Introduzione
Un buon processo di motivazione del personale che fa parte di un’Azienda (mi riferisco in particolare alle Aziende Sanitarie in cui lavoro come Dirigente medico Psichiatra, ma il discorso è assolutamente estensibile ad ogni tipo di azienda), non è un fattore a se stante, ma ha il potere di qualificare positivamente l’Azienda, essendo alla base di progressi di cui l’Azienda stessa può fregiarsi a livello qualitativo, finanziario e pertinente al reddito della Azienda stessa. In questo senso la Risorsa Umana, come fattore portante della struttura aziendale, non può essere considerata a prescindere dal comportamento umano e dai fattori psicologici ad esso collegati. In realtà non si può affermare che le “risorse umane” siano sempre state considerate nel corso del tempo come fattore imprescindibile per il buon andamento di un’azienda. Infatti, il percorso di aziendalizzazione della Sanità ha privilegiato per anni altri strumenti di gestione aziendale miranti a valorizzare concretamente il concetto di aziendalizzazione, ossia il budget, il sistema di controllo di gestione e la creazione di ruoli di direzione.
Questo tipo di prospettiva ha, però, sottovalutato l’importanza delle risorse umane, come se il singolo individuo non fosse un “pezzo” fondamentale nel puzzle dell’azienda, sebbene i sistemi di gestione per “competenze” e la formazione del personale siano fondamentali, non solo per la necessità di adeguare tecnicamente le competenze alle nuove esigenze, ma anche come strumento indispensabile per realizzare lo stesso processo di cambiamento.
Il concetto stesso di “competenza” ha subito una evoluzione nel tempo, passando da una concezione “statica” ad una visione più “dinamica” della stessa, laddove si riconosce la centralità dell’individuo come soggetto attivo, consentendo una personalizzazione dei percorsi formativi, non sempre coincidenti con una formazione di tipo tradizionale, ed una valorizzazione delle conoscenze del sapere già posseduto. Questo concetto è diventato quanto mai evidente negli ultimi tempi, quelli della pandemia da Covid-19, in cui si è reso fondamentale per alcune specifiche categorie di lavoratori, onde evitare il più possibile il diffondersi del virus, lavorare tramite “smart working”.
A livello manageriale la competenza si fonda sul concetto di “performance” e, come tale, è associata alla gestione strategica delle imprese. La competenza professionale, quindi, non è solo il risultato di un processo di apprendimento di conoscenze, ma anche di caratteristiche di personalità che permettono all’individuo di comprendere le richieste e mettere in atto comportamenti professionali adeguati per rispondere alle esigenze lavorative nel contesto organizzativo. Favretto G. (2010) ritiene che sia importante una valorizzazione delle risorse umane e delle loro competenze, in quanto gli individui devono essere messi in condizione di poter esprimere delle performance eccellenti. La competenza, dunque, racchiude in sé più fattori, tra cui la capacità che ognuno di noi può avere di eseguire con successo una determinata prestazione, a patto che trovi attorno a sé sollecitazioni ambientali favorevoli affinchè questa qualità si possa manifestare; le conoscenze, che possono accrescersi nel tempo; le esperienze finalizzate, che fanno in modo che dalle conoscenze teoriche si passi all’acquisizione di abilità pratiche.
