Questo è il lavoro di Tesi di Laurea in Scienze Infermieristiche di Federica, molto apprezzato dalla commissione esaminatrice per l’attualità del tema trattato. Lo pubblico molto volentieri, perchè una tesi non servirà certo a fermare la violenza sulle donne, ma rappresenta una testimonianza forte di quanto l’argomento sia attuale non solo il 25 Novembre ma ogni giorno delle nostre vite.
“Se un individuo è capace di amare positivamente, ama anche se stesso; se può amare solo gli altri, non può amare affatto.”
Erich Fromm, L’arte di amare
Introduzione
Negli ultimi anni si sta assistendo a un cambiamento della società legato a un progresso delle tecnologie e un continuo aumento della necessità di risorse materiali. Inoltre, si stanno affermando degli elevati livelli standard di immagine che rendono sempre più insicure le persone di se stesse e dei propri valori. Tutto ciò ha portato allo sviluppo di nuove dipendenze patologiche ancora poco considerate tra cui la dipendenza affettiva. La dipendenza affettiva è una condizione psicologica molto diffusa soprattutto nelle donne, ma riscontrabile anche in una piccola percentuale di uomini. Essa pone le basi già nell’infanzia, nell’educazione che riceviamo dai genitori e nel rapporto che si instaura con loro fin dalla nascita.
Materiali e metodi
Per analizzare al meglio questo problema ho assistito ad alcune sedute singole sostenute dalla Dott.ssa Anna Maria Pacilli. Inoltre, ho effettuato una ricerca bibliografica sulla banca dati Psycoinfo e mi sono documentata su questo tema mediante diverse letture.
Risultati
Dalla ricerca è emerso che le persone con dipendenza affettiva subiscono violenza psicologica spesso inconsapevolmente. Questo porta a delle importanti conseguenze sulla loro salute fisica e psichica. Inoltre, questa condizione porta i dipendenti a isolarsi da amici e parenti e spesso, non riuscendo più a mantenere la concentrazione sul lavoro, si licenziano o vengono licenziati. Dunque, ha delle ripercussioni su tutti gli aspetti di vita della persona. Può capitare, poi, che la violenza psicologica sfoci in quella fisica. Essendo una condizione legata principalmente alle donne, esistono ancora pochi studi sugli uomini e quando provano a farsi aiutare spesso non vengono creduti.
Conclusioni
La dipendenza affettiva è una condizione che può avere importanti conseguenze sulla vita della persona ed è molto difficile prenderne consapevolezza. Esistono delle soluzioni a questo problema e quando un infermiere entra in relazione con una persona che ha subito violenza fisica, deve cercare di avere una visione olistica, andando oltre allo svolgimento delle prestazioni tecniche e ai suoi pregiudizi, perché quel paziente può semplicemente essere un dipendente affettivo. Dunque, è bene che sappia instaurare con lui una buona relazione basata sulla fiducia ed il rispetto.
PREMESSA
Questa tesi nasce da un mio profondo interesse per la psicologia. L’ho studiata molto al liceo socio-sanitario che ho frequentato precedentemente e in seguito ho continuato ad approfondire l’argomento da sola con molte letture personali. Inoltre, credo molto nella relazione di aiuto tra infermiere e paziente. Durante i tirocini che ho affrontato, ho capito l’importanza di una buona capacità di ascolto e di relazione con il malato che può migliorare non solo il suo umore, ma anche l’esito delle terapie e la percezione del dolore. Tra i tanti temi in ambito psicologico ho scelto di affrontare le dipendenze affettive perché è un tema ancora poco conosciuto e che io stessa ho scoperto la scorsa estate grazie alla lettura del libro “Donne che amano troppo” di Robin Norwood, da cui sono rimasta molto colpita.
INTRODUZIONE
La dipendenza è definita come “una condizione, in cui un individuo si trova, di incoercibile bisogno di un prodotto o di una sostanza, soprattutto farmaci, alcol, stupefacenti, a cui si sia assuefatto, e la cui astinenza può provocare in lui uno stato depressivo, di malessere e di angoscia, e talora turbe fisiche più o meno violente, cioè nausea, dolori diffusi, contrazioni, ecc.”1. Esiste una dipendenza sana e una patologica, la prima ha come oggetto le cose utili alla nostra sopravvivenza (ossigeno, acqua, cibo, …). La seconda invece può nascere dall’uso di sostanze stupefacenti e dall’abuso di alcol come dal gioco d’azzardo, comunemente considerate dipendenze. Purtroppo, negli ultimi anni si sta assistendo alla nascita di nuove e poco considerate dipendenze a seguito di comportamenti quotidiani che ci forniscono piccole gratificazioni continue come un “like” su una foto pubblicata su una pagina social. Bisogna fare attenzione alle necessità che rischiano di diventare fonte di dipendenza, come il cibo, soprattutto nei paesi ricchi. Una forma di dipendenza patologica ancora poco conosciuta è la dipendenza affettiva, una condizione psicologica molto diffusa soprattutto negli ultimi anni, ma sottovalutata o non considerata in quanto non si manifesta con sintomi specifici ed è difficile riconoscerla e prenderne consapevolezza. Essa si sviluppa maggiormente nelle donne, tuttavia si può riscontrare anche in una piccola percentuale di uomini. Questa tipologia di dipendenza pone le basi già nell’infanzia, infatti fin dalla nascita il bambino instaura modelli di attaccamento affettivo che condizioneranno la sua personalità e il rapporto con gli altri. Nel caso in cui il livello di queste prime forme relazionali non sia adeguato, il bambino potrà sviluppare dei rapporti non sani da adulto. Inoltre, un modello di attaccamento disfunzionale e traumi infantili possono sviluppare disordini di personalità. Rischia così di svilupparsi un modo diverso di vedere le relazioni e la persona che si ha di fronte: a causa della necessità che si prova della vicinanza dell’altra persona ci si illude che la relazione sia perfetta, la persona al proprio fianco sembra essere la migliore, l’unica in grado di renderci felici davvero, ma dietro questa apparenza si nasconde un lato oscuro, fatto di violenza psicologica. Ed è importante riconoscere questa forma di violenza prima che si sposti anche a livello fisico. La dipendenza affettiva è un fenomeno molto diffuso al giorno d’oggi, in quanto le persone si sentono sempre più insicure del proprio modo di essere a causa delle pressioni generate dagli standard di immagine sempre più elevati, e si avverte così il bisogno di essere accettati e desiderati da qualcuno anche a costo di subire violenza psicologica e fisica. Entrambe destabilizzano la persona interiormente causando gravi problemi sia a livello fisico, come anoressia e bulimia, sia a livello psicologico come psicosi, disturbi di personalità, schizofrenia, disturbi dell’umore. Spesso la violenza fisica ci sembra qualcosa di molto lontano dalla nostra realtà quotidiana, ma purtroppo è molto più vicina di quanto si possa immaginare come ci dice anche una statistica che arriva dagli Stati Uniti in cui una donna su tre ha subito violenza fisica da partner intimo. Questa forma di violenza ha assunto una tale rilevanza da essere stata definita dall’OMS come Intimate Partner Violence (IPV) ed è associata a varie alterazioni delle condizioni di salute fisica, sintomi somatici e comportamenti non salutari. L’IPV può manifestarsi sotto forma di aggressioni o minacce verbali, attacchi fisici, violenza sessuale o coercizione.
OBIETTIVO
L’obiettivo della mia tesi è quello di comprendere il motivo per cui alcuni sviluppano una dipendenza affettiva verso qualcun altro, e quali sono i tratti caratteristici degli uni e degli altri dalla quale si dipende. Verrà presa in considerazione la famiglia per analizzare come l’educazione che si riceve da entrambi i genitori può influenzare le relazioni sociali e la personalità. Inoltre, analizzerò come l’infermiere può avere un ruolo importante nella relazione con i dipendenti affettivi e nella gestione delle conseguenze fisiche e psicologiche che insorgono. Infine, si cercherà di individuare alcune strategie per affrontare questo problema.
MATERIALI E METODI
Per svolgere la mia tesi ho effettuato una ricerca sulla banca dati Psycoinfo inserendo le parole chiave precedentemente tradotte in inglese: emotional dependence (dipendenza affettiva) e psychological violence (violenza psicologica). L’operatore booleano utilizzato è OR. Per restringere il campo di ricerca ho inserito come limite “middle age” e ho scelto gli articoli più recenti pubblicati tra il 2014 e il 2018. La ricerca ha prodotto 26 risultati: tra questi ho scelto di analizzare 4 articoli in quanto più pertinenti con il quesito della mia ricerca. Gli articoli analizzati sono:
• “Associations Between Psychological, Physical, and Sexual Intimate Partner Violence and Health Outcomes Among Women Veteran VA Patients” di Dichter M, Marcus S, Wagner C, Bonomi A.
• “Psychological Intimate Partner Violence and Sexual Risk Behavior: Examining the Role of Distinct Posttraumatic Stress Disorder Symptoms in the Partner Violence-Sexual Risk Link” di Overstreet NM, Willie TC, Hellmuth JC, Sullivan TP.
• “Domestic violence in pregnancy: prevalence and characteristics of the pregnant woman” di Almeida FSJ, Coutinho EC, Duarte JC, Chaves CMB, Nelas PAB, Amaral OP, et al.
