Skype addiction nei terapeuti: una possibilità di contagio?

Invito i lettori a non cercare su internet questo termine, vi dico già che non esiste. Esiste la’ internet addiction’, che indica più genericamente la ricerca, che può diventare compulsiva, ed in questo senso è una dipendenza, di qualsiasi cosa tramite internet, che siano termini, frasi, significati, oppure giochi, la comunicazione tramite chat, insomma praticamente tutto quanto potete immaginare si possa fare in rete. La dipendenza dalla rete, che non è una vera sostanza di abuso, come possono essere le sostanze psicoattive, l’ alcol o il cibo, ma che a tutti gli effetti rende schiavi di essa, si sta diffondendo sempre più negli ultimi anni. Ormai ci siamo così tanto modernizzati che non ci bastano più le ‘vecchie’ abitudini. E allora cosa è la Skype addiction? Negli ultimi mesi, quelli della pandemia, i ragazzi hanno sospeso la frequenza scolastica, privati di quello che è il loro modo precipuo di socializzare, non hanno potuto incontrarsi dal vivo con gli amici, si sono trovati costretti per tante ore a vivere in famiglie con le quali spesso non è facile andare d’accordo, e hanno dovuto aderire alle lezioni con i docenti su piattaforme dai nomi a volte impronunciabili, a volte brevi, suggeritori di velocita’. I docenti, d’ altro canto, soprattutto quelli non più giovanissimi hanno dovuto avvicinarsi volenti o nolenti, alla tecnologia per continuare ad insegnare. I ragazzi, tra di loro, erano già avvezzi a comunicare in modo virtuale, e quindi forse per loro non è cambiato tantissimo, anche se rimango convinta che nulla di meglio possa esserci , anche per loro,della comunicazione vis a vis. E non è stata per me una scoperta degli ultimi mesi, sapevo già quanto possa penalizzare non avere l’ altro davanti a sé. Forse sono una terapeuta vecchio stampo, ma sono ancora convinta dell’ importanza del dialogo diretto e non mediato dallo schermo di un PC. In questi mesi, infatti, anche noi curanti abbiamo dovuto riorganizzare il nostro modo di lavorare tramite Skype, per lo più, che è stata la piattaforma che la nostra Asl ci ha messo a disposizione per connetterci ai nostri utenti. Ma io rimango convinta che la vera connessione sia altra, quella neuronale, che, però, non può fare a meno dello sguardo diretto, penalizzato dalla immagine resa a volte asincrona con la parola, perché questi strumenti elettronici, benché sembrino macchine perfette, perfette non sono. A volte ho sentito su di me tutto il peso della frustrazione di questo tipo di comunicazione mutilata, il peso di non poter fare una carezza ad una ragazza che mi racconta in lacrime la sua storia. La comunicazione è fatta di gesti e di parole, e qui, in questi ultimi mesi, abbiamo avuto tutto, ma solo a metà. Tornavo a casa distrutta la sera, credevo fosse per i bombardamenti mediatici in radio, anche nel breve tragitto dal lavoro a casa, sulla infezione da Covid 19. Ma, ora so, non era solo quello. Mi mancavano i miei pazienti. Mi è mancato non averli dall’ altro lato della scrivania, come sempre. Mi è mancato, nelle visite non procrastinabili che abbiamo effettuato in ambulatorio, non potermi sporgere verso di loro, come solitamente faccio. Mi è costato mantenere la distanza di almeno un metro. La comunicazione tramite Skype ci ha aiutato tanto a mantenere i contatti, ma ci ha privato della capacità di emozionarci e di percepire le altrui emozioni. È per questo che spero si possa tornare al più presto alla vecchia normalità, spero che Skype o qualsiasi altra piattaforma dal nome impronunciabile, non diventi per qualcuno di noi una abitudine, che priverebbe chi è curato di una vera relazione terapeutica, che non può essere questa. Questa è stata un surrogato utilissimo in questo periodo di distanziamento oltre che sociale ed umano, anche terapeutico. Non dimentichiamo, come sostiene Umberto Galimberti che la tecnica deve essere solo uno strumento asservito all’ uomo che, dal canto suo, non ne deve diventare schiavo.

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