La risorsa umana è dotata di una dimensione comportamentale, che permette di raggiungere gli obiettivi che sono richiesti dal ruolo che si deve svolgere, ma alla base della performance è la competenza, che appartiene, invece, alla dimensione psicologica. La dimensione psicologica riveste un ruolo molto importante, poiché è pertinente non solo agli obiettivi “dovuti” a seconda del proprio ruolo, ma anche alla importanza che viene data a certi obiettivi in base ad una scala di valori che può essere variabile per ognuno di noi. Ci sono, infatti, persone che prediligono i valori familiari rispetto a quelli legati al mondo del lavoro, preferendo quindi una tipologia di lavoro che lasci abbastanza spazio da dedicare alla famiglia; invece ci sono individui che desiderano un lavoro dinamico, a contatto con l’esterno, e non si preoccupano di sottrarre tempo alla propria vita privata. Per avere influenza, quindi, sulle motivazioni delle persone bisogna agire sui valori che queste ritengono importanti. Fondamentalmente le motivazioni individuali devono trovare un fil rouge con gli obiettivi aziendali e perché questo accada è necessario che le aziende rispettino l’individuo per poter giungere ad una maggiore uguaglianza di intenti tra individuo e mondo del lavoro, in vista di performance migliori da parte del proprio management e dal personale. La motivazione non può darsi per scontata ma si snoda e sviluppa attraverso un processo, che trae origine dagli studi di psicologia indicati sotto il nome di ” teorie della personalità “. Il processo motivazionale, d’altro canto, deriva da uno stato “misto” tra l’intreccio dovuto, da un lato, alla consapevolezza del lavoratore di dover appagare le aspettative dell’azienda e, dall’altro, di vedere soddisfatti determinati propri bisogni. La motivazione è legata al bisogno, che, per definizione, è “la mancanza” di qualcosa, che induce l’individuo ad agire per procurarsela: l’uomo, in altri termini, per soddisfare il bisogno tende alla conquista di quel bene o di quella condizione di cui avverte la mancanza. Questa mancanza può essere definita come: naturale, se è intrinseca al nostro naturale modo di essere, ad esempio, alimentarci è un bisogno necessario alla nostra sopravvivenza; oppure acquisita, se non è tesa a soddisfare esclusivamente il nostro “vivere” di per sé, ma il nostro vivere in relazione all’altro, cioè il nostro vivere nella società ed il nostro relazionarci con gli altri. La motivazione può quindi essere identificata con un fattore psicologico, più o meno consapevole, che predispone l’individuo a compiere certe azioni o a tendere verso certi fini. Tali fini possono identificarsi con quelli aziendali o entrare in contrasto con essi: nel primo caso la situazione è considerata ideale, mentre nel secondo, la situazione è critica ed occorre intraprendere delle misure correttive. E’ in tale contesto che la struttura organizzativa dell’azienda diventa strumento per l’identificazione e la soddisfazione dei bisogni che fanno da sottofondo alle motivazioni dei dipendenti e del loro comportamento operativo. Nell’ambito dell’azienda i comportamenti sono motivati, ossia presuppongono che ci sia un motivo che spinga all’azione per il raggiungimento di uno scopo, ma il comportamento è influenzato sia dall’ambiente interno che da quello esterno all’azienda. Appare, quindi, necessario, considerare più variabili della motivazione: la motivazione a partecipare, che induce l’individuo ad accettare l’inserimento nell’organizzazione, e la motivazione a produrre che spinge ad assicurare la produttività richiesta dall’organizzazione stessa. Le principali teorie della motivazioni sono state introdotte dalla scuola delle Relazioni Umane: queste si inseriscono nel dibattito sul taylorismo che ha una visione economica, meccanicistica e fisiologica dei problemi aziendali, sottovalutando le caratteristiche e le esigenze dei singoli individui. A partire dagli anni ’50 si sviluppano due filoni di studi, quello dei cosiddetti “Motivazionalisti” e quello delle “Risorse Umane”.
Due correnti di studi
I Motivazionalisti
Per quanto riguarda la corrente di studi sulle motivazioni al lavoro, si può affermare che essa cerca una spiegazione ai comportamenti umani (e in particolare a quelli organizzativi) partendo dai bisogni dell’uomo (cioè dal senso di necessità di qualcosa), e dalle azioni che l’individuo intraprende per procurarsi quel bene o quelle condizioni di cui avverte la mancanza. Attraverso la comprensione dei bisogni delle persone e la ricerca di soluzioni per soddisfarli è possibile ottenere che gli individui mobilitino energie e conseguano più elevati livelli di rendimento. Questo filone di ricerche inizia con Abram Maslow (1954), uno psicologo che elabora una teoria della motivazione incentrata sui bisogni interni, di cui propone una classificazione in primari, sociali e psicologici, stabilendo una scala di priorità per la loro soddisfazione. Questi studi hanno il loro momento di massimo sviluppo negli anni ’60 con esponenti tra i quali Frederik Herzberg e Victor Vroom (2015).
Secondo Maslow l’uomo è motivato ad agire dall’intento di soddisfare una serie di bisogni che egli pone secondo una struttura gerarchica costruita a piramide. Alla base della piramide troviamo i bisogni di più basso livello (materiale), per salire lungo i gradini della piramide, verso bisogni di più alto livello (spirituale). Secondo questa teoria l’uomo non avverte i bisogni più elevati, se prima non ha soddisfatto quelli del gradino inferiore.