• “When the woman gets violent: the construction of domestic abuse experience from heterosexual men’s perspective. J Clin Nurs” di Entilli L, Cipolletta S.
Inoltre, nella stesura della tesi mi è stato di aiuto la lettura dei seguenti libri:
• “Donne che amano troppo” di Robin Norwood, 1985
• “La dipendenza affettiva. Ma si può morire anche d’amore?” di Cesare Guerreschi, 2011
• “Nella trappola di uno psicopatico” di Cinzia Mammoliti, 2018
Infine, per comprendere meglio i sentimenti e gli stati d’animo delle persone affette da questa problematica riporterò alcuni esempi di storie vere tratti da alcune sedute singole condotte dalla Dott.ssa Anna Maria Pacilli alle quali ho avuto l’opportunità di partecipare.
CAPITOLO 1
LE ORIGINI DELLA DIPENDENZA AFFETTIVA
Per capire meglio i meccanismi che stanno alla base di questo problema occorre analizzare i pensieri e le teorie dei vari psicologi in relazione al processo di sviluppo del bambino e al ruolo genitoriale nell’educazione. Il primo psicanalista che vorrei citare è Freud che ha studiato molto la personalità dell’individuo e lo sviluppo affettivo. Suddivide quest’ultimo in cinque fasi, durante le quali è importante la relazione che si instaura tra i genitori e i bambini e la soddisfazione dei desideri che caratterizzano ogni fase. Inoltre, approfondisce la fase del complesso di Edipo la cui risoluzione è importante per la formazione della personalità e lo sviluppo di sane relazioni intime. Erikson amplia la teoria freudiana individuando otto fasi dello sviluppo psicosociale ognuna delle quali è caratterizzata da una crisi, vista in senso positivo, importante per la costruzione della propria identità. Per lo sviluppo di questa, egli dà importanza, oltre che alla relazione che si instaura con i genitori, all’ambiente che lo circonda e alla società in cui vive l’individuo. A partire dalle teorie psicoanalitiche classiche, in particolare quella di Freud, Melanie Klein e altri psicanalisti, sviluppano la teoria delle relazioni oggettuali che pone molta importanza al rapporto che si instaura tra la madre e il bambino fin dalla vita intrauterina. Ma per comprendere meglio i processi attraverso il quale un individuo conquista la propria autonomia occorre introdurre il concetto di attaccamento. Sia l’attaccamento che la dipendenza hanno in comune un legame con un’altra persona, ma di solito l’attaccamento non impedisce il distacco, mentre la dipendenza si. La teoria dell’attaccamento è stata formulata da Bowlby che identifica tre stili di attaccamento con la madre che il bambino può sviluppare nei primi anni di vita e che condizioneranno tutta la sua vita. Mary Ainsworth amplia la sua teoria studiando i legami di attaccamento nell’adulto attraverso uno strumento diagnostico, di ricerca e di osservazione della relazione madre-bambino, definito “strange situation”. Analizzerò in questo capitolo come il legame di attaccamento che si instaura condizionerà l’individuo e le sue relazioni.
1.1 LE TEORIE DI FREUD
Come detto precedentemente, lo psicanalista Freud approfondisce il tema dello sviluppo dell’affettività nel bambino. Egli introduce nuove tecniche come l’analisi dei sogni e le libere associazioni con lo scopo di riportare alla coscienza degli eventi passati. Infatti, lui sostiene che ciò che abbiamo vissuto da bambini condizionerà la nostra personalità. Inoltre, egli sostiene che il comportamento dell’uomo è dettato dal piacere, dalla ricerca dell’appagamento e dalla realizzazione dei propri desideri. Tuttavia, questo desiderio si scontra con la realtà, con le regole e le difficoltà, e da questo scontro nascono le frustrazioni. Quando l’individuo segue il piacere e i propri desideri adotta un processo primario, quando invece vi rinuncia e segue la realtà, adotta un processo secondario. Secondo la sua teoria, lo sviluppo è visto come il passaggio dal processo primario a quello secondario basato principalmente sulla logica. Freud suddivide la personalità dell’individuo in tre componenti: Io, Es e Super Io. L’Io segue il principio di realtà e consente al soggetto di differenziare la realtà interna da quella esterna. L’Es, totalmente inconscio, segue, invece, i propri desideri e dunque il piacere. Infine, il Super Io nasce dall’interiorizzazione delle norme imposte dalla società o dai genitori e ha l’obiettivo di rafforzare l’Io quando segue queste norme o, al contrario, indebolirlo quando non le segue, producendo così ansia e senso di colpa. Lo sviluppo affettivo, secondo Freud, si sviluppa attraverso degli stadi: la fase orale (0-18 mesi), la fase anale (18 mesi-3 anni), la fase fallica (3anni-5anni), la fase di latenza (dai 6 anni alla pubertà) e la fase genitale adulta (dalla pubertà). Ogni stadio è legato a una parte del corpo che diventerà la meta della pulsione. Tuttavia, essi non hanno una configurazione rigida, ma è possibile passare alla fase successiva anche senza aver superato quella precedente. Quando, però, la pulsione di ogni fase non viene soddisfatta del tutto, o, al contrario, viene soddisfatta troppo si potrà sviluppare una “fissazione”, impedendo così al soggetto di passare alla fase successiva. Questo può essere legato a traumi infantili o all’incapacità del soggetto di abbandonare la fase dove ha trovato più soddisfazione.
Spesso le fissazioni, quando sono sane, si manifestano con gesti banali e inconsapevoli come toccarsi continuamente i capelli o mangiarsi le unghie. Tuttavia, quando diventano patologiche la persona organizza consapevolmente la sua vita attorno a determinati comportamenti, mettendo in secondo piano aspetti più importanti della vita come il lavoro e le proprie relazioni, e quando non può metterli in atto proverà un senso di malessere. In questo caso la persona potrà sviluppare patologie ossessivo-compulsive. Alcuni dei comportamenti adulti possono derivare da una regressione o da residui delle fasi dello sviluppo affettivo. Ad esempio, una regressione della fase orale può portare il soggetto ad assumere comportamenti passivo-dipendenti, atteggiamenti protettivi verso gli altri e pessimistici. L’aggressività e la dominanza sono invece tratti di personalità legati alla fase fallica. Se, invece, il bambino non riesce a superare le fasi della sessualità infantile ci potrebbero essere comportamenti nevrotici o perversioni sessuali. Dunque, il superamento del complesso di Edipo svolge un ruolo importante nel raggiungimento di una sessualità matura, fondamentale per una vita sociale equilibrata. Il complesso di Edipo rappresenta una normale fase dello sviluppo emotivo del bambino che Freud pone all’interno della fase fallica, legata all’identità sessuale. Freud utilizza il termine per entrambi i sessi, tuttavia Jung introduce per le bambine il termine di complesso di Elettra, ma con le stesse modalità di sviluppo. Il complesso di Edipo consiste nella competizione che il figlio nutre per il genitore del proprio sesso, dovuta all’attrazione per il genitore di sesso opposto. Dunque, il bambino diventerà possessivo nei confronti della figura materna e si altera se il padre esprime gesti affettuosi nei confronti della madre. Allo stesso modo avviene nelle bambine verso la figura paterna. Solitamente il complesso di Edipo si risolve spontaneamente con l’identificazione progressiva con il genitore del proprio sesso. Tra i tre e i cinque anni di età il bambino capisce, attraverso i richiami paterni, di non poter soddisfare le proprie pulsioni e manifesterà così collera: questa è la fase del complesso di castrazione. Infine, verso i cinque-sei anni, il bambino, per paura di essere punito, rinuncerà gradualmente a prendere il posto del genitore del suo stesso sesso e sposterà la sua attenzione verso un’altra persona del sesso opposto al di fuori della famiglia. Il modo in cui il complesso di Edipo viene affrontato e superato dipende dalle precedenti fasi e dal rapporto che i genitori creano con i propri figli. Il mancato superamento di questa fase sarebbe all’origine della maggior parte dei disordini psichici e della nascita di relazioni problematiche. Inoltre, nel caso in cui al bambino mancasse la figura paterna, il piccolo si identificherà con la madre e di conseguenza potrebbe, da adulto, interessarsi a persone del suo stesso sesso. Così come se il genitore rifiutasse l’affetto del bambino, egli potrebbe sviluppare sensi di colpa e di vergogna che gli provocheranno difficoltà nell’instaurare delle sane relazioni intime.
