L’Autolesionismo e la sofferenza giovanile: una panoramica


Nel mio lavoro di psichiatra/ psicoterapeuta a contatto soprattutto con i ragazzi più giovani, mi sta capitando sempre più spesso, nell’ambito delle consulenze in Pronto Soccorso, o nel lavoro quotidiano ambulatoriale, di imbattermi in episodi sporadici o più frequenti di autolesionismo.

Ma cosa è l’autolesionismo? Esso rappresenta una pratica atta a danneggiare, in modo più o meno profondo il proprio corpo. Le pratiche attraverso le quali si può ottenere tale effetto traumatico sono le più diverse, con oggetti taglienti, con le sigarette accese, per citare solo alcune condotte, ma comunque avvengano le lesioni, esse sono dirette e intenzionali. Il fenomeno sembra essere esploso negli anni più recenti, sopratutto nel periodo del lockdown, interessando adolescenti e giovani adulti. In realtà anche studi meno recenti, come quello di Ross del 2002 ne ha attestato la presenza con una incidenza del 15-20% nella popolazione adolescenziale ( con esordio tra i 13 e i 14 anni) e del 6% nella popolazione adulta. In entrambe le fasce di età, l’incidenza è comunque più elevata in soggetti che soffrono di patologie psichiatriche, in particolare nei disturbi d’ansia e e nei disturbi dell’umore. L’edizione precedente a quella attuale, la n.5, del DSM, il Manuale diagnostico statistico dei disturbi mentali, annoverava l’autolesionismo come uno dei criteri identificativi del Disturbo Borderline di Personalità. La letteratura più recente, invece, associa questa pratica anche ad altre diagnosi, come i già citati disturbi d’ansia, la depressione, ma anche l’abuso di sostanze, i disturbi alimentari, la schizofrenia e altri disturbi di personalità, oltre al borderline. In realtà non sempre si diagnostica un quadro psicopatologico sottostante, ma possono essere determinanti anche la presenza di relazioni familiari disfunzionali, di isolamento amicale e sociale e di basso rendimento scolastico.
Gli atti autolesionisti hanno una natura ed una finalità diversa rispetto ai tentativi di suicidio, ma esiste un legame a volte predittivo tra i primi e i secondi, per cui appare quanto mai opportuno approfondirne le dinamiche più recondite.
Il DSM 5 del 2013 ha iniziato a considerare l’autolesività non suicidaria come categoria diagnostica a sé stante, individuando dei criteri diagnostici:

Criterio A
Nell’ultimo anno, in cinque o più giorni, l’individuo si è intenzionalmente inflitto danni di qualche tipo alla superficie corporea in grado di indurre sanguinamento, lividi o dolore (per es. tagliandosi, bruciandosi, accoltellandosi, colpendosi, strofinandosi eccessivamente), con l’aspettativa che la ferita porti a danni fisici soltanto lievi o moderati (non c’è intenzionalità suicidaria).

Criterio B
L’individuo è coinvolto in condotte autolesive con una o più delle seguenti aspettative:

1. Ottenere sollievo da una sensazione o uno stato cognitivo negativi

2. Risolvere una difficoltà interpersonale

3. Indurre una sensazione positiva

Criterio C
L’autolesività intenzionale (le condotte autolesive)è associata ad almeno uno dei seguenti sintomi:

1. Difficoltà interpersonali o sensazioni o pensieri negativi, come depressione, ansia, tensione, rabbia, disagio generalizzato, autocritica, che si verificano nel periodo immediatamente precedente al gesto autolesivo.

2. Prima di compiere il gesto autolesivo, presenza di un periodo di preoccupazione difficilmente controllabile riguardo al gesto che l’individuo ha intenzione di commettere.

3. Pensieri di autolesività presenti frequentemente, anche quando il comportamento non viene messo in atto.


Quello che viene definito ‘deliberate self harm’ o ‘auto-danneggiamento intenzionale’, comprende una serie variegata di comportamenti patologici che sono stati raggruppati in tre grosse categorie:
1. le condotte di auto-danno, come l’abuso di sostanze psicoattive, la sessualità promiscua e non protetta e il gioco d’azzardo,
2. le condotte di auto-avvelenamento, come l’ingestione di sostanze tossiche e l’overdose di droghe,
3. le condotte autolesive, come tagliarsi e bruciarsi.
Nell’ambito dell’auto-danneggiarsi esistono diversi livelli di gravità che vanno da quelli maggiori che determinano un danno tissutale grave e permanente, a quelli meno gravi e superficiali. In anamnesi, nei primi, se ne può trovare anche solo uno ma di grande portata, come la castrazione ed essi solitamente si associano ai disturbi psichiatrici maggiori come le psicosi o alle intossicazioni acute da sostanze psicoattive. Un autolesionismo di tipo stereotipato e ripetuto è quello che può associarsi all’autismo o ad un grave ritardo mentale, come mordersi parti del corpo o procurarsi ferite sul capo, urtandolo contro le pareti. Un autolesionismo moderato o più superficiale consiste in atti che possono verificarsi episodicamente o in modo più ripetuto, tanto da determinare un lieve danneggiamento dei tessuti corporei tramite tagli, bruciature e abrasioni. Esso può verificarsi quotidianamente , in modalità compulsiva, oppure più episodicamente ma comunque in modo ripetuto, che starebbe a testimoniare un discontrollo degli impulsi. In realtà in molti dei casi che mi sono capitati è emersa l’intenzionalità del gesto più che l’incapacità di tenerlo sotto controllo, che viene attuato spesso, allorquando il clinico ne chiede le motivazioni, per “sentire” il proprio corpo, viceversa non avvertito perchè anestetizzato, oppure provare un forte sentimento di rabbia verso gli altri o verso se stessi, che viene rivolta verso sé. Non è facile e sarebbe assolutamente riduzionistico e superficiale analizzare in questa sede i significati simbolici che sottendono questi gesti, le cui dinamiche vanno approfondite in un percorso psicoterapeutico. Si potrebbe solo fare cenno all’autolesionismo come strategia difensiva di fronte ad uno stato emotivo vissuto come intollerabile e quindi spostare una sofferenza mentale in una sofferenza fisica potrebbe essere momentaneamente un sollievo. L’autolesionismo può essere messo in pratica quando si vorrebbe comunicare qualcosa ma non si riesce a farlo secondo i più comuni canali comunicativi e quindi ci si ferisce perchè gli altri si accorgano che stiamo soffrendo. Purtroppo non è possibile non valutare che, sebbene questi gesti abbiano una portata inferiore rispetto a veri e propri tentativi di suicidio, a volte l’azione intrapresa potrebbe andare oltre le aspettative e causare danni maggiori di quelli attesi. Alcuni studi (Klonsky e coll., 2013), inoltre, hanno messo in luce che una storia di autolesionismo potrebbe rappresentare un fattore di rischio per il tentato suicidio o per il suicidio stesso, anche perchè attraverso un percorso di desensibilizzazione fisica al dolore, si potrebbe arrivare a non temere più un gesto estremo.







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