Maslow ha classificato i bisogni in cinque categorie, che, dal basso verso l’alto, sono così suddivisi:
1. Bisogni di sopravvivenza (o fisiologici): sono quelli strettamente connessi alla sopravvivenza materiale dell’individuo (alimentarsi, dormire, mantenere il proprio corpo in equilibrio).
2. Bisogni di sicurezza: si riferiscono alla necessità per l’individuo di garantirsi un futuro, ossia la protezione dai rischi, compresa la conservazione della propria integrità fisica, la certezza del lavoro.
3. Bisogni sociali (o associativi): quando l’uomo ha soddisfatto i suoi bisogni fisiologici e di sicurezza, garantendosi quindi la sopravvivenza e l’esistenza nel tempo futuro, il suo comportamento viene motivato da bisogni riconducibili ad esigenze sociali (appartenenza ad un gruppo, formale o informale, di eguali; dare e ricevere amicizia ed amore). Sul piano aziendale, numerose ricerche hanno dimostrato che un gruppo di lavoro, operante in stretta collaborazione e in buona armonia, può, in condizioni adatte, essere molto più efficiente di un gruppo laddove ogni singolo individuo mantiene intatta la propria singolarità, come dire che la somma degli “addendi” ( in una ipotetica operazione matematica) che lavorano è superiore al lavoro di ognuno di essi compiuto da solo.
4. Bisogni di stima (o dell’io): si tratta di una categoria di bisogni particolarmente importante sia per l’individuo che per l’azienda presso la quale presta la propria opera. Questi bisogni possono avere una duplice origine:
• la valutazione che il singolo ha di sé e che si traduce nel bisogno di rispetto, di fiducia in sé stesso, di autonomia, di affermazione, di competenza, di conoscenza;
• la reputazione di cui il singolo gode all’esterno e che si traduce in bisogni di riconoscimento dei propri meriti, di apprezzamento, di rispetto da parte dei propri simili.
5. Bisogni di autorealizzazione: sono situati al vertice della gerarchia dei bisogni umani indicano il bisogno di realizzare le proprie capacità potenziali, di svilupparsi e crescere in modo autonomo e costante, di essere creativi e ricchi di ingegnosità. Secondo Maslow soltanto una minoranza di individui procede in tutti e cinque i gradini della piramide, mentre la maggior parte di essi si ferma al terzo.
Nell’ottica del manager, ogni gradino della Piramide di Maslow può rappresentare un’occasione per motivare i suoi uomini, soddisfacendone a suo modo e nei propri limiti, i bisogni. A parte il bisogno di sopravvivenza, che è fondamentale per chiunque, il manager dell’Azienda può soddisfare il bisogno di sicurezza dei propri uomini, ponendosi come loro interlocutore rispetto all’azienda e alle sue esigenze. Egli può soddisfare i bisogni associativi favorendo la coesione del gruppo di lavoro e stabilendo obiettivi di gruppo e non soltanto individuali. La funzione del manager è quella di una leadership che stimola, guida il suo personale con autorevolezza e non autoritarismo. Fare insieme, guidare stando accanto agli altri, non prevaricandoli, ma accompagnando la crescita di chi lavora nel team, e non solo dimostrare di saper fare, dovrebbe essere la sua mission. Questo stile di leadership è definito “partecipativo”. Soddisfare il bisogno di autorealizzazione degli uomini significa sviluppare in essi un senso di responsabilità ed un attaccamento al lavoro che sono alla base di una elevata produttività. Più stimolanti sono i lavori, più partecipativo, cooperativo e democratico sarà il clima lavorativo. Con il passare degli anni, all’incirca dopo il 1968, questa sequenzialità piramidale ideata da Maslow fu da lui rielaborata, introducendo una nuova tipologia di bisogni umani costituita da due classi:
1) Bisogni da deficit, che spingono l’individuo a colmare le carenze organiche e psicologiche (bisogni fisiologici e di sicurezza);
2) Bisogni collegati con la crescita dell’individuo, che lo spingono a realizzare sé stesso (bisogni sociali, di stima, di autorealizzazione).