1.2 LE TEORIE DI ERIKSON
Mentre per Freud lo sviluppo affettivo avveniva in cinque fasi, lo psicologo e psicanalista Erikson individua otto stadi di sviluppo psicosociale, in quanto prende anche in considerazione la terza età. Ogni stadio è caratterizzato da una crisi dovuta al conflitto tra due tendenze opposte:
1 Fase della fiducia/sfiducia, 0-1 anno (fase orale freudiana): il bambino ha bisogno di essere nutrito e accudito e il soddisfacimento dei suoi bisogni primari crea in lui un sentimento di fiducia nei confronti del mondo. In questa fase è molto importante il rapporto che si instaura con la madre. Se la relazione è disturbata, il bambino proverà un senso di sfiducia che si estenderà alla realtà che lo circonda. 2 Fase dell’autonomia/vergogna e dubbio, 1-3 anni (fase anale freudiana): il bambino inizia a differenziare il sé dal non sé; nasce il senso di autonomia in quanto il bambino inizia a staccarsi dalla madre per esplorare l’ambiente, ma se si sente frustrato o deriso insorgono i sentimenti della vergogna e del dubbio. Inoltre, se i genitori si mostrano troppo ansiosi ostacolando la sua psicomotricità, il bambino si bloccherà e non riuscirà a ottenere la sua autonomia, ma anzi la vedrà in senso negativo come fonte di frustrazioni e diventerà insicuro nei suoi comportamenti sviluppando dubbi sulle proprie abilità. 3 Fase dell’iniziativa/senso di colpa, 3-6 anni (fase genitale/edipica freudiana): nel bambino inizia a formarsi il senso della moralità e del dovere. Se la fase non viene risolta al meglio, aumentando e indirizzando lo spirito d’iniziativa, o accettando le nuove curiosità del bambino, nascerà in lui un forte senso di colpa. 4 Fase dell’industriosità/inferiorità, 6-12 anni (fase di latenza freudiana): il bambino ha bisogno di ottenere l’approvazione degli altri, sia a scuola da parte degli insegnanti, sia nelle relazioni sociali. Al contrario se ciò non avviene insorgerà in lui un senso di inferiorità. 5 Fase dell’identità, 12-20 anni (fase genitale freudiana): l’individuo cerca di costruirsi una propria identità sulla base dell’Io che si è costruito finora in relazione agli altri vari modelli con cui si confronta. In questa fase è importante il ruolo dei genitori e il modo in cui si relazionano all’adolescente: non dovrebbero adottare comportamenti ambigui o confusionari ma adattarsi ai suoi normali cambiamenti legati alla tempesta ormonale. Un inadeguato sviluppo dell’identità può far si che si sviluppino psicosi o psicopatie. 6 Fase dell’intimità e isolamento, 20-40 anni: il giovane vuole confrontare con gli altri la propria identità costruita e inizia così a costruire relazioni intime sia amorose, sia amichevoli. Se invece la costruzione dell’identità non è stata completata l’individuò avrà timore di un rapporto completo e impegnativo e tenderà a isolarsi. 7 Fase della generatività/stagnazione, 40-65 anni: l’individuo sente la necessità di creare e generare qualcosa di utile, nel lavoro e nella famiglia, da tramandare alle generazioni successive. Questo è l’obiettivo che la persona si prefigge in questo periodo che, se non raggiunto, potrà far nascere in lei un senso di stagnazione e inutilità riferita alla propria esistenza. 8 Fase dell’integrità dell’Io/disperazione, dai 65 in poi: fase della vecchiaia in cui la persona anziana riflette su sé stessa, su ciò che ha fatto nella sua vita e sugli errori commessi. Se ha raggiunto un buon sentimento di integrità e completezza non avrà paura della morte ma la affronterà serenamente.
Erikson sostiene che ogni stadio si costruisce sulla base di quelli precedenti e influenzerà quelli successivi. Se le crisi di ogni fase non vengono superate, l’individuo continuerà anche in età adulta a lottare per risolverle. La risoluzione di queste crisi è fondamentale per la costruzione della propria identità, l’obiettivo più difficile e importante nella vita di ogni individuo. Secondo la teoria di Erikson dunque i genitori svolgono un ruolo molto importante sulla costruzione della propria identità che, a sua volta, è importante nella costruzione di sane relazioni intime. La mamma svolge un ruolo importante fin dall’inizio, se viene a mancare già la fiducia in sé stessi e nel mondo, risulterà difficile per l’individuo realizzarsi, costruirsi una buona identità e vivere serenamente le relazioni intime. Così come la presenza di genitori troppo ansiosi che ostacolano l’autonomia del bambino potrà far nascere in lui un bisogno di
dipendenza continua, prima dai genitori e in seguito dal partner scelto, che a sua volta sarà un individuo con altri problemi sempre legati al suo sviluppo affettivo. Inoltre, mentre per Freud ogni fase dello sviluppo affettivo è legata a una parte del corpo, Erikson dà molta importanza all’ambiente sociale in cui vive il bambino e, di conseguenza, come esso influenza la crescita personale della persona, la risoluzione delle crisi che caratterizzano ogni fase e, dunque, la costruzione della propria identità.
1.3 LE TEORIE DELLE RELAZIONI OGGETTUALI
Le teorie delle relazioni oggettuali si basano sul principio che l’individuo ha la tendenza innata a relazionarsi con gli altri fin dalla nascita, anzi già durante la vita intrauterina ha instaurato una relazione con la madre che tenderà a ricercare durante le prime fasi di sviluppo, per il soddisfacimento dei suoi bisogni e la propria sopravvivenza, e che influenzerà le relazioni a venire. L’espressione “relazione oggettuale” si riferisce ai processi motivazionali, cognitivi e affettivi legati alla capacità di costruire e mantenere relazioni intime con altre persone (Western, 1998). Il neonato comincia gradualmente a percepire la presenza delle persone che lo circondano, e successivamente a interiorizzare gli “oggetti” stabilendo relazioni con essi. Per oggetto si intende la figura di riferimento che solitamente è la madre. Fairbairn sostiene che lo sviluppo delle relazioni oggettuali è un processo attraverso il quale la dipendenza infantile dall’oggetto cede a poco a poco il passo ad una dipendenza matura dall’oggetto. Molti autori si sono occupati della teoria delle relazioni oggettuali. Ronald Fairbairn, pone al centro dell’attenzione la relazione tra madre e bambino, importante per un sano sviluppo. Egli sostiene che il bambino è orientato fin dalla nascita a entrare in relazione con gli altri, in quanto ciò che ricerca è il contatto diretto con gli altri e non il piacere corporeo. Il piacere è solo il mezzo per ottenere la relazione con l’altro. Dunque, si discosta dalla teoria di Freud che dava più importanza alla ricerca del piacere e al soddisfacimento delle proprie pulsioni e poneva come meta il piacere. Anche Winnicott pone al centro dell’attenzione la relazione madre-bambino, senza della quale non si potrebbe parlare di sviluppo psico-sociale del bambino. L’individuo ha una tendenza innata a relazionarsi con gli altri e attraverso l’interiorizzazione di queste relazioni si formeranno delle strutture intrapsichiche chiamate da Bowlby modelli operativi interni, che approfondirò successivamente. La psicanalista che più si è occupata delle relazioni oggettuali è Melanie Klein. Secondo la Klein la pulsione è legata all’oggetto, perché il bambino ha una profonda relazione con la realtà e con tutto ciò che lo circonda. La meta dell’impulso è il piacere e l’oggetto è solo un mezzo per raggiungere questo scopo. Dunque, la Klein su questo aspetto si avvicina alla teoria di Freud e si distacca da quella di Fairbairn. Inoltre, sostiene che le modalità di relazione tra mondo interno e mondo esterno dipendono da come le esperienze esterne vengono rappresentate interiormente. Le esperienze interne ed esterne influenzano molto lo sviluppo psichico. I teorici delle relazioni oggettuali sostengono che la struttura psichica sia costituita dalle “relazioni oggettuali interiorizzate”. Lo sviluppo della personalità deriva dalla relazione che il bambino ha avuto con il proprio oggetto: se ha avuto una relazione buona avrà una personalità stabile e serena; al contrario, se l’oggetto è stato inaffidabile o indisponibile il bambino potrà sviluppare una personalità instabile e patologica. È molto importante quindi la relazione con la figura materna fin dalla vita intrauterina, in quanto sarà proprio sulla base di questa che si svilupperanno tutte le future relazioni, le aspettative su queste e la personalità del singolo individuo. Il fallimento di questa relazione comporta un rischio per lo sviluppo di alterazioni psichiche permanenti nell’età adulta, disturbi psicosomatici e anomalie nello sviluppo psicomotorio, cognitivo, affettivo e relazionale del bambino.
