è quel fenomeno osservabile che permette di giudicare la malattia, di riconoscerla e di prevederne il decorso. Il sintomo ha invece un significato generico, è un fatto clinico in cui si manifesta la malattia, ne è la prova inconfutabile, ma senza necessità di una spiegazione medica.
Dunque, il segno è ciò che permette di prevedere, il sintomo è fenomeno che manifesta la malattia.
La distinzione tra segni e sintomi è ancora vigente nella semeiotica medica odierna, ma non con lo stesso significato; nella medicina contemporanea i segni sono fatti clinici oggettivi mentre i sintomi sono fatti soggettivi, e tra questi ultimi viene annoverato il dolore, considerato fenomeno soggettivo per eccellenza.
Per il medico Ippocratico la distinzione tra sintomi e segni non segnava alcun confine tra soggettivo ed oggettivo, il dolore quando era capace di configurarsi come segno non era meno oggettivo di altri sintomi, era il medico che discerneva dal
racconto del paziente, e in ciò che egli stesso osservava, i segni (orientati alla previsione) dai sintomi (prove della malattia, ma che non necessariamente erano utili alla prognosi).
Per il medico Ippocratico l’obiettivo era formulare una prognosi, ossia conoscere la natura del disturbo per prevederne l’andamento e poter dunque fornire dei rimedi. Nel mondo greco, infatti, la tecnica non era qualcosa che aveva il potere di modificare la legge della natura, per cui il fine dell’azione del medico non poteva in alcun modo cambiare il destino, la fine. La tecnica è pensata dal greco come quella razionalità che consente, a chi è padrone della propria mente, di allontanare il dolore, quell’elemento vano che turba chi vaneggia, ossia colui che non sa disporre della propria mente.
La tecnica è, dunque, razionalità e la ragione è a sua volta una tecnica per porre rimedio al dolore, senza oltrepassare i limiti imposti dall’ordine della natura. Eppure, è proprio in quest’arte della cura che si fonda la possibilità di una medicina come scienza che porterà a mettere da parte il rapporto medico-paziente, nel tentativo di ridurre il ruolo della soggettività nella diagnosi del caso clinico.
Dunque, è proprio alla cultura greca che è possibile far risalire quella epistemologia che ha permesso alla medicina di svilupparsi come scienza, epistemologia che si concretizza nel naturalismo, nel determinismo e nel razionalismo.
Il naturalismo spiega tutti gli aspetti della realtà in termini di forze, agenti e cause.
Il morbo sacro in cui si tratta dell’epilessia, ha l’obiettivo di affermare il valore della medicina che fa uso di ragionamenti fondati sull’esperienza. Il principio deterministico può essere rintracciato per la prima volta nei testi ippocratici, dove si afferma che comprendere la causa della malattia è necessario per
capire come curarla.
Nell’epoca classica la teckné non è che uno strumento nelle mani
dell’uomo (dono del Dio o di Prometeo) il quale può farne esercizio solo all’interno delle mura della città, senza contrastare la legge della Natura. Nel momento in cui il “mezzo” tecnico diviene così esteso e potente da sfidare ogni legge (naturale o divina), allora è la natura ad essere un ritaglio all’interno della città e la tecnica il vero ambiente dell’uomo e la tecnica da mezzo diventa fine.
È all’interno di questo processo storico, in cui la scienza si sostituisce progressivamente ad ogni altro interlocutore rispetto alle domande dell’uomo, che può essere compresa la nascita della medicina moderna e dello sguardo clinico.
Se si vuole indagare le figure che la cultura ha elaborato e ha messo a disposizione degli individui per parlare del proprio dolore non si può iniziare che dalle categorie e dagli strumenti che la medicina clinica ha costruito per “difendere” l’uomo dall’esperienza del dolore.