Anima ed Intelletto

Il concetto di anima (psychè) nel pensiero antico e medievale ha un’ampia estensione, che spazia dall’ambito della religione a quello della psicologia, a quello della filosofia della natura, ed in particolare della biologia, alla cosmologia, alla metafisica, alla morale ed alla gnoseologia. Ma se volessimo trovare un approccio che, in qualche modo, accomuni tutti questi aspetti, potremmo cercarlo nelle interrogazioni sulla natura dell’anima, cioè se essa sia corporea e mortale, oppure incorporea ed immortale.
Secondo le dottrine pitagoriche l’anima è identificata con l’aria, ma si caratterizza anche per essere composta di una mescolanza di elementi corporei e, pertanto, destinata a dissolversi assieme al corpo. Platone si occupa dell’anima sostenendo la sua immortalità e la sua preesistenza al corpo. l’anima è affine alle idee e pertanto ne deve condividere l’incorruttibilità. L’anima entra anche nella dottrina dell’anamnesi o della reminiscenza, secondo la quale non c’è nulla che già non conosciamo, ma si tratterebbe di far riaffiorare i ricordi tramite l’esperienza sensibile.
Aristotele sostiene che l’anima sia forma o atto del corpo ed in essa vada distinta una facoltà vegetativa, quella caratteristica delle piante, una facoltà sensitiva, quella che anche noi abbiamo e condividiamo con gli animali, ed una facoltà intellettiva, propria dell’uomo.
Alla base della riflessione di Epicuro c’è l’idea di una identità dell’anima con il corpo, che ne determina anche la mortalità. L’anima è composta di atomi, esattamente come il corpo, e quindi è destinata a disgregarsi con esso. L’anima è dunque mortale, così come sostenevano anche gli stoici antichi, che ipotizzavano che l’anima sia costituita dallo pneuma e, quindi, corporea.
Alessandro di Afrodisia sostiene che l’anima sia la forma del corpo e l’intelletto agente di Aristotele viene identificato con il pensiero puro, divinizzando in un certo senso l’uomo che, attraverso il pensiero, si congiunge ad esso.
L’anima si colloca in Plotino a livello della terza ipostasi, dopo l’Uno e l’Intelletto. Questo implica che essa da un lato conosca il mondo intelligibile, dall’altro si curi del mondo sensibile.
Agostino si sofferma, dal canto suo, sull’auto-conoscenza dell’anima, concludendo che nulla è più presente all’anima dell’anima stessa.
Avicenna si pone il problema di spiegare in che termini avvenga l’apprendimento. L’intelletto potenziale umano più che ripetere ogni volta dall’inizio il processo di apprendimento di una determinata forma, si predispone a ritrovare nell’intelletto agente separato i contenuti intelligibili che aveva già appreso.
Averroè sostiene che separato non è solo l’intelletto agente ma anche quello potenziale o materiale.
Alberto Magno ricava dalla filosofia araba la premessa fondamentale della congiunzione con l’intelletto agente arrivando ad affermare che l’uomo, quanto più pensa, tanto più stabilmente si unisce con il suo stesso intelletto possibile all’intelletto agente.
Contro Averroè si schiera Tommaso d’Aquino, preoccupandosi di restituire al singolo uomo il ruolo di soggetto attivo del pensiero: ognuno, infatti, ha modo di sperimentare che il pensiero gli appartiene in modo individuale.
La passività della conoscenza, propria della tradizione aristotelica, viene messa in discussione da Teodorico di Freiberg: le cose risultano intelligibili solo nella misura in cui è l’intelletto a renderle tali, elaborando una serie di definizioni che ne esprimono la “quiddità” e permettono alle cose stesse di collocarsi nelle varie categorie.

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