1.4 DALL’IMPRINTING DI LORENZ ALL’ATTACCAMENTO DI BOWLBY
L’etologo Konrad Lorenz, in seguito a un esperimento sulle oche selvatiche, elaborò il concetto di “imprinting” (dall’inglese “to imprint” cioè imprimere). Con questo si intende una forma di apprendimento precoce secondo il quale i neonati al momento della nascita vengono attratti dalla prima persona che vedono e sviluppano nei suoi confronti un particolare attaccamento che condizionerà tutta la sua vita. Egli la definisce come la fissazione di un preciso modello comportamentale che risulterà stabile e irreversibile. La teoria dell’imprinting di Lorenz pone le basi per lo sviluppo della teoria dell’attaccamento di Bowlby. Egli ritiene che il legame di attaccamento si sviluppa attraverso delle fasi. Nelle prime otto-dodici settimane di vita il bambino non è in grado di discriminare le persone, ma riesce a riconoscere la madre tramite la sua voce e l’odore. Gradualmente inizierà a distinguere le persone che entrano in contatto con lui fino ad arrivare, circa al nono mese, a un visibile e stabile attaccamento alla figura di riferimento che viene usata come base per esplorare l’ambiente ricercando sempre protezione e supporto. Questo legame rimane stabile fino ai tre anni circa, quando il bambino si sentirà tranquillo anche in ambienti sconosciuti con la certezza che la sua figura di riferimento tornerà sempre da lui. Dunque, è in questo periodo che si sviluppa il legame di attaccamento con la madre. Bowlby ritiene che l’attaccamento sarà di tipo sicuro se dal legame con la figura di riferimento il bambino riceve affetto e senso di protezione nella giusta misura, al contrario sarà insicuro se vi è un’eccessiva prudenza, dipendenza e instabilità. Egli introduce, infatti, il concetto di “base sicura” riferendosi all’importanza del legame con la madre, la quale ha il compito di fornire al bambino una base sicura dalla quale può allontanarsi per fare nuove conoscenze e tornare per poter ricevere conforto e sicurezza. Bowlby identifica in particolare tre tipi di attaccamento:
• l’attaccamento sicuro in cui la mamma è attenta ai bisogni del bambino, ma allo stesso tempo lo lascia libero di esplorare il mondo e garantisce la sua presenza quando tornerà da lei. Questo bambino quando diventerà adulto avrà una buona autostima di sé che manterrà anche nelle situazioni più difficili e instaurerà delle buone relazioni sociali. • l’attaccamento ambivalente si sviluppa quando la mamma c’è e non c’è, ovvero alterna, spesso inconsapevolmente, momenti di massima presenza ad altri di assenza. Il bambino diventerà così un adulto con una bassa autostima di sé, insicuro e con la costante paura di essere abbandonato. • l’attaccamento evitante si sviluppa quando la mamma garantisce al bambino solo i bisogni primari e non quelli emotivi come il bisogno di sicurezza e di appartenenza. Il bambino impara quindi a gestire da solo le proprie emozioni e da adulto nelle relazioni apparirà distaccato e a disagio nell’intimità fisica e emotiva.
Bowlby sostiene l’importanza di instaurare un adeguato legame di attaccamento con il bambino che verrà poi da lui interiorizzato e proprio per questo andrà a condizionare la sua personalità, le sue azioni e le sue future relazioni. Tra questi modelli quello che più ci interessa esaminare è lo stile ambivalente, in quanto è quello sviluppato dai dipendenti affettivi. La costante paura che hanno provato da piccoli di perdere la propria figura di riferimento si ripresenterà in ogni relazione che stabiliscono. Avranno, quindi, delle relazioni insane caratterizzate da un coinvolgimento ossessivo determinato da una forte ansia e paura di perdere il partner, spesso idealizzato. E saranno dei soggetti pronti a subire anche violenza psicologica o fisica a costo di non rompere il legame patologico. Mary Ainsworth indaga il tipo di legame tra la mamma e il bambino attraverso la “strange situation”: un esperimento in cui pone il bambino in una stanza e osserva il suo comportamento nel momento in cui la mamma lo lascia con un estraneo e quando poi ritorna. Da questo individua tre tipi di attaccamento: sicuro, insicuro ambivalente e insicuro evitante; successivamente verrà individuato anche lo stile disorganizzato. Nel primo caso il bambino si affida completamente alla mamma (o alla figura di riferimento) sia in condizioni normali sia di pericolo, sentendosi libero di poter esplorare il mondo senza temere il suo abbandono. Nell’attaccamento insicuro evitante il bambino è convinto che al momento del bisogno non avrà nessuno ad aiutarlo e, anzi, verrà rifiutato. Inizierà così a fare esperienze ricercando sempre l’autonomia anche sul piano emotivo, dove per evitare risposte negative non esternerà i propri sentimenti. Il bambino non piange al momento del distacco dalla madre e tende a evitarla nel momento di ricongiungimento. Questo deriva da una madre che respinge costantemente il figlio ogni volta che lui cerca attenzioni o conforto. Nell’attaccamento insicuro ambivalente il bambino non ha la certezza di essere aiutato al momento del bisogno, dunque nell’esplorazione del mondo sarà sempre ansioso e angosciato per paura dell’abbandono. Questo deriva da una madre non sempre disponibile alle richieste del figlio e che addirittura utilizza minacce di abbandono come mezzo di coercizione. Successivamente è emerso che alcuni bambini mostravano dei comportamenti non riconducibili a nessuno di questi tipi di attaccamento. Si è definito, così, lo stile disorientato/disorganizzato in cui il bambino manifesta comportamenti disorganizzati, incoerenti, stereotipati, legati probabilmente a una figura di riferimento che suscita paura. A partire dalla “strange situation”, Main e Goldwyn hanno voluto approfondire le esperienze infantili e il tipo di attaccamento dei genitori dei bambini sottoposti all’esperimento. Il metodo utilizzato è la “Adult Attachment Interview” (A.A.I.): si tratta di un’intervista semi-strutturata, formata da 15 domande volte a ricordare l’infanzia portando alla coscienza dei sentimenti inconsci e indagando i modelli operativi interni. Le prime domande sono volte alla conoscenza del contesto familiare. Si chiede poi al soggetto di attribuire cinque aggettivi alla madre e al padre e di motivarli con degli esempi per cercare di capire meglio il rapporto con essi. Con queste domande si cercherà di capire a quale genitore il soggetto era più legato, come ha vissuto la prima separazione da loro e com’è l’attuale rapporto. La struttura dell’intervista pone il soggetto al rischio di contraddirsi. Inoltre, in questo modo egli ricostruisce il passato alla luce delle attuali esperienze. Attraverso le varie interviste Main e Goldwyn hanno individuato tre tipi di soggetti adulti:
• gli adulti autonomi o sicuri sono quelli che hanno risposto in modo coerente e appropriato alle domande, anche nel caso abbiano avuto un passato difficile. Essi attribuiscono molta importanza ai legami di attaccamento e alle
esperienze infantili in quanto sono molto consapevoli dalla propria esperienza con i genitori durante l’infanzia e dell’effetto che ha avuto. • gli adulti distanziati sono coloro che descrivono i genitori con termini molto positivi, ma in modo generale senza riportare ricordi specifici. Tuttavia, nel corso dell’intervista si contraddicono spesso e non danno la giusta importanza alle esperienze delle relazioni infantili, anzi le minimizzano. • gli adulti preoccupati, infine, sono quelli che descrivono il rapporto con i genitori in modo poco pertinente e non chiaro. Si mostrano confusi, con un atteggiamento passivo e spesso di rabbia nei confronti della propria figura di attaccamento. Ciò dimostra che questi soggetti sono ancora coinvolti emotivamente dalle esperienze passate.
Dunque, si potrebbe pensare che i soggetti distanziati e preoccupati abbiano avuto un attaccamento di tipo insicuro. Si è notata infatti una correlazione tra la “strange situation” e la “Adult Attachment Interview”: madri autonome avranno bambini sicuri, madri distanziate avranno bambini evitanti, madri preoccupate avranno bambini resistenti. Quando poi nella “strange situation” è stato introdotto lo stile disorganizzato, è stato associato a un altro tipo di adulto definito irrisoltodisorganizzato. Quest’ultimo è un soggetto che ha subito dei traumi durante l’infanzia, come la perdita di un genitore o un abuso, e non li ha ancora superati. Con queste interviste si cerca di indagare non tanto il tipo di attaccamento che gli adulti hanno avuto con i propri genitori, quanto più l’infanzia e le esperienze vissute e come queste condizionano il loro rapporto con i propri figli. Tuttavia, non ritengo che esiste davvero una trasmissione lineare nello stile di attaccamento. Indubbiamente l’infanzia influenza molto la personalità di ognuno e dunque il rapporto che si stabilisce con i figli, ma vi sono molte altre componenti, come l’ambiente circostante, che andrà a influenzare molto la crescita del bambino e la sua personalità.
CAPITOLO 2 IL NARCISISMO
Spesso colui che nella relazione tende a manipolare l’altro con la violenza psicologica è una persona affetta da un disturbo di personalità definito “narcisismo”. Lo psicanalista Rubin sostiene che il narcisista è colui che crede di essere il mondo intero. Infatti, il narcisista è colui che tende ad avere il controllo e manipolare gli altri senza mettersi nei panni dell’altro. Sono individui che pensano solo a sé stessi, privi di umanità e di senso di empatia. Ma dietro questa grandiosità in realtà si nascondono sentimenti di inferiorità accompagnati da incertezza e insoddisfazione di sé stessi che li portano a ricercare continuamente ammirazione e approvazione dagli altri. I narcisisti separano l’io dal sé idealizzando la propria immagine e perdendo di vista quella reale, per lui inaccettabile. Il narcisismo è una condizione sia psicologica sia culturale. A livello culturale indica una perdita di valori in quanto viene a mancare l’empatia, la sensibilità, l’interesse per i propri simili e per i loro sentimenti. Questo è legato proprio al cambiamento della società che ci porta a essere sempre più in competizione l’uno con l’altro sia nel lavoro sia nelle relazioni, e ad apprezzare e dare molto più valore alle cose materiali rispetto a gesti di gentilezza o amore. A livello psicologico il narcisismo descrive un disturbo della personalità caratterizzato da un atteggiamento di superiorità nei confronti degli altri legato a un eccessivo investimento nella propria immagine a discapito del sé e del proprio essere. I narcisisti finiscono per identificarsi nell’immagine di sé idealizzata, in quanto la propria reale immagine di sé è per loro inaccettabile. Il concetto di narcisismo nasce negli anni Ottanta grazie ai contributi teorici di Kohut e Kernberg. Kernberg sostiene che esistono tre tipi di narcisismo:
• il narcisismo sano, caratteristico di tutti gli individui, è ciò che ci porta ad essere ambiziosi, motivati e realizzare i propri progetti di vita. Inoltre, ci porta a instaurare delle sane relazioni interpersonali;
• il narcisismo infantile in cui il soggetto si comporta come un bambino, è continuamente esigente e entra in relazione con gli altri solo per soddisfare i propri bisogni; • il narcisismo patologico, un vero e proprio disturbo di personalità caratterizzato da un eccessivo investimento della propria immagine che viene idealizzata, a discapito della reale immagine di sé.
