L’Io nella distanza. Essere in relazione, oltre la prossimità di Donatella Pagliacci

Qui di seguito alcune considerazioni derivanti dalla lettura di questo bellissimo volume, denso di profondi spunti di riflessione.
Il termine distanza racchiude in sé significati che concernono le dimensioni sia dello spazio che del tempo. In sé il termine non ha una accezione negativa, perché può indicare sia ciò che è lontano, se la distanza spazio-temporale è grande, sia ciò che è vicino, se la distanza è più breve. Ma, dire: “Mettere una distanza” ha solitamente un significato negativo, come voler tenere qualcuno o una situazione lontani da sé. Il mito di Eco e Narciso raccontato da Ovidio ne sono testimonianza: Narciso non riesce a percepire la distanza tra sé e la sua immagine riflessa nell’acqua che, non riconoscendo, suscita il suo amore. ma questo amore sarà anche la sua condanna: Narciso è irrimediabilmente ripiegato su se stesso ed incapace di un amore altruistico. Eco è innamorata di Narciso ma scacciata da lui e condannata al silenzio della sua voce che può esprimersi solo come ripetizione, eco, appunto,  della voce altrui. La sua condanna è duplice: non è riamata e non può proiettarsi verso l’altro, perché la proiezione si dovrebbe esprimere anche tramite la propria voce, che le è negata. Quindi non può esservi relazione se non con se stessi ed in entrambi, ma mentre a Narciso tale relazione non interesserebbe perché è totalmente autocentrato, ad Eco interesserebbe ma non è fattibile, senza poter pronunciare una parola che sia solo sua.
Di fatto, ad entrambi è negata anche l’apertura interiore che non può prescindere dalla relazionalità con l’altro.
In realtà la distanza come prossimità è positiva quando si dispiega come un avvicinarsi all’altro e non come suo possesso: l’altro non è un oggetto di cui ci appropriamo ma un essere a cui avvicinarsi con cautela e rispetto. Ma l’eccesso opposto, come sostiene la Nussbaum ( 2001), di non occuparsi dell’altro, non è una caratteristica umana. Non è facile definire una “giusta distanza” se non come quella apportatrice di benefici per entrambi gli individui coinvolti nella relazione.
La distanza temporale, invece, è custodita dalla memoria, ma il tempo, come sosteneva Agostino è difficilissimo da definire. Può essere questa una delle ragioni per cui più ci allontaniamo dal passato, più diventa difficile, nel bene e nel male, relazionarci con oggetti che ne hanno fatto parte, come sostiene anche Hume nel suo Trattato sulla natura umana.
Sono soprattutto le emozioni, più che i ricordi, ad apparirci sbiaditi col passare del tempo.

L’esperienza del dolore, più di quella della gioia, accomuna, nelle sue forme, fisica e morale, tutti gli esseri umani. Ma il dolore non è solo “male”, ha anche un significato protettivo, ci indica che c’è qualcosa che non va, ci crea uno stato d’allarme e rappresenta anche un indizio per arrivare al problema: ecco perché alcuni mali fisici non vanno mascherati con terapie antidolorifiche che coprirebbero le vere cause del dolore. Ma il dolore, specie se violento, ci inchioda al nostro essere ed annulla la nostra capacità di mettere distanza. Chi soffre, solitamente soffre due volte: per sé e per chi gli sta vicino, sentendosi inadeguato per un mondo che va sempre più di corsa e che non accetta rallentamenti.

C’è una dimensione temporale che ci appare in tutta la sua crudezza, quella che si palesa nel momento della morte di una persona che amiamo, in cui il tempo rimane inesorabilmente schiacciato tra ciò che era e ciò che non potrà più essere. Il vissuto in comune con l’altro non esiste più, esiste solo nel ricordo, ma il ricordo non basta a rinverdire un rapporto che non può ripetersi nel tempo presente e non ha possibilità future. La morte di chi amiamo interrompe il dialogo con lui, spesso in modo brutale, se la morte è improvvisa e se non siamo pronti ad essa. In modo ancora più irreparabile se si tratta della morte di un figlio, alla quale non si è mai pronti. Il dolore è impronunciabile anche nella definizione: non esiste un termine adatto per questo evento luttuoso.
Non è semplice in nessun caso reinventarsi una vita per chi sopravvive alla morte di chi si ama, ma credo che la morte di un figlio renda questo processo praticamente impossibile.
Forse, solo cercare un altro registro ermeneutico, la consolazione filosofica e non quella religiosa o psicologica, assieme alla speranza, possono aiutarci a sopravvivere.

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