Inoltre nella vita reale è difficile che un bisogno più basilare venga interamente soddisfatto e quindi è anche possibile passare ad un livello superiore, pur con una soddisfazione solo parziale di quello inferiore. Questo porta ad una compresenza dei diversi bisogni nei vari momenti dello sviluppo psicologico durante il quale si modifica parzialmente l’importanza relativa, il numero e la varietà dei bisogni stessi, con il risultato, però, che l’azienda avrà maggiori possibilità di conseguire con successo i propri obiettivi istituzionali.
Sulla scia di Maslow, anche altri studiosi (ai quali farò solo cenno per mancanza di spazio), come F. Herzberg ( 2005) si sono occupati dell’approccio motivazionale e dei conseguenti sentimenti di piacere e di dispiacere, individuando che possono esistere persone felici anche se non hanno realizzato una propria crescita psicologica, e dunque anche se svolgono lavori routinari, subalterni e privi di responsabilità: ad ogni individuo corrisponde una mansione adeguata alle sue capacità. V. Vroom (2014) non si chiese cosa cercano le persone nel loro lavoro, bensì perché le persone lavorano. Sulla base di una serie di indagini miranti a studiare le aspirazioni dei singoli e le loro finalità, Vroom elabora quella che viene definita la teoria “aspettativa-valore”, il cui elemento di forte novità è dato dalla natura soggettiva che determina la motivazione. Ciò significa che non è solo il valore percepito, attribuibile al risultato perseguito, a determinare una attivazione motivazionale (concetto base delle teorie motivazionaliste precedenti), ma vi è anche una valutazione soggettiva, svincolata da ogni logica razionale, a provocare la motivazione e la conseguente azione. Il soggetto, cioè, si muove verso un risultato in modo motivato se e solo se il risultato ha un valore ritenuto soddisfacente e se esso presenta un’alta probabilità (soggettiva) di essere pienamente raggiunto. La motivazione ha una forza direttamente proporzionale alla aspettativa (data dalla probabilità soggettiva di raggiungere l’obiettivo) e alla valenza che l’individuo riconosce soggettivamente al fine da raggiungere, cioè la soddisfazione del lavoratore deriva dal raggiungimento di quei risultati per cui ogni individuo è motivato ad agire. Il conseguimento della soddisfazione non dipende infatti solo dalla progettazione di adeguate variabili organizzative (condizioni del lavoro, leadership), ma è soprattutto in funzione della conoscenza della sfera soggettiva dell’individuo la quale filtra e valuta, in maniera determinante, le stesse variabili organizzative. Considerare il problema della motivazione con riferimento a classi di individui, prescindendo dalle peculiarità soggettive, potrebbe determinare risposte organizzative inefficaci.
Il filone delle Risorse Umane
Gli esponenti di questo filone ritengono che la dignità umana è un valore fondamentale per cui le condizioni di lavoro, oltre che rispettare la personalità degli individui, devono consentire loro di crescere anche sotto il profilo psicologico. In sostanza, si pone l’esigenza che le persone trovino soddisfazione nel lavoro svolto e possano partecipare realmente alla realizzazione dei fini organizzativi; esse vengono considerate quale mezzo ideale per conseguire alti livelli di efficienza. Tra gli studiosi che condividono questa impostazione vi sono: Chris Argyris, Douglas McGregor e Rensis Likert (1965). Argyris propone il modello della integrazione reciproca dove il rapporto tra individuo e organizzazione viene analizzato sulla base di una processo di autorealizzazione che interessa sia l’individuo che l’organizzazione stessa. L’autore parte con il constatare che l’individuo è caratterizzato da una crescita psicologica evolutiva che avviene sulla base del passaggio da modi rituali e abitudinari di comportamento a una pluralità di comportamenti, da una inconsapevolezza di fondo ad una autocoscienza consapevole. Argyris sostiene che ogni individuo fissa i propri obiettivi e cerca di raggiungerli. Gli individui sono membri che agiscono nell’organizzazione e che apprendono per l’organizzazione, la quale realizza i suoi obiettivi se l’apprendimento individuale si risolve in apprendimento organizzativo. Douglas McGregor ha proposto “La Teoria X e la Teoria Y”, che parte dal presupposto che gran parte delle soddisfazioni che il dipendente ricava dalla sua vita lavorativa, dipende dal rapporto che il diretto superiore è capace di instaurare con lui. Questo rapporto a sua volta, viene determinato dalla visione che il superiore ha della natura umana. La teoria di McGregor si focalizza sulla definizione di due possibili concezioni antitetiche circa la natura dell’uomo e il suo comportamento nel lavoro. Secondo la Teoria X la direzione e il controllo dei subordinati devono essere esercitati attraverso l’autorità in quanto il lavoratore:
• non ama il lavoro in senso assoluto;
• deve essere obbligato a lavorare;
• preferisce essere guidato;
• non ama assumersi responsabilità;
• non ha ambizioni.