Secondo Kernberg il narcisismo si sviluppa nella prima infanzia ed è legato a modalità di relazioni oggettuali patologiche caratterizzate da una mancanza di empatia, e individua una certa affinità con il disturbo di personalità Borderline. Kohut invece dà maggiore importanza al fallimento delle risposte empatiche da parte delle figure genitoriali, ragione per la quale il Sé risulta bloccato nel corso del suo normale sviluppo. Diversi autori hanno cercato di comprendere l’origine e le cause del disturbo. Nell’ambito della psicanalisi si è visto che il narcisismo compare nei soggetti i cui genitori nutrono aspettative ambiziose su di loro, ma sono allo stesso tempo ipercritici nelle attività da loro svolte. Oppure può comparire laddove già i genitori sono narcisisti. Il concetto di disturbo narcisistico di personalità è stato formulato da Kohut che l’ha successivamente introdotto nel Diagnostical and Statistic Manual of Mental Disorders (DSM). Già il DSM IV inseriva il disturbo narcisistico di personalità insieme al disturbo di personalità Borderline nel gruppo B. I criteri diagnostici sono:
• un senso grandioso di se stesso e della propria importanza; • fantasie illimitate di successo, potere, fascino e bellezza; • crede di essere speciale e unico e di dover frequentare e poter essere capito solo da altre persone speciali e di classe elevata; • richiede eccessiva e costante ammirazione; • ha la sensazione che tutto gli sia dovuto; • sfruttamento interpersonale, cioè approfitta degli altri per raggiungere i propri scopi; • mancanza di empatia: non è in grado di riconoscere o identificarsi con i sentimenti e le necessità degli altri; • è spesso invidioso degli altri o crede che gli altri lo invidino; • mostra comportamenti o atteggiamenti arroganti e presuntuosi.
Per diagnosticare un disturbo di personalità narcisistico devono essere presenti almeno cinque di questi comportamenti. Il disturbo si svilupperebbe nei soggetti in cui timori, insuccessi o dipendenza si sono scontrati con critiche, rifiuti e abbandoni durante l’infanzia. Le persone con questo disturbo trattano gli altri come se fossero oggetti da utilizzare per soddisfare i propri bisogni per poi lasciarli, dopo poco tempo, incuranti dei loro sentimenti. Ciò avviene per paura che l’immagine grandiosa di sé venga invalidata. Allo stesso tempo il narcisista si scontra con i propri sentimenti di inferiorità e un profondo senso di solitudine che lo portano ad avere da una parte un eccessivo e costante bisogno di essere rassicurato e amato, dall’altra un profondo sentimento di invidia verso gli altri. Dunque, l’altro sarà il suo salvatore ma allo stesso tempo un rivale e il rapporto con gli altri tenderà sempre allo sfruttamento per accrescere la propria autostima. Quando al sentimento di grandiosità del paziente si aggiunge l’aggressività si sviluppa quello che viene chiamato “narcisismo maligno”, ovvero oltre che sentirsi unico e speciale si sentirà onnipotente, capace di poter fare qualunque cosa provando gioia e soddisfazione nell’infliggere dolore e paura agli altri. Tutti noi abbiamo una nostra immagine di come siamo e si cerca sempre di avere una buona autostima e una buona percezione della propria immagine. Ma i narcisisti si differenziano propria per la grandiosità e l’onnipotenza che credono di avere. Inconsapevolmente si comportano così come dei veri e propri egoisti, freddi e privi di sentimenti verso gli altri. Tuttavia, sono persone molto sofferenti, dietro questa apparente immagine che danno di sé nascondono un disagio sociale, un senso di solitudine e delle importanti difficoltà relazionali e affettive che li portano a instaurare continue relazioni anomale, di breve durata e scarsa qualità, per aumentare la grandiosità della propria immagine.
Inoltre, questo continuo bisogno di essere ammirati e l’incapacità di accettare le critiche può portare allo sviluppo di un disturbo depressivo, disordini alimentari, quali anoressia nervosa, e uso/abuso di sostanze. Eppure, sono proprio i narcisisti che tendono alla manipolazione affettiva perché anche nei rapporti affettivi cercano di manipolare il/la partner in base ai loro desideri, incuranti dei sentimenti altrui, solo per il bisogno continuo di ricevere conferme e aumentare la propria autostima. Secondo i dati riportati dall’American Psychiatric Association (APA) il distubo narcisistico di personalità è diagnosticabile soprattutto in adulti maschi mentre nelle femmine si riscontra per lo più il disturbo di personalità Borderline.
CAPITOLO 3 LA DIPENDENZA AFFETTIVA
Se nel capitolo precedente ho affrontato il tema del narcisismo, quindi il punto di vista del manipolatore affettivo, vediamo ora la dipendenza affettiva, ovvero la condizione psicologica che caratterizza la vittima. Nelle dipendenze il soggetto è totalmente assorbito dall’oggetto della propria dipendenza, al punto da non riuscire a farne a meno, trascurando così la sua vita sia a livello lavorativo, sia relazionale. Dunque, è un problema che provoca molte conseguenze a livello fisico e psichico. La dipendenza non è legata tanto all’oggetto da cui si dipende, quanto più alla relazione che si instaura tra il soggetto e l’oggetto e il contesto in cui sono inseriti entrambi. È difficile dare una definizione di dipendenza affettiva proprio perché è una condizione molto complessa che coinvolge tantissimi aspetti dell’individuo. Il concetto di dipendenza affettiva si è sviluppato grazie alla psicoterapeuta Robin Norwood, che nel suo libro “Donne che amano troppo” ha descritto molto bene la problematica riportando anche molti esempi. Proprio in quegli anni, nell’ambito della psichiatria, si inizia a interessarsi alle dipendenze da comportamento e il DSM introduce tra i disturbi di personalità anche il “disturbo dipendente di personalità”. Il Dizionario di psicologia di Galimberti definisce la dipendenza affettiva come “una modalità relazionale in cui un soggetto si rivolge continuamente agli altri per essere aiutato, guidato e sostenuto. L’individuo dipendente, avendo una scarsa fiducia in se stesso, fonda la propria autostima sulla rassicurazione, sull’approvazione altrui ed è incapace di prendere decisioni senza un incoraggiamento esterno”. Bateson (1976,1984) sostiene che ciò che deriva da un evento reatroagisce sulle cause, andando a ristrutturare il vissuto e la percezione di sé. Quindi non sono le cause a provocare il comportamento, ma è l’esito del comportamento stesso che, diventando particolarmente significativo per quel soggetto, ne faciliterà la reiterazione.
A partire da questa teoria è possibile formulare una definizione di dipendenza affettiva affermando che essa è “ciò che risulta dall’incrocio tra il potere che la sostanza ha e il potere che la persona è disposta ad attribuire alla sostanza” . Il soggetto con una determinata storia, determinate caratteristiche personali e una serie di bisogni, quando incontra l’oggetto che può essere una sostanza, un comportamento o una relazione, vive una ristrutturazione del sé per cui ne diventa dipendente. Schaffer (1964) sostiene proprio che alla base della dipendenza vi è l’esperienza soggettiva ovvero il modo in cui l’oggetto cambia la condizione dell’individuo. Secondo questa visione, quindi, la dipendenza non è un vizio né una malattia, ma un processo che si innesca quando una persona, nel momento in cui entra in relazione con un particolare oggetto, prova sensazioni nuove che lui interpreta come più positive e funzionali. È la convinzione individuale di aver trovato un posto nel quale soddisfare i propri bisogni e desideri essenziali, che diversamente non sarebbe possibile soddisfare, secondo la sua visione. La dipendenza, quindi, non è determinata da specifiche cause, ma da specifici bisogni che derivano dai bisogni dell’infanzia che sono rimasti insoddisfatti. Per esempio, un bambino che cresce con un genitore freddo e poco disponibile affettivamente, da adulto potrà avere dei problemi emotivi e relazionali e scegliere partner non disponibili affettivamente. Questo perché da adulti si tende a trovare delle persone con cui possiamo avere lo stesso ruolo che avevamo da piccoli. Ripetere il modello di attaccamento dell’infanzia è più semplice di crearne uno nuovo e più sano. L’americana Robin Norwood sostiene che “un uomo più sano che ci ama davvero, non può avere un ruolo importante nella nostra vita finché non avremo imparato a liberarci dal bisogno di rivivere ancora e ancora la vecchia lotta”. Sono stati effettuati numerosi studi sul rapporto tra l’attaccamento infantile e la dipendenza affettiva. I risultati mostrano che i soggetti dipendenti derivano da famiglie in cui i genitori sono iperprotettivi o autoritari. È anche vero, però, che in alcuni casi capita il contrario: quando si cresce con dei genitori troppo apprensivi si ricerca una relazione in ci si senta liberi e autonomi.
