Alessia entra la prima volta nel mio ambulatorio con un bambino sgambettante al seguito. Mi chiede scusa perchè non è riuscita ad affidarlo a nessuno ed è stata costretta a portarselo in ambulatorio con sé. Il bimbo si chiama Alex, ha cinque anni, appare irrequieto anche se, pure nella sua iperattività, non mi stacca gli occhi di dosso. Tocca tutto sulla scrivania, non riesce a stare seduto sulla sedia per più di tre minuti. La mamma si scusa di nuovo, cerca di giustificare la sua iperattività, adducendola al fatto che sono costretti a vivere in un monolocale di pochi metri quadrati e lui, appena ha a disposizione un pò più di spazio, se ne approfitta subito. Allo stesso modo sembra voler giustificare la sua magrezza con la scusante che gli deve stare tanto dietro, temendo che si faccia male e che, spesso, non ha neppure il tempo di mangiare per accudirlo. Finalmente Alex si quieta con un giochino che per caso avevo in studio, un pupazzetto di plastica che sembra attirare molto la sua attenzione.
Si siede su dei cuscini a terra, la mamma gli mette nelle orecchie le cuffiette della musica e lui sembra entrare in un mondo tutto suo. Spiego alla madre che mi spiace che non sia riuscita a trovare qualcuno che le tenesse il bambino, ma che non mi è possibile condurre un colloquio in sua presenza. Alessia comprende, mi racconta sommariamente che vive da sola col bimbo, ma che per il prossimo incontro cercherà di affidarlo a sua sorella. Il papà del bambino, suo ex compagno, è spesso fuori per lavoro.
Fissiamo un altro appuntamento per la settimana successiva.
La raccolta dell’anamnesi è resa difficoltosa dai singhiozzi continui della ragazza che, sebbene abbia venticinque anni, fisicamente ne dimostra molti meno: sembra una adolescente. Ha perso il papà da piccola, morto d’infarto. Lui era una figura molto importante per lei, un punto di riferimento saldo, più della madre. La mamma viene descritta come molto dura, poco affettiva nei suoi confronti in particolare, ma in genere nei confronti anche della sorella minore e del fratello. Probabilmente, racconta Alessia, la mamma si era ritrovata con tre bimbi piccoli da dover gestire ed ai quali aveva dovuto fare un pò da madre e da padre e per questo usava spesso maniere rigide con loro. o, semplicemente, caratterialmente era fatta così. A scuola Alessia non andava bene, era stata anche seguita in ambito psicologico per elaborare il lutto del papà, ma probabilmente non c’ era mai riuscita. Ne parlava con la disperazione di chi avesse perso il genitore solo pochi giorni prima. Portò a termine le medie e lì iniziarono i problemi alimentari. Restringeva il cibo in modo pazzesco, provava una fame continua ma si costringeva a non mangiare. Pensava al cibo tutto il giorno e le poche volte che cedeva a mangiare qualche dolce, il suo cibo preferito, poi lo vomitava in modo autoindotto. Non erano ovviamente delle vere e proprie abbuffate, come accade nelle forme bulimiche, ma per lei lo erano: trasgrediva e quindi, poi, doveva punirsi eliminando quel cibo che le piaceva. Andò avanti per molto tempo. Amenorroica, riebbe dei cicli solo verso i 16 anni, quando cominciarono le abbuffate vere e proprie e, non riuscendo ad eliminare tutto il cibo, aveva acquisito il peso sufficiente perchè le tornassero i cicli mestruali. Stava meglio, indubbiamente, da un punto di vista fisico, perchè aveva preso un pò di peso anche se non si piaceva perchè non lo stava riprendendo in modo uniforme. Ad ogni modo, si sentiva abbastanza serena. A 20 anni aveva trovato un lavoretto, non se la sentiva di continuare gli studi, presso un negozio di tessuti. Il proprietario, Roberto, era molto giovane e gentile ed iniziò a farle la corte. Alessia non se la sentiva di raccontargli subito i suoi problemi alimentari, ma quando lui la invitò a cena, le prime volte, capì che c’era qualcosa che non andava. Non le chiese nulla, pensando che prima o poi lei si sarebbe aperta a lui. E così accadde, seppure Alessia non gli raccontò proprio tutto nei minimi dettagli. Dopo qualche mese, stando tanto tempo assieme, nacque un feeling che li portò ad una vera e propria relazione sentimentale. Il primo rapporto sessuale fu quasi un disastro. Alessia provava tanto dolore, ma probabilmente era già dispareunica, non si trattava del solito dolore della ‘prima volta’. Ad ogni modo, nonostante i rapporti successivi non fossero un vero e proprio successo, Roberto si legò affettivamente a lei e dopo poco le chiese di andare a vivere insieme. Alessia rimase subito incinta. Era indecisa se tenere o meno il bambino, lo sentiva una specie di intruso tra lei e Roberto che, invece, voleva assolutamente questo figlio. Decisero di portare avanti la gravidanza che, però, segnò anche la fine del loro rapporto. Alessia la trascorse quasi tutto il tempo a letto, a causa delle continue minacce d’aborto. Alessia era evidentemente anche deflessa nell’umore, si alimentava poco e si rifugiava nel sonno. Trascurava anche la sua igiene personale e decise di andare a dormire nella seconda camera da letto che avevano, in modo da non disturbare Roberto, perchè spesso, sonnecchiando tutto il giorno, di notte dormiva poco. Il bimbo nacque con parto cesareo: Alessia aveva perso troppo peso per poter reggere un travaglio. Quando le fu messo sul seno, appena nato, lo rifiutò e volle che lo prendesse il padre. Non lo allattò al seno volontariamente, di latte ne avrebbe avuto ma non aveva alcuna voglia di stabilire un legame con lui. Il rapporto con Roberto a poco a poco si dissolse, il papà continuò ad occuparsi del bambino con molto amore, anche se il lavoro spesso lo teneva lontano dalla città e dall’appartamento dove continuavano a vivere madre e figlio, e del quale si era interamente fatto carico delle spese. Preoccupato dello stato di salute dell’ex compagna, non era, però, in grado di gestirlo e per questo contattò il medico di medicina generale che la inviò al mio ambulatorio. Stiamo iniziando, con Alessia questa fase difficile di accettazione di sé, indispensabile perchè riesca ad accettare il figlio, altro da sé e a diventare quella madre sufficientemente buona di bowlbiana memoria e a fare in modo, con un trattamento psicoterapico adeguato, che perda la certezza di non riuscire ad offrire al figlio anche il suo seno buono oltre a quello cattivo, come definiva M. Klein la capacità di ogni madre di donare al proprio figlio le sue ricchezze ma anche, inevitabilmente, le sue mancanze.