Tali dati consentono di concludere che questo individuo è motivato esclusivamente da ricompense economiche, e poiché non ama assumersi responsabilità, il tempo e gli sforzi impiegati a cercare di indurlo ad esprimere il proprio potenziale sono inutili.
La Teoria Y suggerisce che tutti gli individui hanno un potenziale da esprimere e che lo faranno solamente se troveranno un’adeguata motivazione. Il lavoratore:
• ama il lavoro in quanto fonte di soddisfazioni;
• desidera conseguire degli obiettivi;
• è capace di risolvere da solo i suoi problemi;
• può positivamente contribuire al successo dell’organizzazione;
• desidera essere produttivo;
• ama la responsabilità.
McGregor ritiene che la maggioranza dei lavoratori è stata condizionata dall’ambiente di lavoro a reagire più nell’ottica della Teoria X che della Teoria Y.
Il manager che vuole dai suoi uomini lo sviluppo del loro massimo potenziale, e questo dovrebbe essere l’atteggiamento di un buon manager, deve muoversi nell’ottica della Teoria Y, senza illudersi che un dipendente abituato ad essere regolarmente trattato secondo uno stile direttivo, possa volontariamente comportarsi come se operasse in un contesto partecipativo. Quando, invece, l’ambiente e il contenuto del lavoro sono stimolanti, lasciando spazio all’iniziativa individuale, e valorizzando le capacità più elevate, nel lavoratore potranno emergere altre motivazioni che lo spingeranno ad assumersi le responsabilità ed a conquistarsi l’autonomia.
McGregor rileva come molti manager, per l’incapacità di delegare ai propri dipendenti parte delle proprie responsabilità, e di concedere stima e fiducia ai collaboratori, privino la propria azienda di un notevole contributo che sarebbe possibile ottenere da costoro, procurando un grosso danno all’organizzazione. Il compito fondamentale della direzione è quello di creare condizioni organizzative e metodi operativi tali da permettere ad ogni dipendente di raggiungere meglio i propri obiettivi, indirizzando nello stesso tempo i suoi sforzi verso quelli aziendali. Questa teoria fu divulgata agli inizi degli anni ’60 ma è ancora oggi attualissima, perché dopo oltre 30 anni le teorie sulla ” gestione delle risorse umane “, si pongono ancora come obiettivo principale la realizzazione della partecipazione spontanea dei lavoratori attraverso la condivisione degli obiettivi.
Il contributo di Likert e della “Nuova teoria dell’organizzazione”si caratterizza per il fatto che lo studio del rapporto tra individuo ed organizzazione si risolve non solo nella individuazione di una direzione ottimale, ma, anche e soprattutto, nell’identificare una vera e propria struttura organizzativa ideale. Likert sostiene che non necessariamente un alto rendimento sia unicamente e costantemente espressione di una elevata soddisfazione: esistono, infatti, dei lavoratori routinari per i quali, anche con una bassa motivazione, il rendimento risulta pari a livelli standard. Questo comporta che per compiti più complessi e non routinari, richiedenti creatività, e che rappresentano una componente rilevante dell’attività di una moderna organizzazione, Likert elabora una specifica teoria organizzativa volta a bilanciare le esigenze motivazionali dell’individuo con le necessità dell’organizzazione di gestire tali compiti complessi con elevata produttività ed efficienza. Per far ciò, pur non riconoscendo alla soddisfazione dell’individuo un ruolo assoluto, ma attribuendogli comunque una importanza notevole, Likert cerca di ottimizzare il rapporto tra organizzazione e individuo, tramite un approccio motivazionale a una nuova teoria dell’organizzazione e della direzione aziendale, la quale, partendo dall’utilizzo delle parti più idonee delle teorie tradizionali, mira al raggiungimento di fattori motivazionali da impiegarsi coordinatamente con l’intento di creare una sinergia tra tutti i membri e realizzare i propri obiettivi. Una motivazione elevata si può raggiungere tramite la creazione di un gruppo di lavoro ( costituito dal manager e dai dipendenti dell’azienda) attivo e comunicativo, che può favorire l’interazione, il coordinamento e la motivazionale alla base di una organizzazione di successo delle risorse umane. In conclusione l’elemento cardine di tutte le teorie analizzate è individuato nel riconoscere al fattore umano un ruolo cruciale all’interno dell’organizzazione, che può risultare ancora più motivante degli incentivi economici. Quindi si consolida la tesi secondo cui non esiste organizzazione senza uomo, né organizzazione aziendale senza la conoscenza della dinamica psicologica e sociologica del fattore umano.