Inoltre, si è visto che le ragazze che hanno un rapporto conflittuale con il proprio padre, hanno più probabilità di instaurare relazioni affettive patologiche, rispetto a quelle che hanno avuto con lui una relazione serena. Sono donne fragili emotivamente che hanno bisogno di continue conferme proprio per compensare quelle che non hanno mai ottenuto prima. La dipendenza affettiva presenta molte caratteristiche in comune con la dipendenza in generale, l’unica differenza sta nel fatto che la prima si sviluppa nei confronti di una persona: il soggetto dedica tutte le sue energie fisiche e mentali all’altro da cui dipende. Viene infatti considerata una forma patologica dell’amore: si sviluppa maggiormente nelle donne che vedono nell’amore la risoluzione dei propri problemi che spesso hanno origini profonde come dei vuoti affettivi nell’infanzia. Sono quindi persone fragili, alla continua ricerca di un amore che le gratifichi, le dia affetto e autostima che diversamente non hanno. Sono soggetti che cercano attenzioni e continue conferme per sentirsi sicuri e forti, contrastando il disagio e il vuoto affettivo che percepiscono. In questa condizione di dipendenza inizieranno a perdere i propri spazi di indipendenza, si mostreranno disinteressati a tutto ciò che non riguarda l’oggetto d’amore e si chiuderanno nel rapporto di coppia ossessionati dall’idea di perdere il partner. I dipendenti affettivi non riescono a godersi pienamente l’amore e la relazione, ma ricercano il piacere immediato e il superamento di un’insicurezza che risulta così appagante e liberatorio una volta raggiunto, che poi si ha voglia di rivivere il tutto. Le persone dipendenti non sono in grado di uscire da questa relazione, anche se sostengono sia essa stessa insoddisfacente, umiliante e spesso autodistruttiva in quanto si sviluppa anche una vera e propria sintomatologia come ansia generalizzata, depressione, insonnia, inappetenza, malinconia, idee ossessive. La particolarità di questa dipendenza è che spesso può non essere diagnosticata e il soggetto stesso non ne è consapevole e può non esserlo mai per tutta la sua vita. Tuttavia, questo problema andrà ad alimentare l’insorgenza di altre gravi problematiche psicologiche, fisiche e relazionali. Oggi la dipendenza affettiva viene chiamata anche love addiction, dove intendiamo con addiction proprio la condizione generale in cui la dipendenza psicologica spinge alla continua ricerca dell’oggetto senza il quale l’esistenza diventa priva di significato. Molti studi effettuatati su questa tematica mostrano proprio che la relazione con l’oggetto additivo può avere proprietà sedative, alleviando la sofferenza morale e il dolore fisico. Giddens sostiene che la dipendenza è caratterizzata dall’ebrezza e dalla dose. Per ebrezza si intende la sensazione che il dipendente prova dalla relazione e che gli è indispensabile per stare bene. La dose invece è la quantità di tempo insieme al partner che il soggetto dipendente ricerca e che aumenta sempre di più per il suo costante bisogno di manifestazioni continue e concrete di affetto. Liberarsi dalla dipendenza affettiva è possibile ma occorre trovare una certa stabilità interiore. Non bisogna essere alla ricerca continua di un partner per riempire un vuoto che si sente dentro, altrimenti si finirebbe per trovare una persona che ci fa sentire ancora di più il vuoto interiore. Occorre raggiungere un buon livello di autostima per poter instaurare una relazione sana e convincersi, dunque, che non bisogna fare di tutto per cambiare l’altra persona, ma cambiare se stessi e mettere sempre la propria felicità al primo posto.
3.1 VIOLENZA PSICOLOGICA E FISICA
Molto spesso i dipendenti affettivi si trovano in relazioni in cui subiscono violenza da partner intimo (IPV), intesa come violenza psicologica, fisica o sessuale. Nonostante questo, i dipendenti non riescono a liberarsi di questa relazione, ma vivono nella speranza che un giorno il partner possa cambiare perché sono convinti che il proprio amore possa determinare un cambiamento positivo nell’altra persona. L’IPV psicologica include gli abusi, strategie emotive e verbali per suscitare paura, sminuire l’autostima delle donne, isolarle dalle relazioni e controllare le loro attività. L’IPV psicologica è molto frequente e ha molti effetti dannosi sul benessere psichico delle donne. Molte volte le donne che si trovano in questa condizione sono più esposte ad adottare comportamenti a rischio sessuale, aumentando così la probabilità di contrarre HIV e altre malattie a trasmissione sessuale. Numerosi studi hanno trovato associazioni tra l’IPV e la salute fisica e mentale di chi la subisce. In particolare, si è visto che solo la violenza psicologica, senza quella fisica e sessuale, aumenta la frequenza di cefalee non emicraniche, la depressione, il disturbo da stress post-traumatico, l’ansia, l’insonnia, il dolore cronico e l’abuso di alcolici e fumo. Quando le donne subiscono violenza sessuale, insieme a quella psicologica e fisica, si verifica un aggravamento della loro salute mentale e si è visto che la bassa autostima, la depressione e l’ansia erano associate alla violenza subita da parte del partner intimo o da un noto aggressore. I risultati delle associazioni tra IPV sessuale e esiti negativi sulla salute hanno portato i ricercatori a ipotizzare che la violenza sessuale, in particolare quando inflitta da partner intimo, abbia un impatto unico e significativo per la vittima e può essere particolarmente traumatizzante. Alcuni studi evidenziano la diagnosi di depressione, disturbo bipolare, ansia, dolori cronici e frequenti mal di testa tra coloro che subiscono IPV. Inoltre, è stato effettuato uno studio sull’IPV nelle donne in gravidanza. Da questo è emerso che la violenza psicologica è la forma di violenza più diffusa nelle donne gravide, aumentando così tutti i sintomi legati alla loro condizione e che possono provocare ulteriori effetti sul bambino. Ci sono ancora pochi studi, invece, per quanto riguarda l’esperienza degli uomini maltrattati. Questo tema è considerato marginale o, spesso, inesistente. Tuttavia, sarebbe bene considerare anche questo aspetto vista l’esistenza del problema. Alcuni studi, basati su esperienze riportate da uomini, evidenziano che la principale causa di violenza da parte delle donne è la necessità di controllo legata alla propria insicurezza e un’estrema gelosia. Sono spesso donne con disturbo di personalità borderline che non riescono a controllare la loro rabbia e pur di non stare sole preferiscono avere al proprio fianco un uomo “debole” da poter gestire a loro piacimento. L’uso della forza o l’inganno per ottenere rapporti sessuali non sono stati segnalati, ma da studi successivi è emerso che alcune donne hanno la tendenza a mentire sul loro uso della contraccezione e abusare delle gravidanze per ottenere l’impegno o tornare insieme all’uomo che le aveva lasciate. Inizialmente la donna si presentava come “debole”, ispirava fiducia e sentimenti di protezione verso l’uomo. Poco dopo è emerso un carattere possessivo, un eccessivo controllo di tutte le sue attività trasformando così la relazione in un rapporto chiuso ed esclusivo. Si è visto, inoltre, che l’inizio della violenza psicologica si collocava tra il matrimonio, o inizio della convivenza, e la nascita del primo figlio, in quanto quest’ultimo veniva visto come una minaccia del loro rapporto esclusivo, dato che l’attenzione dell’uomo si spostava sul piccolo. Tuttavia, gli uomini subivano la violenza fino a quando non veniva rivolta anche ai bambini o quando scoprivano una relazione extraconiugale. Alcune motivazioni di questa violenza possono essere legate a una difficile situazione familiare, come traumi precoci o comportamenti violenti in famiglia, oppure a un inadeguato sostegno da parte delle istituzioni che ha permesso alla donna di utilizzare impropriamente le misure disponibili per le donne che sono davvero vittime di abusi. Nonostante questo, tutti gli uomini hanno segnalato grandi difficoltà nel rendersi conto della propria condizione di vittime, tant’è che le loro relazioni sono durate in alcuni casi fino a 20-25 anni prima di riuscire ad agire. Subivano spesso violenza psicologica sotto forma di minacce e pressioni sul lato economico, dunque si sentivano in dovere di sostenere la famiglia, ma quando la violenza si spostava sui figli o si scopriva la relazione extraconiugale questi uomini riuscivano a trovare la forza di agire. Dagli uomini in questa condizione sono emersi forti sentimenti di isolamento, impotenza e sofferenza emotiva. Quando si sono ritrovati isolati da amici e parenti hanno chiesto aiuto ai professionisti del settore, ma senza successo. Alcuni sono stati derisi o non creduti. Questo aumenta in loro il senso di solitudine, malessere e sconforto. Infatti, nonostante la concezione di violenza stia cambiando, la vittima maschile rimane ancora un “tabù” nelle società occidentali per la credenza che un uomo non possa essere sconfitto da una donna, e che la donna non possa avere dei tratti di aggressività, solitamente attribuita all’uomo. Per questa concezione di violenza domestica nelle nostre società, gli uomini tendono a essere emarginati e messi in discussione. Inoltre, la paura di essere separati dai propri figli o essere scambiati per gli aggressori può impedir loro di cercare aiuto. Ed è così che non riescono a soddisfare i loro bisogni di cure, assistenza sanitaria e sociale, e di conseguenza si prolunga l’esposizione alla violenza sia a loro sia ai propri figli.
3.2 IL RUOLO DELL’INFERMIERE: LA RELAZIONE D’AIUTO
Barber (2008) denuncia una mancanza di informazioni e risorse per aiutare gli uomini maltrattati e che si trovano dunque trascurati e marginalizzati dalla società. Inoltre, molte volte gli episodi di violenza domestica non vengono denunciati proprio per paura degli uomini di essere respinti, umiliati e ridicolizzati dai professionisti, compresi gli infermieri che spesso non hanno la formazione per affrontare e sostenere adeguatamente le vittime maschili. Molti autori sostengono che, nonostante si stia cercando di sensibilizzare sempre di più gli operatori sanitari a questo problema, gli uomini siano ancora molto insicuri e disorientati quando devono cercare aiuto. La difficoltà nell’offrire sostegno a queste persone fa sì che si crei una sfiducia generale nei confronti degli operatori sanitari. Gli infermieri sono spesso i primi professionisti sanitari con cui le vittime entrano in contatto, dunque svolgono un ruolo cruciale nel processo di screening, ma anche nel fornire trattamenti, rassicurazioni e utili informazioni sul supporto legale. Dunque, hanno un ruolo chiave nell’identificazione, nella prevenzione e nell’intervento della violenza domestica. Gli infermieri sono coloro che più di tutti dovrebbero avere delle buone capacità di ascolto e relazione empatica. Se questa manca, il paziente lo percepisce e farà fatica a esprimere i propri bisogni. Di conseguenza il nostro ruolo non viene compiuto al meglio e in modo completo. Dunque, è importante avere una buona formazione non solo dal punto di vista tecnico, ma anche e soprattutto relazionale. L’infermiere, non limitandosi ad eseguire interventi tecnici, nel prendersi cura del malato svolge una funzione terapeutica e di supporto attraverso il dialogo, con lo scopo di stabilire un’interazione efficace e personalizzata volta al soddisfacimento dei bisogni e all’adattamento allo stress che ogni malattia o forma di disagio porta con sé.
3.4 COME AFFRONTARE LA DIPENDENZA AFFETTIVA: I GRUPPI DI AUTO MUTUO AIUTO
È molto difficile rendersi conto di essere in una relazione insana o, ancora di più, di avere una dipendenza affettiva. Si cerca sempre di giustificare i comportamenti patologici della persona al proprio fianco nella speranza di un suo impossibile cambiamento. Ma quando si arriva al punto in cui la sofferenza provata diventa fonte di malattie o malesseri somatici di solito si inizia a chiedere aiuto. Spesso, quando ci si trova in una relazione in cui si subisce violenza psicologica e non si riesce ad uscirne, si intraprende un percorso di psicoterapia individuale: ci si rivolge a uno psicologo o psichiatra che cercano di offrire al dipendente un’altra visione della relazione, un altro punto di vista che egli non aveva mai valutato. Un’altra strategia per affrontare il problema della dipendenza affettiva è il gruppo di auto mutuo aiuto. La via dell’auto mutuo aiuto è un percorso potente, basato sul lavoro in gruppo di persone accomunate dallo stesso disagio. Il gruppo crea uno spazio dove ogni persona può parlare e raccontare la propria esperienza senza essere giudicata e bloccata. Attraverso la condivisione del disagio ci si rende conto che non si è soli, ed è possibile vedere e capire altri modi di affrontare e vivere lo stesso problema. I gruppi di auto mutuo aiuto sono caratterizzati da:
• numero ristretto di partecipanti, solitamente massimo 10 persone per facilitare l’interazione tra i soggetti e l’espressione dei propri sentimenti; • sono organizzati su specifici problemi in modo che i partecipanti siano dei pari: vivere o aver vissuto uno stesso problema definisce l’appartenenza al gruppo; • si condividono obiettivi comuni: l’energia e la forza del gruppo sono superiori rispetto alla volontà di agire singolarmente; • aiuto reciproco: ognuno con la propria esperienza, attraverso il confronto e la condivisione, trae aiuto per sé e aiuta gli altri; • decisioni, cambiamenti e regole vengono discussi e accettati democraticamente da tutti;
• la comunicazione è orizzontale: ognuno esprime liberamente il proprio pensiero rispettando gli altri e senza porsi al centro dell’attenzione; • ogni persona decide autonomamente se e quando prendere parte al gruppo senza imposizioni da altri: la persona deve essere protagonista del proprio cambiamento per aumentare la sicurezza in se stessi e nelle proprie capacità, dunque la propria autostima.
La città di Cuneo offre un’importante risorsa per affrontare il problema della dipendenza affettiva. Esiste infatti un’associazione chiamata “Il Cerchio” che ha formato un gruppo di auto mutuo aiuto proprio per le persone che si trovano in questa condizione, che hanno preso consapevolezza del loro problema e hanno trovato il coraggio di affrontarlo e risolverlo.
CAPITOLO 4 STORIE DI VITA
Per comprendere più a fondo la dipendenza affettiva ho assistito ad alcune sedute singole sostenute dalla Dott.ssa Pacilli. Qui ho avuto l’opportunità di conoscere donne e uomini consapevoli del loro problema e pronti a intraprendere un percorso di crescita e cambiamento. Tra questi mi ha colpito la storia di una ragazza di 24 anni che chiamerò Marta. Una bellissima ragazza, fisioterapista laureata, un buon lavoro in un centro di riabilitazione, e una bravissima cantante. All’età di 16 anni ha intrapreso la sua prima relazione con un suo compagno di classe. Entrambi pensavano di essere innamorati e di stare insieme per sempre. Ma come la maggior parte degli amori adolescenziali, dopo circa un anno lei ha trovato il coraggio di lasciarlo. Subito era molto confusa e frastornata da questa scelta e ha continuato a frequentarlo per altri due anni, finché si è resa conto che lui non era la sua felicità, ma il suo male. Era stata una relazione piena di violenza non tanto fisica, quanto più verbale e psicologica. Circa un mese dopo Marta incontra a una festa Mattia, un ragazzo che aveva conosciuto a scuola guida e per cui già sentiva un’attrazione, ma che poi non aveva più rivisto perché lui era fidanzato. Il giorno dopo la festa si rivedono per un caffè e lui le racconta di essere in crisi con la sua ragazza. Dopo quell’incontro lui sparisce, per poi ritornare circa una settimana dopo dicendole di aver risolto con la sua ragazza. Lei apprezza molto il gesto, ma contemporaneamente ci rimane male perché qualcosa in lei era scattato. Poco dopo le propone di diventare la sua amante promettendole che un giorno avrebbe lasciato la sua ragazza perché la persona che voleva davvero era lei. Marta, un po’ confusa, aveva accettato, ma non aveva idea dell’inferno che avrebbe passato nei prossimi anni. Ha passato i successivi tre anni nella speranza che il suo amore potesse davvero fargli capire che la persona adatta per lui era lei e non la sua ragazza. Aveva sperato e lottato per lui in quegli anni eppure nulla cambiava. Dopo ogni loro incontro lui spariva e lei ogni volta soffriva in silenzio. In alcuni periodi faticava persino a studiare. Usciva con le amiche, ma pensava a lui, a dove fosse e cosa stesse facendo. Lei sapeva che sarebbe tornato, e infatti puntualmente tornava sempre: ogni volta con la stessa scusa di aver bisogno di lei. Ed era sempre gentile e dolce perché sapeva che solo così lei ci sarebbe ricascata ancora. Poi dopo l’incontro lui spariva di nuovo e tutto si ripeteva. Quando poi Mattia lasciò veramente la sua ragazza, il suo atteggiamento non cambiò. Successivamente aveva anche scoperto di non essere l’unica con cui lui si comportava così. Dunque, anche lui aveva dei problemi, ma lei pensava che con il suo amore sarebbe riuscita a cambiarlo e farlo diventare una persona migliore. In realtà nessuno dei due poteva sperare di cambiare da solo o con l’aiuto di un medico. La guarigione sarebbe avvenuta soltanto quando entrambi avrebbero smesso di fare ciò che sembrava dar loro sollievo. Marta in fondo sapeva che lui non era il ragazzo per lei, ma non riusciva a farne a meno. Ogni volta che lui tornava lei provava quella sensazione di estasi che con nessun altro riusciva a provare. Lui era la sua droga di cui non riusciva a fare a meno. Eppure, c’erano così tanti bei ragazzi che le chiedevano di uscire. Ma era più semplice per lei resistere e aspettare i suoi ritorni piuttosto che provare ad avere una relazione sana con una persona “normale” che le avrebbe dato tutto l’amore che si merita. Un giorno arrivò al punto in cui il pensiero di lui la stava divorando dentro: non riusciva più a mangiare, non aveva più voglia di uscire con gli amici, di andare a lavorare, non riusciva a dormire per il pensiero che lui magari le scrivesse e aveva una costante voglia di piangere. Quando un giorno i suoi amici iniziarono a farle domande sul suo cambiamento e farle notare alcuni suoi comportamenti, in lei scattò qualcosa per cui iniziò a interrogarsi sul perché fosse così invaghita di un ragazzo che nella sostanza non le dava niente. Iniziò, pian piano, a prendere consapevolezza di avere un problema di dipendenza affettiva ad un livello, ormai, da non riuscire a gestire da sola. Così prese coraggio e si decise a iniziare un percorso di terapia individuale per liberarsi da questa dipendenza. Durante il suo percorso terapeutico è emerso che Marta è cresciuta in una famiglia in cui il padre è totalmente assente dal punto di vista affettivo e manifesta spesso episodi di violenza non tanto fisica quanto più verbale. Questo spiegherebbe il motivo delle scelte in campo affettivo di Marta. Non
sapeva cosa significasse essere amata davvero da un uomo, perché suo padre non le ha mai dato affetto. Inoltre, lei è sempre stata considerata inferiore, la sorella minore, quella più silenziosa, con un carattere più pacato; totalmente opposta al fratello maggiore, con un carattere più aperto e visto come il figlio perfetto e più affidabile in tutto. Abituata a lottare sempre per ottenere affetto e approvazione da parte della sua famiglia, quando Marta incontra Mattia, inconsapevolmente percepisce fin da subito la sua indisponibilità affettiva ed è questo che la lega a lui fin dall’inizio. Ripercorrere le sue battaglie dell’infanzia, lottare per vincerle e per ottenere affetto era più semplice. Lei sosteneva che la relazione con Mattia la faceva sentire viva, ma non si rendeva conto che in realtà la stava uccidendo dentro. Instaurare una relazione “sana” e stabile con un uomo di cui era certa di avere amore e approvazione, era per lei “noioso”. Oggi, per fortuna, Marta si è resa conto della sua situazione e vede il tutto con occhi diversi; sta ancora andando in terapia, ma è una persona totalmente diversa. È diventata una ragazza forte che sa mettere la sua felicità al primo posto. Sta frequentando un ragazzo che le vuole davvero bene, nonostante si senta spaesata in questa relazione. Spesso sente ancora il vuoto causato dalla mancanza di Mattia, ma ha imparato a gestirlo dedicandosi al suo lavoro, al canto, riprendendo le amicizie trascurate e iniziando a svolgere attività fisica nel tempo libero che non aveva mai fatto.