Conclusioni
Il ruolo dell’Azienda non può più essere lontano dall’operatività quotidiana del singolo: chi gestisce un team deve portare avanti un gruppo di lavoratori. Produttività e controllo non possono essere sganciate dalla soddisfazione di chi produce lavoro. Abbiamo bisogno di creare ambienti in cui il lavoratore deve diventare autonomo e trarre soddisfazione da quanto fa.
Si può riassumere questo in 5 passi:
1. La fiducia: il lavoro viene compreso e condiviso da ognuno (delega). Spesso la delega non avviene perché il Direttore del Dipartimento (ne parlo in campo sanitario, ma ovviamente il concetto è applicabile in ogni altro settore aziendale, ad ogni Leadership), teme di non avere sotto più controllo l’azienda, ritiene che si perda troppo tempo in spiegazioni, pensa di non avere collaboratori all’altezza del compito, “non ho gli uomini adatti”, “se faccio da solo, faccio prima”, “se i miei collaboratori crescono e poi se ne vanno?”. In questo senso siamo “noi”, futuri Direttori, una Leadership carente, il primo ostacolo alla operatività ed alla fiducia, facendo, invece, prevalere il controllo. Ma per imparare a delegare bisogna necessariamente conoscere meglio le persone con cui si lavora.
2. Il dialogo: obiettivi chiari rispetto a chi sono le persone coinvolte, con quali risultati attesi ed il tempo in cui ottenerli. Le riunioni devono avere la finalità di chiarire ad ognuno le informazioni necessarie per mettere in campo la propria operatività.
3. La cultura: vision, valori e regole. Ognuno di noi deve avere la sensazione di essere parte di un qualcosa, di avere un sistema valoriale comune, il senso di appartenenza, avere obiettivi comuni, avere un linguaggio comune, compreso il “non detto” ( la vision), per potersi intendere in modo più completo. La mission può tenere le persone unite, ma quello che determina la cultura è il modus operandi, una relazione sul luogo di lavoro.
4. Confronto: riunione, che deve essere un momento di condivisione e accrescimento e non deve generare paura del conflitto, ma consapevolezza che ognuno fa quello che può fare (dopo aver ricevuto una adeguata formazione). In questo modo la Leadership non avrà più necessità di “controllare”, perché ognuno dei componenti dell’azienda si sentirà investito di una sua responsabilità.
5. Lavoro di Team: Team leadership (lavoro di squadra, a patto che le squadre si parlino), laddove si viva in un clima di autonomia condivisa.
Bibliografia
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Herzberg F., Vroom V. (2015) cit in: Impresa e Management Competitività e pregresso, a cura di Claudio Baccarani, Federico Brunetti, Elena Giaretta, G. Giappichelli editore Torino
Maslow A. (1954), (Motivation and Personality, Harper & Row; First Edition
V. Vroom V. ( 2014) in: M S Macinati, M G. Rizzo, G. D’Agostino, Partecipazione al processo di budget, accuratezza e utilità delle informazioni di budget e performance: i risultati di un caso studi, Franco Angeli, pp. 55-75, riv. Mecosan: management ed economia sanitaria: 92, 4
Altre fonti consultate
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Flyn, W.J., Mathis, R.L., Jakcson, J.H., Valentine, S. R. (2016) Healthcare Human Resource Management, 3rd. Edition. Boston, MA, USA Cengage Learning.