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Un’altra storia che vorrei riportare è quella di Andrea, un uomo di 45 anni capo di una grossa azienda. Andrea ha sempre avuto un bel rapporto con sua madre, ma quasi morboso. Erano sempre insieme, ovunque lei andasse lui era con lei, a differenza del padre con cui non aveva rapporti, perché era sempre fuori casa per lavoro. A 21 anni ha avuto la sua prima relazione con una ragazza più grande di cui era molto innamorato, ma a sua mamma non piaceva perché non era benestante. Così poco dopo si sono lasciati e lui ci è rimasto molto male.
Dopo qualche mese, si è fidanzato con una ragazza, amica di famiglia, molto ricca economicamente, e di cui era certo che alla madre sarebbe piaciuta. Ad Andrea non piaceva, ma ci teneva a essere come voleva sua madre ed era convinto che l’attrazione sarebbe scattata successivamente. Così si sono sposati: un matrimonio piatto, senza emozioni, senza alti e bassi e senza figli. Dopo qualche anno alla mamma di Andrea viene diagnosticato il morbo di Alzheimer e le sue condizioni cliniche peggiorano rapidamente. Contemporaneamente, Andrea inizia a socializzare sempre di più con una collega di lavoro, Arianna. Presto si invaghisce di lei, della sua gentilezza, della sua bellezza e di tutti i suoi modi di fare. Nonostante lei si comportasse in modi un po’ ambigui sosteneva di non volere altro oltre l’amicizia. Ma lui ormai era totalmente ossessionato di lei che si dimenticava di tutto persino della madre malata. Con il passare del tempo lui si è dichiarato ed è diventato sempre più insistente: ha iniziato a riempirla di chiamate e messaggi, finché una sera lei ha ceduto e le ha risposto invitandolo a cena a casa sua. Quella sera sono stati insieme e per Andrea era come se si fosse realizzato un sogno. Il giorno dopo, sul posto di lavoro, lui era felicissimo, ma lei ci ha tenuto subito a precisare che era stato soltanto un momento di debolezza e che i suoi sentimenti erano solo quelli di un’amicizia. Da quel giorno, per Andrea, è iniziato il suo incubo peggiore. Stava impazzendo, non sopportava più nessuno e non faceva altro che pensare a lei. Trascurava la moglie, gli amici e persino la madre che stava sempre più male. Non riusciva più ad avere una sua vita talmente che era ossessionato dal pensiero di Arianna. Finché una sera, quando era sotto casa di Arianna supplicandola di aprirgli la porta, gli arriva la chiamata della morte della madre. Da quel momento cambia tutto, lui si rende conto di avere un serio problema di dipendenza, di gravità tale da dimenticarsi della madre proprio nel momento della sua malattia. Qualche giorno dopo il funerale, Andrea ha iniziato ad avere enormi sensi di colpa che l’hanno portato a un’importante depressione. Per fortuna la moglie gli è sempre stata vicina e l’ha incoraggiato a intraprendere un percorso di cura, sostenendolo sempre. Tutt’ora è ancora in terapia e sta cercando di risolvere i suoi problemi legati all’infanzia che gli hanno impedito di vivere la vita al meglio.
CONCLUSIONE E DISCUSSIONE
L’obiettivo della mia tesi era quello di analizzare il problema delle dipendenze affettive per capirne l’origine, le modalità di sviluppo e le conseguenze. Inoltre, volevo capire se e quale ruolo potrebbe avere l’infermiere in questa problematica. Attraverso le letture sono riuscita a inquadrare il problema. La dipendenza affettiva ha origini profonde legate all’infanzia e all’educazione genitoriale che si riceve. Solitamente i genitori si comportano pensando di agire sempre al meglio e per il nostro bene. Tuttavia, può capitare che alcuni comportamenti o mancanze, spesso inconsapevoli, possono influenzare la personalità del bambino e di conseguenza le relazioni che instaurerà da adulto. Dunque, l’educazione genitoriale influenza molto la nostra vita. Sta a ciascuno di noi, una volta diventati adulti, decidere se seguire l’esempio dei nostri genitori o, al contrario, distaccarci e provare a diventare ciò che vogliamo davvero essere. Dalle letture effettuate è emerso che quando un bambino cresce con delle figure genitoriali indisponibili affettivamente, da adulto sarà alla continua ricerca di persone uguali. Così, si imbatte in relazioni insane nella vana speranza di riuscire a cambiare la persona al proprio fianco attraverso l’amore che dà. Questa visione distorta della realtà, delle relazioni e del partner ha delle importanti ripercussioni sulla salute fisica e mentale della persona dipendente. Dall’analisi degli articoli trovati mediante la ricerca bibliografica ho analizzato queste conseguenze. Possono, infatti, svilupparsi problemi di anoressia o bulimia, disturbi di personalità, disturbi dell’umore, depressione, ansia e malattie di origine psicosomatica. Quando, poi, oltre la violenza psicologica subentra quella fisica insorgono anche le complicanze legate al trauma fisico. Nonostante questo, spesso i dipendenti rimangono in questa situazione per diversi anni anche senza esserne consapevoli. Sono persone con una bassa autostima, che si sottovalutano pensando che quello è ciò che si meritano. Quando le conseguenze fisiche e mentali arrivano a un livello di gravità tale da compromettere seriamente la salute e la loro vita lavorativa, allora iniziano a chiedere aiuto, o spesso sono le persone care ad aiutarli a prendere consapevolezza del problema e convincerli a rivolgersi a qualcuno per uscire da questa dipendenza.
Alcune strategie per combattere il problema della dipendenza affettiva sono la psicoterapia individuale o quella di gruppo. Tuttavia, l’infermiere può avere un ruolo molto importante in tutto questo. Oltre a collaborare con i medici nella cura delle conseguenze fisiche e mentali, il ruolo dell’infermiere in questo ambito è per lo più relazionale. L’art.2 Capo I del Codice deontologico dell’infermiere afferma che “l’assistenza infermieristica è servizio alla persona, alla famiglia e alla collettività. Si realizza attraverso interventi specifici, autonomi e complementari di natura intellettuale, tecnico-scientifica, gestionale, relazionale ed educativa”. Ciò significa che il compito principale dell’infermiere è prendersi cura della persona attraverso una visione olistica, ovvero deve prendere in considerazione il paziente sotto tutti i punti di vista, tenendo conto in particolar modo delle sue relazioni sociali e del contesto ambientale. Questo avviene tramite una relazione empatica. Soprattutto quando si è di fronte a una persona che sta vivendo un momento difficile e diventa quindi “fragile”, occorre fermarsi ad analizzare la sua situazione in toto. In quest’ottica il ruolo dell’infermiere non deve essere soltanto legato alle prestazioni tecniche che si effettuano sul paziente, ma va oltre. La relazione tra infermiere e paziente è indispensabile per poter creare con rapporto di fiducia in cui il malato possa sentirsi libero di parlare e raccontare la sua sofferenza senza essere giudicato. Qualora si verificassero delle incomprensioni o differenze di opinioni, l’infermiere è tenuto all’ascolto comprensivo, rispettando le idee dell’altro e rimanendo aperto al dialogo.
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